Autore: Alessandra
Martella
Ci sono momenti della vita in cui il tempo scorre come un fiume impetuoso,
rapido e inarrestabile; altri in cui è come una quercia secolare, pesante e
immobile.
Questi sono in genere i momenti in cui si riceve una drammatica notizia o si
vive un grosso dolore.
Si entra in una bolla di pensieri e confusione e quando la bolla scoppia è
difficile quantificare se siano passati secondi, minuti, ore.
In quella fredda sala d’attesa dell’ospedale della mia città, io stavo vivendo
esattamente questo:
un momento senza tempo.
Mio padre era appena passato di li, steso sul solito letto, per entrare in
ascensore accompagnato da due infermieri del turno di giorno.
Destinazione : sala operatoria del piano superiore. Finalità: amputazione della
gamba sinistra.
Nello stesso istante in cui si sono chiuse le porte dell’ascensore si sono
aperte quelle dei miei ricordi, tutti legati alla sua irrefrenabile voglia di
vivere e di fare, di rendersi utile come se fosse un giovane all’inizio del
proprio cammino, come se il suo spirito non subisse affatto gli effetti dell’età
che avanza. Fino al giorno di quel maledetto incidente di due anni prima mio
padre era proprio così, un anziano che non conosceva affatto il significato di
questa parola.
Il mio momento senza tempo era un groviglio di memorie ma anche supposizioni.
Come potrà vivere un uomo cosi tanto vitale con una sola gamba? Quali parole
nuove dovrò usare per dargli forza, per non farlo cedere, per infondergli ancora
la voglia di vivere che ci ha sempre accomunati? Non riuscii a dare nemmeno una
risposta alle tante domande che mi vorticavano in testa perché l’altoparlante
dell’ospedale pronunciò raucamente il mio nome. La mia presenza era richiesta al
piano superiore; ero quasi certa si trattasse del solito consenso all’anestesia.
Col cuore in gola feci le scale a due a due e all’ingresso della sala operatoria
trovai una signora dall’aria severa che con una cartellina in mano e senza
troppi giri di parole mi guardò dritta negli occhi e disse :”ma perché
vuole dare questo ennesimo dolore a suo padre? perché lo costringe a questa
inutile mutilazione? nelle sue attuali condizioni di salute non supererà mai
l’intervento”.
Sconvolta da queste parole, ma soprattutto dalla freddezza con cui mi sono state
rivolte, sentii di colpo il peso di una scelta dalle conseguenze irreversibili.
La scelta di come far morire mio padre.
Subito in quella sala operatoria, costretto a vedere come ultima immagine della
sua vita un’anestesista dall’ anima indurita, oppure di setticemia, se
l’intervento non fosse stato effettuato.
Mi consultai via telefono con mia mamma, in attesa al piano di sotto, e decisi
per la prima opzione.
Nessuna figlia dovrebbe mai essere costretta a scegliere una di queste strade,
soprattutto quando il bivio porta allo stesso maledetto traguardo. Ma mentre la
setticemia era una certezza, nel fondo del mio cuore nutrivo invece la
piccolissima speranza che l’intervento avrebbe regalato a mio padre ancora
qualche altra pagina del grande libro chiamato Vita.
Un vecchio detto popolare recita che la speranza è l’ultima a morire e questo me
lo aveva insegnato anche lui, a fatti non di certo solo a parole; ogni volta che
era stato buttato a terra da un’esistenza difficile, era riuscito a rialzarsi,
con la caparbietà, l’orgoglio e la dignità degli uomini di un tempo.
Firmai e tornai al piano di sotto. Questa volta scesi le scale molto lentamente
come se un grosso peso sulle spalle mi schiacciasse verso terra facendomi
piegare le ginocchia. Incrociai lo sguardo di mia madre ma non fu necessaria
nessun’altra parola. Tutto era stato già detto ed io sentivo solo il fardello di
quell’assurda decisione. Trovai una sedia vicino alla finestra di quella gelida
stanzetta.
Le colline erano soleggiate in una mattina fin troppo luminosa per essere
dicembre.
Una luce che strideva con il mio stato d’animo, per questo appoggiai braccia e
testa sul davanzale.
E nel buio della nicchia creata dal mio stesso corpo, con il sapore di sale
delle lacrime che non volli più trattenere, rientrai di colpo nel mio momento
senza tempo.
Il sale delle lacrime.
Il sale.
Ne avevo dappertutto quel giorno, sul corpo, sui capelli, sulle labbra.
Non c’era stato il tempo di farci la doccia dopo la seconda immersione della
giornata e francamente sarebbe stata inutile visto che di li a poco avremmo
fatto un terzo tuffo, questa volta per ammirare anche di notte i magnifici
fondali del mare filippino.
La mia prima notturna.
Il Sorriso d’Oriente solcava fiera e leggera quel lembo di Indo-Pacifico
imbrunito dalla notte.
Conosceva bene quel tratto di mare, abituata com’era a trasportare i subacquei
di ogni parte del mondo da un sito d’immersione all’altro.
Sorriso, come la chiamai io fin da subito, era la nostra barca. Non
un’imbarcazione qualsiasi ma una Bangka, una tradizionale piroga usata dai
pescatori locali, ma in questo caso attrezzata più per la subacquea che non per
la pesca.
La prima volta che la vidi era attraccata nella baia di fronte al resort. Sarà
stata la luce del tramonto, che regala magia ad ogni oggetto su cui si posa,
sarà stata la simpatica chiglia allungata o la presenza degli stabilizzatori che
le regalano la forma di un volatile preistorico, sarà stato l’insieme delle
cose, non saprei dirlo, ma io me ne innamorai in quello stesso istante.
Quella sera Sorriso ci stava portando a Pescador Island, uno dei siti
d’immersione più conosciuti dell’area che avevamo scelto per la nostra vacanza,
l’Isola di Cebu.
Come disse la guida nel suo briefing, Pescador era un isolotto che avremmo
raggiunto con meno di mezz’ora di navigazione e che ha guadagnato grossa
celebrità grazie all’infinità di specie avvistabili.
Dopo qualche considerazione sulle dimensioni e le caratteristiche del piccolo
atollo, il nostro accompagnatore filippino, con un inglese fortemente
orientalizzato, iniziò ad elencare pomposamente tutto quello che avremmo visto
in termini di flora e fauna; ma io ormai non prestavo più attenzione alle sue
parole.
Rannicchiata in un angolo di Sorriso facevo solo finta di ascoltarlo ma in
realtà ero persa nei miei pensieri. Un anno di sacrifici e risparmi ed ora ero
li, dall’altra parte del mondo in procinto di fare la mia prima immersione di
notte. Il mio loog book contava solo altre 7 discese prima di questa, insomma
ero freschissima di brevetto e anche se non volevo darlo a vedere, dato il mio
carattere fiero e orgoglioso, ero piuttosto agitata.
Cercavo la tranquillità in respiri lunghi e profondi, mi ripetevo mentalmente
tutte le cose più importanti che avevo imparato al corso, mi convincevo che
nulla poteva accadermi perché eravamo in gruppo e il mio buddy non mi avrebbe
mai persa di vista. Ma non c’era più tempo di vagare in questo labirinto
mentale; Sorriso si era fermata, segno inequivocabile che l’immersione stava per
iniziare.
Un tuffo e via, verso una nuova e affascinante esperienza legata al Mare.
Sorriso non muoverti, aspettami li.
Il nostro punto di riferimento era un pianoro di sabbia cristallina dove ci
saremmo fermati per darci il segnale di ok, e dove a coppie avremmo iniziato la
nostra esplorazione notturna. Io però non feci in tempo a fare il mio cerchietto
con le dita perché qualcosa mi colpì bruscamente il viso; il buio divenne ancora
più buio.
Qualcuno, evidentemente inesperto quanto me, mi aveva colpito con una vigorosa
pinneggiata facendomi saltare via la maschera.
E ora? Avevo dunque ragione ad essere così preoccupata in barca. Non ero
spaventata, avevo aria a sufficienza nella mia 12 litri, ma spaesata si. Cosa
dovevo fare?
Decisi di rimanere immobile e aspettare semplicemente. E feci bene perché di li
a poco qualcuno mi apri il pugno della mano, chiuso dalla tensione, e ci mise la
cinta della maschera. Come da manuale appoggiai la sua parte superiore alla
fronte e feci una vigorosa espirazione nasale che mi fece riacquistare d’un
colpo la vista.
A recuperare la maschera ci aveva pensato mio fratello, mio compagno
d’immersione in quella vacanza, mio mentore, ma soprattutto colui che mi ha
fatto conoscere questo meraviglioso mondo.
Ancora qualche secondo per recuperare il mio respiro ,leggermente affannato, e
gli diedi il segnale che tutto era a posto, un convinto ok con la mano
illuminata e l’avventura poteva finalmente iniziare. Mentre scendevo prendevo
confidenza con la torcia e con il mondo che mi circondava.
Se di giorno l’occhio fa fatica a concentrarsi su un solo soggetto data la
complessità del reef, di notte un subacqueo diventa un vero e proprio
ricercatore di singole forme di vita.
Ma mentre le prime grandi spugne a tubo si svelavano timide alla luce del mio
faretto, capii che la profonda differenza tra un’immersione notturna ed una
diurna, non sta tanto in quello che si riuscirà a vedere, ma nell’atteggiamento
con cui il subacqueo stesso l’affronta.
Il Mare di notte sembra proteggere ancor più i suoi abitanti, coprendoli col
mantello dell’oscurità.
Immergersi significa irrompere in un momento di tale riservatezza, fluttuare in
un’intima essenza.
Ecco perché rispetto, delicatezza e sensibilità devono essere indossati ancor
prima dell’attrezzatura.
Goffamente direzionata da una mano ancora utilizzata a scopi di bilanciamento,
l’affusolata torcia di marca americana scopriva tratti di un meraviglioso
giardino sommerso.
Sulla sabbia ,ancorata a piccole formazioni coralline, una colonia di anemoni di
varie specie e colori regalava ospitalità agli immancabili pesci pagliaccio; una
gigantesca e immobile spugna sosteneva un crinoide giallo che sembrava danzasse
al ritmo della lieve corrente di quel tratto di mare; una grossa madrepora
laminare, simile ad un’enorme rosa, si mostrava in tutta la sua bellezza.
Che mondo incantato.
Di tanto in tanto ,pesci scorpione dalla straordinaria livrea, attraversavano
spediti il fascio di luce artificiale; per me era una novità vederli predare
dato che nelle immersioni precedenti li avevo visti sempre immobili, come
modelle che consapevoli della loro bellezza restano vanitosamente ferme per
farsi osservare o fotografare. Non conoscevo tutte le forme di vita che trovavo
sul mio percorso, ma solo quelle con cui avevo familiarizzato grazie ai
documentari. Riconobbi un variopinto pesce pappagallo ,addormentato dentro la
sacca gelatinosa che secerne per proteggersi dai predatori notturni, un pesce
scatola teneramente assopito dentro una spugna, un pesce palla quieto e immobile
sopra una madrepora.
In quella foresta di gorgonie e spugne osservavo tutto da una certa distanza. Il
mio assetto era ancora incerto e non volevo arrecare alcun danno al mondo che mi
stava ospitando. Forse mio fratello si era accorto di questo, perché mi fece
cenno di avvicinarmi a lui. Voleva mostrarmi le piccole creature, quelle che
sono già difficili da notare di giorno e che di notte solo l’occhio allenato di
un fotografo riesce a visualizzare. Nel delicato intreccio di un ramo di
gorgonia, un cavalluccio pigmeo, tanto piccolo quanto tenero, aveva assunto la
stessa colorazione della dimora che lo ospitava. Più in la, le esili zampe di un
gamberetto dalle sfumature viola , si muovevano veloci su un corallo bolla.
E poi uno ,due, decine di nudibranchi dai variopinti colori in un festival di
minuscole creature che mai avrei pensato di poter incontrare in una stessa
emozionante immersione.
Sarei rimasta li ancora per molto, la temperatura era gradevole ed ormai avevo
una discreta sicurezza, ma purtroppo questo non basta .Bisogna fare i conti con
la riserva d’aria e la mia mi stava dicendo che ormai era tempo di riemergere.
Un cenno d’intesa col mio compagno e cambiammo direzione; inizio della risalita.
Ma prima di farlo vidi con la coda dell’occhio qualcosa che si muoveva.
Fiocamente illuminato dalle luci di altri subacquei che si trovavano li, un
grosso ciuffo di coralli a frusta spuntava da una balza di una roccia. Era
orientata verso il Mare aperto in cerca di nutrimento e grazie al gioco delle
correnti sembrava una grossa mano che mi salutava.
Ciao meravigliosa creatura, è tempo di lasciarti alla tranquillità che meriti.
Una volta in superficie gonfiai il mio giubbetto e iniziai a cercare con lo
sguardo Sorriso; eccola , era li ad una ventina di metri da me, che mi aspettava
come una mamma premurosa aspetta il figlio all’uscita dal primo giorno di
scuola.
L’aria era umida e incredibilmente calda per essere notte.
Sotto il grande cappello della Via Lattea, pinneggiavo all’indietro godendo di
quel silenzio surreale e assaporando il gusto delle emozioni appena provate.
Un temporale lontano schiariva a tratti punti indefiniti dell’orizzonte.
In quel preciso angolo di mondo, sentivo di essere in perfetta armonia con la
Natura.
In quel preciso attimo, nell’incanto di un istante perfetto, sentivo di essere
una privilegiata.
“Signora, signora sta dormendo?”
Qualcuno scuoteva con delicatezza le mie spalle facendomi uscire di colpo dal
mio momento senza tempo.
Era una giovane e bella donna col camice bianco, uno dei due chirurghi che aveva
operato mio Padre.
Mi guardò con dolcezza e con un gran sorriso mi disse che era andato tutto bene
e che di li a pochi minuti papà sarebbe tornato in reparto.
Il suo sorriso divenne il mio sorriso e all’improvviso la luce della finestra
non mi dava più fastidio anzi, lo percepivo come un segno di speranza.
Ma cos’era successo? Mi ero forse addormentata?
Si, non c’era altra spiegazione. E nel farlo avevo sognato qualcosa che avevo
già vissuto.
Nel momento più drammatico della mia vita il Mare ha bussato alla porta dei miei
ricordi, tirando fuori una delle esperienze più entusiasmanti che io abbia mai
provato ,facendomi vivere una piccola oasi di serenità in quel deserto di
dolore.
Perché il Mare è un grande amore. E gli amori grandi sono sempre al nostro
fianco.
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