Claudia Campanini è la vincitrice del premio Pianeta Azzurro 2023, conosciamola meglio
Il premio “Il Pianeta Azzurro” viene assegnato a Claudia Campanini per la sua ricerca sul monitoraggio e la valutazione dell’impatto umano sulle barriere coralline di Okinawa, un arcipelago tropicale a sud del Giappone.
Premio “Il Pianeta azzurro” vuole essere un premio per promuovere l’utilizzo delle tecniche subacquee nella ricerca scientifica universitaria. Questo è l’obiettivo del premio che quest’anno è stato assegnato a Claudia Campanini.
Il premio si prefigge di promuovere l’utilizzo di queste tecniche, che sono fondamentali per la conoscenza dell’ambiente marino. L’osservazione diretta sott’acqua, infatti, consente agli studiosi di comprendere i processi naturali e le dinamiche degli ecosistemi marini con una esperienza diretta.
Quest’anno il premio è stato vinto da Claudia Campanini con la sua tesi:
La tesi di Claudia è stata valutata positivamente dalla commissione giudicatrice, che ha riconosciuto l’importanza dell’utilizzo delle tecniche subacquee per la sua realizzazione.
Ciao Claudia, innanzitutto complimenti per la vittoria del premio “Il Pianeta Azzurro”, siamo felici di poterti intervistare oggi e parlare di biologia e subacquea.
Intervista a Claudia Campanini, biologa e subacquea
Iniziamo con le domande,
Puoi raccontarci brevemente il tuo percorso prima di iniziare il tuo dottorato di ricerca?
La prima parte è facile: mi sono laureata in biologia all’Università di Bologna nel 2019 e sono poi partita per un tirocinio post-laurea con borsa Erasmus presso l’Istituto di Scienze del Mare (ICM-CSIC) a Barcellona. Dopo essere rientrata in Italia prematuramente per lo scoppio della pandemia, sono stata ammessa nel Master Internazionale in Risorse Biologiche Marine (IMBRSea). L’IMBRSea, come altri master internazionali (il corrispettivo in italiano sono le lauree magistrali) è organizzato da un consorzio di università e prevede che ci si possa spostare da un’università all’altra ogni semestre in base al corso di specializzazione scelto.
Nel mio caso, ecologia applicata e restauro degli ecosistemi marini con i seguenti spostamenti: Faro in Portogallo, Ghent in Belgio, Azzorre (Portogallo), Ancona e poi Giappone per la tesi. A poco più di un anno dalla laurea e dopo una borsa di ricerca a Palermo su un progetto di monitoraggio della pesca, eccomi di nuovo ad Ancona. Qui a novembre ho iniziato un dottorato di ricerca presso il Laboratorio di Zoologia Marina dell’Università Politecnica delle Marche.
Mi piacerebbe sviluppare un progetto su tecniche di monitoraggio dei fondali in subacquea, magari nel Mediterraneo, magari un po’ più in profondità avvalendomi della subacquea tecnica, ma ho iniziato da poco, quindi è tutto da definire.
Parliamo di biologia marina, come è nata questa passione? C’è un momento particolare che ha segnato questo inizio?
Più che un “momento particolare” direi che è stata la mia infanzia a farmi nascere questa passione. Mia madre è calabrese, mentre io mi definisco un ibrido calabro-romagnolo. Tutte le estati della mia vita le ho passate “a mare” in Calabria nello stabilimento balneare che gestivano i miei zii, sempre in acqua o in spiaggia. Ero alle elementari quando ho iniziato a dire che “da grande” volevo fare la biologa marina. Purtroppo però ho iniziato con la subacquea quando ero già all’università e se tornassi indietro inizierei molto prima, ma sto cercando di recuperare.
Hai sottolineato l’importanza dei corsi subacquei nella tua preparazione per la ricerca scientifica. In che modo le tecniche e le abilità apprese durante questi corsi ti hanno aiutato nella fase di campionamento per la tua tesi?
Premessa: ai biologi marini in generale non è richiesto di fare immersioni, la subacquea è una delle tecniche con cui si può studiare l’ambiente marino. Tuttavia, se si decide, come nel mio caso, di utilizzare la subacquea come strumento di ricerca, allora un’adeguata formazione è necessaria.
Mi piace paragonare le immersioni ricreative a “una passeggiata sott’acqua” perché, una volta che si ha dimestichezza e in assenza di fastidi/problemi, durante le immersioni di svago è come se si “passeggiasse sott’acqua”, con calma, prendendosi il tempo di ammirare quello che ci circonda ed eventualmente di scattare qualche foto.
Questo discorso non vale per la subacquea scientifica: ci si immerge con uno scopo ben preciso, spesso con strumentazione aggiuntiva e si deve essere il più possibile efficienti. Avere una buona padronanza della tecnica subacquea diventa quindi fondamentale perché non si tratta più di “una passeggiata sott’acqua”, ma di essere capace di compiere il proprio compito (fare foto, prelevare campioni, misurare, etc.), il tutto rimanendo in assetto, comunicando con gli altri subacquei, etc. Dopo il primo brevetto ho aspettato qualche anno prima di comprare una fotocamera subacquea per evitare distrazioni e concentrarmi su assetto, pinneggiata, etc.
Una volta che si ritiene di avere acquisito abbastanza competenze come subacqueo da poter gestire situazioni complesse sott’acqua, se interessati, allora potrebbe essere giunto il momento di passare alla subacquea scientifica. Esistono corsi appositi in cui ti vengono insegnate le tecniche più comuni di campionamento/monitoraggio e come pianificare un protocollo di ricerca in immersione. Se non ne avessi frequentato uno, avrei avuto molta più difficoltà nello scrivere il progetto di tesi.
La buona notizia è che esistono anche corsi più che validi di subacquea scientifica per tutti, non solo i professionisti, come il corso GUE Scientific Diver o il corso Reef Check Mediterraneo. L’unica pecca è che anche per i biologi marini, la maggior parte dei corsi di subacquea, inclusi quelli di subacquea scientifica, sono esterni all’ateneo. Si tratta quindi di una formazione parallela a quella accademica che nella maggior parte dei casi è a carico dello/a studente/essa (grazie mamma e papà).
Parlaci del tuo lavoro a Okinawa, hai fatto uno studio sulle barriere coralline impattate dagli umani nelle isole di Okinawa. Argomento interessante anche per il sub non specializzato, ce ne vuoi parlare brevemente?
Il progetto prevedeva di testare un nuovo protocollo di monitoraggio in subacquea che necessita di un gruppo di subacquei che agisce coordinatamente per raccogliere dati su diverse componenti dell’ecosistema marino. Nel mio caso, per esempio, mentre io scattavo foto ogni 30-40 centimetri a un metro di altezza dal fondale per 3 tratti, “transetti”, di 25 m, al mio fianco un collega scattava foto di tutti gli echinodermi (stelle, ricci, etc,) e molluschi (conchiglie, polpi, etc.), un altro ancora realizzava un video per identificare i pesci e stimare l’abbondanza di ciascuna specie, etc.
Il monitoraggio è stato quindi effettuato in 12 località di immersione più o meno impattate dagli umani, dall’isoletta paradisiaca di Akajima alla barriera corallina lungo il pontile di un porto o alle pendici di una cava di estrazione. Il risultato è stato sorprendente: la differenza è talmente evidente che non devi essere un biologo marino per notarla.
Attività di monitoraggio come quelle del mio progetto di tesi servono a noi ricercatori e in generale agli amministratori che poi dovranno prendere decisioni in ambito di tutela ambientale per conoscere la situazione attuale, osservare i cambiamenti in atto e provare a formulare ipotesi su scenari futuri.
Quali sono le speranze per il futuro delle barriere coralline? Ci sono dei modi in cui il mondo della subacquea può darvi un aiuto concreto?
Le barriere coralline come le conosciamo stanno subendo fortemente l’impatto umano, in particolare del cambiamento climatico. Le barriere coralline del futuro saranno probabilmente molto diverse da quelle di oggi, con altre specie che troveranno vantaggiose queste nuove condizioni ambientali a discapito di altre che scompariranno, con una perdita di biodiversità enorme per alcuni gruppi di organismi.
Purtroppo, un cambiamento di rotta o perlomeno un contenimento dei danni derivati dal cambiamento climatico richiede misure drastiche e a livello globale, ma ciò non significa che ciascuno non possa fare qualcosa nel suo piccolo nella vita di tutti i giorni.
Il mondo della subacquea può dare un aiuto concreto in molti modi per le barriere coralline e in generale gli ecosistemi marini: fare scelte di turismo subacqueo sostenibile evitando pratiche dannose come dare del cibo agli animali per attrarli, portare a casa conchiglie trofeo o altro (i trofei migliori delle immersioni sono la spazzatura che si rimuove dal mare), imporre il contatto con gli animali, etc.
Un altro favore che un subacqueo può fare concretamente alle barriere coralline e gli altri ecosistemi marini, per quanto sottovalutato, è migliorare la sua tecnica. Un subacqueo pur con le migliori intenzioni, se non ha una buona percezione di ciò che lo circonda e non padroneggia le tecniche di pinneggiata, è più a rischio di danneggiare inavvertitamente coralli e altri organismi, semplicemente per inesperienza.
Voglio concludere la risposta con una proposta per agire proattivamente per la conservazione degli ecosistemi marini: partecipate a progetti di citizen science (letteralmente “scienza dei cittadini”) perché danno un contributo fondamentale alla ricerca.
Consiglio, per esempio, il progetto “Observadores del mar” “Osservatori del mare” grazie al quale negli anni sono state raccolte più di 15000 segnalazioni di subacquei nel Mediterraneo e in altre aree nel mondo. Visitate il sito del progetto e più in generale cercate questo tipo di progetti anche prima di pianificare un viaggio subacqueo per arrivare “preparati”.
Hai viaggiato molto, queste esperienze hanno influenzato il tuo approccio alla conservazione marina?
È inevitabile, dopo tutti questi viaggi, perfino la mia dieta non è più la stessa. Per quanto riguarda la conservazione, mi ha fatto notare in modo sempre più evidente come l’educazione e l’informazione siano necessarie a tutti i livelli e che le popolazioni locali debbano essere coinvolte.
Dopo decenni di espansione edilizia e politiche miopi dal punto di vista ambientale, l’isola di Okinawa ha ad oggi più del 60% di linea costiera artificiale, con muri di cemento lungo la costa o in alcuni casi addirittura con la città stessa che poggia su quella che una volta era barriera corallina, sepolta per creare terreno edificabile. Oggi molte cittadine e cittadini di Okinawa stanno protestando per impedire ulteriore devastazione.
A proposito di coinvolgimento delle popolazioni locali, un altro aspetto critico della conservazione marina è la cosiddetta “scienza coloniale” o “scienza parassita” o “scienza paracadute”, cioè quando ricercatori di paesi ad alto reddito portano avanti progetti di ricerca o prelevano campioni da paesi o territori terzi con meno risorse senza coinvolgere esperti/ricercatori locali o addirittura senza riconoscerne il contributo.
È importante mettersi in ascolto quando si va a fare ricerca, provare a capire la complessità di ciascun territorio coinvolgendo le persone locali e mettendo a disposizione formazioni e competenze diverse.
Nel mio gruppo di ricerca a Okinawa eravamo una ventina, di tredici diverse nazionalità. Ci supportavamo nei rispettivi progetti, dal laboratorio alle immersioni, e meno male che potevamo contare sui colleghi giapponesi per districarci fra i meandri della burocrazia giapponese.
Sempre per chiudere con una nota positiva: il mio soggiorno di cinque mesi alle Azzorre mi ha fatto vedere come un arcipelago possa passare dal praticare la secolare caccia alla balena ad avere un’economia trainata dal turismo sostenibile con l’avvistamento dei cetacei e la subacquea. Ancora una volta, il cambiamento è possibile laddove c’è informazione, cooperazione, lungimiranza e la volontà politica.
Claudia, sul tuo sito parli di essere una “coding enthusiast”. Il mare e la tecnologia sono due passioni che ci accomunano. Quali sono i linguaggi di programmazione che preferisci e per cosa li usi?
Nel mio caso utilizzo principalmente R per l’analisi dei dati e markdown per la formattazione dei testi, ma durante la magistrale ho frequentato un corso su Arduino. Arduino è sia una piattaforma hardware che ti permette di costruire dispositivi elettronici con componenti modulari, ad esempio sensori, che un linguaggio di programmazione usato appunto per “programmare” questi dispositivi una volta assemblati.
Non per scoraggiare aspiranti biologi marini, ma se nell’immaginario comune i biologi sono sempre sott’acqua o per mare, in realtà se si lavora nella ricerca, in molti casi per la maggior parte del tempo si passa in laboratorio o dietro al computer.
Giusto per dare una dimensione di quanto ho detto: per il mio progetto di tesi abbiamo effettuato 2 immersioni in 12 località diverse per un totale di circa 24 ore di quella che per me resta la parte più divertente del mio lavoro. Considerando che solo per analizzare le foto di una singola immersione, impiegavo circa 15 ore nette di lavoro e che a contribuire all’analisi dei dati raccolti siamo in tre, scommetto che se avessimo segnato le ore di lavoro dedicate al progetto avremmo di gran lunga superato quota mille 1000.
In tutto ciò, ancora non abbiamo finito, ma contiamo di proporre a breve il manuscritto a una rivista scientifica per la pubblicazione.
In conclusione, visto che impiego buona parte del mio tempo facendo analisi dati, io sono fortunata perché sebbene preferisca stare sott’acqua, tutto sommato mi piace anche “smanettare” al computer.