Autore: Paolo Marini (Sailor 38)
Prima che la Jugoslavia cessasse di chiamarsi così, prima che la maledetta guerra sconvolgesse quel paese, per gli amanti delle immersioni e della piccola nautica da diporto non c’era luogo più idoneo, proprio dietro l’angolo di casa, per trascorrere meravigliose vacanze.
Non bisogna, inoltre, sottovalutare che, tra il favore del cambio ed il basso tenore di vita, la Jugoslavia offriva anche l’innegabile vantaggio di un consistente risparmio: basti pensare che con l’equivalente di una settimana in Costa Rei, od a Santa Teresa di Gallura, si sarebbe potuto soggiornare un mese a Curzola o Lissa.
Per tutte queste ragioni sono stato ben tre volte in quel paese e la storia che sto per raccontare si svolse, se la memoria non mi tradisce, nella lontana estate del 1981.
Sul relitto dei Cechi
Ero in un camping di cui ricordo ancora lo strano nome: il “Prapratno”, unico insediamento umano situato in una insenatura deserta della costa, non lontano da Ston.
Ero lì con la tenda ed uno Zodiac MK3 spinto da un Evinrude da 25 Hp.
Come avviene sempre, quando si campeggia, avevo fatto conoscenza con diversi altri campeggiatori, ma l’amicizia che mi legò a Milan ed alla sua comitiva di poveri diavoli fu particolare.
Milan era il leader di un gruppo formato da una dozzina di persone, un terzo delle quali erano donne.
Venivano dalla Cecoslovacchia e viaggiavano con un unico mezzo: un vecchissimo autobus che serviva loro anche da cucina, dormitorio, magazzino e chissà cos’altro!
Venni a conoscenza, dai loro racconti, che per avere il permesso di potersi recare all’estero, ognuno di loro aveva lasciato in Cecoslovacchia un parente stretto … praticamente in ostaggio.
Non c’è nessuna ragione di credere che Milan mi abbia raccontato delle frottole, eravamo negli anni ottanta ed evidentemente la cosa era plausibile!
Eccetto le ragazze, erano tutti subacquei ed avevano anche un mezzo nautico che, in verità, bisogna proprio essere degli ottimisti per chiamare natante!
Quando “navigava”, con cinque di loro a bordo, l’acqua copriva il tientibene e se appena c’era un po’ d’onda erano costretti a sgottare continuamente.
Erano veramente dei poveri sub, ma erano coraggiosi, appassionati del mare ed industriosi come neanche noi italiani, famosi nell’arte di arrangiarsi, avremmo potuto essere!
Per questi motivi avevano tutta la mia simpatia ed il mio affetto e fui felice di essere loro amico aiutandoli dove e come potevo.
Non avevo portato i gruppi, quella volta, dato che non c’era speranza, in quei paraggi, di trovare un qualsiasi centro ricarica, ma mi avvidi che loro ne usavano e scoprii allora che, tra le numerose ed eterogenee suppellettili del loro equipaggiamento, esisteva anche un vetusto ma efficace compressore.
Non lo avevo mai notato in funzione perché, lo scoprii in seguito, era attivato, non so come, da una cinghia trapezoidale in derivazione dal motore stesso dell’autobus … ed io che pensavo lo mettevano in moto per caricare le batterie!
Diverse volte uscii con loro e più di una volta mi offrirono di usare un loro gruppo.
Ad essere sincero, accettai una sola volta, non perché fossi incline ai complimenti ma perché mi fidavo poco a scendere in acqua con l’anticaglia di cui disponevano, né mi fidavo della qualità d’aria che quel compressore, presumibilmente, poteva fornire.
Avevo torto naturalmente e lo potei constatare quell’unica volta che accettai.
Forse le bombole non avrebbero passato un nostro collaudo alla Dalmine, ma gli erogatori, a dispetto della loro apparenza, funzionavano a meraviglia e l’aria che respirai era pulita ed insapore!
Ci fu però una ragione precisa che m’indusse ad accettare quella loro ennesima offerta.
Avevano scoperto, a trenta metri, il relitto di una “schnell-boot”, una grossa motosilurante tedesca e si stavano portando nel campeggio tutto ciò che trovavano e potevano asportare.
Fui invitato a salire sul tetto del loro autobus per visionare i reperti e rimasi allibito: proiettili di contraerea, un berretto con visiera da ufficiale della Kriegsmarine, alcuni elmetti, una baionetta, un binocolo Zeiss, diverse posate con la svastica impressa sui manici, tazze di metallo smaltate, gavette e, dulcis in fundo, uno stivale contenente ancora il malleolo dello sfortunato proprietario.
Tutto, logicamente, era in pessime condizioni e mi meravigliai che, dopo quasi trentasette anni, alcune cose che non sarebbero più dovute esistere fossero invece riuscite a sopravvivere.
Chiesi a Milan come mai invece, secondo lui, si erano conservate fino ad allora e mi riferì che, nella loro ricerca, avevano anche dovuto scavare nella sabbia, tutt’intorno al relitto: era evidente che la sabbia stessa le aveva un po’ protette dalla corrosione totale.
Poi Milan mi confessò che in sostanza non c’era più niente da prendere se non … la mitragliera di prua, che si era staccata dal suo supporto e giaceva sul fondo.
Io non parlo ceco, né loro l’italiano, ma con quel poco d’inglese che sapevamo, aiutandoci con la mimica e con i disegni riuscimmo, bene o male, ad intenderci e fu così che concordammo il recupero di quel pezzo che, a loro dire, non doveva pesare più di duecento chili, poiché in quattro erano riusciti a sollevarlo.
Se ci penso oggi non posso fare a meno di pensare che, per fare certe cose, bisogna essere un po’ matti, matti e giovani!
Passai la serata a rigirarmi nella mente tutte le notizie fino ad allora apprese sui recuperi ed a pianificare una sorta di progetto cercando di vagliare tutte le eventualità e le possibili soluzioni.
Quando mi addormentai, molto più tardi, sapevo ciò che avremmo dovuto fare.
L’indomani esposi accuratamente il piano a Milan, lui capì ed approvò, spiegandolo e discutendolo con i compagni.
Caricammo tutti i gruppi sul mio gommone e partimmo per il luogo dell’immersione.
Avevo avuto cura di preparare il rullo d’alaggio che usavo per lo Zodiac nel modo seguente: tolta la valvola con il tappo di chiusura, lo avevo arrotolato così strettamente da farlo diventare un nastro di gomma, poi avevo rimesso la valvola, chiuso il tappo e quello era rimasto schiacciato ed arrotolato, sottovuoto.
In seguito avevo legato, ai fori dei supporti situati alle due estremità, dei lunghi pezzi di robusta cima.
Una quarantina di metri di grossa cima per ancora completava la bisogna.
Milan mi precedeva sul suo gommone con altri due compagni, ma mi sarei immerso solo con lui e c’era una ragione: in tutto possedevano quattro gruppi e quattro erogatori e poiché a me sarebbero serviti due erogatori, un gruppo sarebbe rimasto inutilizzato.
Il terzo bibo sarebbe stato legato a nove metri sotto il gommone per le eventuali soste di decompressione.
A 30 metri avevamo 25 minuti a disposizione prima di uscire dalla curva e, per quello che avevamo bisogno di fare, sarebbero dovuti bastare!
Quando fummo sul posto, i cechi si assicurarono di essere sulla verticale del relitto e demmo fondo alle ancore.
Milan ed io ci disponemmo all’immersione: io mi strinsi al petto il rullo d’alaggio arrotolato, Milan prese il capo dei 40 metri di cima che avevo preparato (l’altro capo era stato assicurato al tientibene dello Zodiac) e ci tuffammo nel blu.
Con la visibilità che c’era vedemmo subito il relitto e ci dirigemmo senza perder tempo verso la mitragliera, che giaceva rovesciata sulla sabbia.
Mentre scendevamo, non potei fare a meno di notare un grosso dentice solitario che, disturbato, abbandonò il suo girovagare intorno al relitto e sparì al largo.
Arrivati sul fondo, Milan cominciò ad assicurare, con un doppio passaggio, la cima proprio a metà dell’affusto, come avevamo convenuto, ed io cominciai a legare le cime del rullo alle estremità del pezzo d’artiglieria, una per parte.
Quando finimmo di fare i nodi Milan si sollevò di qualche metro sulla cima rimanendo sospeso a controllare, il suo compito era finito.
Tolsi la valvola del rullo d’alaggio e, con l’erogatore di scorta, cominciai a mandare aria nell’involucro.
Molta se ne sprecò, ma presto il rullo cominciò a gonfiarsi come un otre e quando lo giudicai abbastanza gonfio rimisi la valvola al suo posto, ben chiusa.
Che nessuno ora mi venga a dire che esistono i palloni di sollevamento, gli tiro una pinna!
Provai a sollevare il pezzo e questo, pur essendo ancora troppo pesante per una persona sola, si sollevò di una decina di centimetri facendomi supporre che il suo peso in acqua, ora, fosse meno della metà.
Ok, era quello che mi ero prefissato di ottenere.
Lentamente, accompagnato da Milan, risalii verso la superficie.
Ero ai limiti della curva di sicurezza ed avevo già messo la riserva perciò quando arrivai ai nove metri mi attaccai all’erogatore del gruppo di scorta e feci una breve sosta di un paio di minuti, poi salii a sei metri per altri cinque minuti ed infine a tre metri per circa dieci minuti.
Oltre ad essere stata un’immersione al limite di curva era stata anche abbastanza faticosa ed in questi casi è meglio essere prudenti dando retta agli antichi avi su quel fatto che è meglio abbondare che deficere.
Quando fummo a bordo dello Zodiac, trasferimmo tutti i gruppi sull’altro gommone.
Io restai al volante e Milan, con un compagno, cominciò ad alare la mitragliera che, così alleggerita, cominciò a venir su.
Fu fatta salire faticosamente per una decina di metri, poi ingranai la marcia e, ad un nodo, presi la rotta del ritorno.
Dopo una mezz’ora la cima di traino ci annunciò, con i suoi strappi e sobbalzi, che il fondale era diminuito.
Fermai lo Zodiac e Milan e compagno, riposati, si rimisero all’opera: l’affusto salì di un altro po’ ed io ripartii, sempre a passo di lumaca.
Con questo sistema, un tratto per volta, trasportammo quel pezzo di ferro davanti al campeggio, riuscendo a portarlo fino a meno di due metri d’acqua.
Qui il mio compito finì e tutti i cechi, donne comprese, quando fu notte, s’incaricarono di trasportarlo a riva occultandolo nel loro autobus.
Inutile dirvi dei ringraziamenti, il nostro soggiorno e le immersioni continuarono insieme e la nostra amicizia si rafforzò ulteriormente.
Date le difficoltà linguistiche, non fui in grado, in ogni caso, di chiarire cosa ne avrebbero fatto di quel residuato una volta tornati a casa.
Da quel po’ che mi parve di capire credo che fosse destinato ad avere un posto nella sede del loro Circolo.
L’unico rammarico è stato quello di non poter documentare con immagini quell’immersione, ma all’epoca non ero ancora attrezzato per farlo.
Quando se n’andarono, circa una settimana dopo, ci abbracciammo commossi e, consci che non ci saremmo mai più rivisti, ci vaniva da piangere, senza neanche vergognarci!
Sailor38
N.D.R.: abbiamo voluto ugualmente pubblicare questo articolo a testimonianza di ciò che succedeva in altri tempi, in altri Paesi, ma che purtroppo succede ancora oggi anche in Italia. Invitiamo tutti a riflettere su queste parole: ‘Non vale la pena portare in superficie oggetti che si deterioreranno o andranno ad impolverarsi in qualche cantina o verranno venduti a antiquari o rigattieri per pochi soldi. Rimuovere dei manufatti da un relitto significa cancellare, anche totalmente, le tracce che la storia ci ha lasciato; non è esagerato parlare di perdita della nostra memoria. Cosa ne rimarrebbe di quest’enorme fonte di conoscenza se ognuno di noi portasse via un pezzetto? Probabilmente nulla.’
Anche Paolo Marini, dopo 30 anni è d’accordo sulla nostra posizione. Ci raccomandiamo con tutti: guardare ma non toccare!
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