Autore: Pierpaolo Montali
Durante l’estate passata nel 2010 in Croazia, mi son reso conto di aver, a due passi da casa, un buon motivo per fare un’immersione che molta gente del nord est italiano ha fatta e conoscerà bene: quella sul relitto della nave da guerra Coriolanus, gemella della San Marco, anch’essa affondata nel mare d’Istria, dopo esser stata attaccata da una squadriglia aerea alleata per una rappresaglia a causa dell’abbattimento di un aereo ricognitore e con il suo triste carico di morti civili che erano in transito tra l’Italia e la Jugoslavia.
In quell’occasione però, stanti le due immersioni che effettuai, non fui convinto del risultato fotografico che portai a casa e pertanto nell’estate del 2012, ritornato nella penisola istriana, decisi di rieffettuarla, alla ricerca di quel quid pluris che mi sentivo di dover ancora trovare: avevo ragione.
I miei mentori ed accompagnatori ufficiali in queste immersioni sono stati Mateja, Dani e Davor del diving Sub-Aquatic di Umago, sito all’intero del camping Stella Maris, un centro subacqueo per tutti e ben gestito dalla famiglia slovena dedita allo sport in maniera completa: d’inverno come maestri di sci sulle nevi e d’estate in acqua al mare.
Il Coriolanus era una nave da guerra della Royal Navy britannica della classe Shakespearean, costruita, insieme ad altre dodici navi gemelle, dal cantiere navale Cochrane and Sons ltd Ship Builders di Selby in Gran Bretagna; essa venne varata il 2 settembre 1941 ed aveva un dislocamento di 545 tonellate, una lunghezza di 50 m ed una larghezza di poco più di 8 m. Era dotata di un motore a carbone ad espansione Amos & Smith, che forniva una potenza di 950 cavalli, su una una singola elica, imprimendo allo scafo una velocità massima di dodici nodi.
Inizialmente era un peschereccio, ma con lo scoppio della seconda guerra mondiale fu requisito, armato ed adibito a dragamine.
Il suo nome era ispirato al nobile romano Caio Marzio Coriolano, riportato da Shakespeare nel suo dramma “Coriolano” (la nave infatti apparteneva alla classe Shakespearean): essa venne dotata di un armamento composto da un cannone da 12 libbre e tre mitragliatrici antiaeree da 20 mm; l’equipaggio era composto da 35 uomini. La sua dislocazione ufficiale fu il Mar Adriatico, dove avrebbe dovuto svolgere un lavoro di rimozione delle mine lasciate dai tedeschi.
La storia di questa nave destò subito in me una innata curiosità, poiché la nonna della mia compagna, istriana ed originaria di un piccolo paesino nel bujese, mi parlò un giorno commossa della tragedia della San Marco, nave della stessa classe del nostro relitto, su cui, lei e sua sorella avrebbero dovuto imbarcarsi il giorno della tragedia ed i cui resti distrutti giacciono sparsi sul fondale antistante la città di Umago senza esser stati ancora esattamente identificati a mia scienza.
Il destino della due navi dunque si incrociò tragicamente nello stesso quadrante di Mar Adriatico e pressapoco nello stesso periodo.
Durante le ricerche documentali sul Coriolano però rintracciai alcune informazioni supplementari che sollecitarono il mio innato desiderio di conoscenza e di confronto.
Nel 1942 infatti la nave venne dotata di potenti attrezzature radio, in modo che potesse essere impiegata l’anno seguente come centro di coordinamento radio durante lo sbarco alleato in Sicilia: questa informazione era, se non altro , singolare per la tipologia di naviglio che era un dragamine qualsiasi.
Nel 1945, quando i Tedeschi firmarono la resa e gli Americani presenti in Italia mossero verso il nord del continente, sorse quindi il problema di iniziare a sorvegliare le mosse dei partigiani filocomunisti di Tito nelle zone di quella che sarebbe divenuta la Repubblica confederata di Yugoslavia.
Fu questa probabilmente quindi la ragione principale che spinse il Coriolanus ad incrociare a sei miglia al largo di Cittanova (Novigrad, in lingua croata) e, il giorno 5 maggio 1945, ad urtare la mina che la fece affondare ufficialmente.
La sua dotazione radio però forse venne utilizzata in missioni segrete di spionaggio dei partigiani comunisti durante il periodo in cui Tito reclamava il dominio sul territorio di Trieste.
Nessuno tuttavia seppe mai dare una spiegazione concreta per cui il Coriolanus, proprio quel giorno, stesse incrociando nel nord dell’Adriatico.
In ogni caso la nave affondò rapidamente – forse troppo rapidamente – e tutto l’equipaggio fu tratto in salvo; lo scoppio si sentì anche dall’abitato di Cittanova, ma, un po’ per l’abitudine al sentire le mine che ogni tanto esplodevano, ed un po’ per interesse di campanile, non venne dato alcu rilievo all’accaduto.
Del relitto quindi se ne persero immediatamente le tracce, stante il fatto che i pescatori locali tradizionalmente hanno sempre saputo che potesse esserci qualcosa in quella zona in cui era così facile perdere le reti.
Soltanto nel 1987 alcuni subacquei italiani lo ritrovarono riconsegnandone la memoria alla storia. Attualmente il relitto si trova sotto la tutela del Ministero della Cultura della Repubblica di Croazia.
Nelle mie tre discese sulla nave affondata (eseguite a due anni di distanza le une dalle altre), non posso dire di aver mai trovato un’acqua completamente limpida poiché, oltre a considerare che essa si trovi praticamente di fronte al delta del Po in Adriatico, va tenuto conto che spesso ci sono delle correnti leggere, che hanno il solo effetto di sollevare il sedimento depositato sul sottofondo.
Il relitto comunque è integro e ben conservato, ad eccezione di qualche partizione di fronte al ponte di manovra.
La parte centrale è molto interessante, dove si possono ben esplorare, oltre ai locali del ponte di comando, anche quelli della sala macchine, oltre che una torre misteriosa abbattuta sul ponte e che identifico come quella delle trasmissioni. Esso è situato tra i 24 ed i 36 metri, ben adagiato su un fondale misto sabbia-fango, per cui bisogna tenere conto del sedimento che può facilmente sollevarsi pinneggiando.
La difficoltà maggiore pertanto è dovuta alla presenza di scampoli di reti e lenze varie, che possono essere ben evitate facendo soltanto un po’ di attenzione.
Sono consigliabili un paio di immersioni, in modo da poter fare un giro esterno ed una penetrazione nelle stive separatamente; ma si deve esser attenti per la presenza di aperture anguste nelle quali si corre l’autentico pericolo di rimanere bloccati ove le si forzasse senza la necessaria esperienza specifica.
Arrivati sul relitto si notano subito gli elementi che lo rendono particolarmente affascinante quali: l’integrità di alcuni particolari, come gli oblò sulle murate, oppure la sua integrità strutturale ed i sui stretti corridoi che danno su scale che scendono nel buio.
E’ così proprio qui che si è articolata la mia indagine: immagini degli esterni della nave se ne possono infatti trovare diverse in rete; io avrei voluto un’esclusiva, qualcosa cioè di particolare e che nessuno fosse ancora riuscito a trar fuori dalle oscure stive del relitto.
Nell’immersione dell’estate del 2012 quindi mi misi d’accordo con i miei accompagnatori affinchè mi concedessero dieci minuti di vantaggio sulla discesa del gruppo: dovevo andare a cercare da solo e nel buio qualcosa di non ancora definito nella mia immaginazione, senza la presenza della correlata sospensione sollevata inevitabilmente da terzi.
Tuffatomi in acqua scendo quindi subito nella sala macchine di poppa e fotografo il quadro elettrico e le contorte tubazioni che raggiungono il condensatore. Lo spazio è pochissimo e la mia attrezzatura fotografica ne occupa quasi più di me.
Mi faccio piccolo, piccolo e procedo verso il fondo del locale, comprendendo però subito che mi sto cacciando nei guai senza aver nulla di fondamentale da riprendere nello sconquasso generale.
Uscito sul ponte di coperta a poppa via vedo una grossa mostella che quasi mi invita a seguirla nell’area della cabina del comandante.
Entro nella strettissima porta che immette al bagno del comandante, dotato di vasca da bagno, appendi asciugamani e boyler scalda acqua. Ne riprendo di nuovo tutti i dettagli; sino ad arrivare a fare una fotografia surreale della mostella che scende verticale, spaventata dai miei potenti fari, nell’angolo dello strettissimo spazio del wc personale del capitano.
Un’altra particolarità è la presenza, nei bagni del castello di comando, di gamberi ed enormi e simpatici gronghi, che scodano via velocissimi infilandosi per una scala discendente che si scorge e che conduce di sicuro verso la parte più fonda ed ostruita del relitto.
Provo a spostare qualche grosso rottame per tentare di inseguirli; faccio troppa fatica e mi incastro. Demordo. Ho già un buon bottino di guerra, ma non ancora quel qualcosa che sto cercando nel mio inconscio da ormai due anni.
Lo squarcio a dritta di prora via non mi convince da tempo in realtà: la nave giace in perfetto assetto di navigazione sul fondo, avrebbe dovuto esser divelta da una mina e invece il buco nelle lamiere mi appare come netto e tutto sommato di taglio quasi preciso: ho provato a più riprese ad infilarmici dentro per cercar di rubare una fotografia allo scenario, ma lo spazio troppo angusto ed il sedimento del fondo mi hanno sempre impedito di fare uno scatto in cui si capisse dov’ero e cosa volevo mostrare a terzi.
Vado quindi istintivamente a cercare la prua del relitto, mentre il resto del gruppo ormai è giunto sul fondo attraverso una sicura discesa sulla cima dell’ancora lanciata da Daniel e sta circumnavigando la nave, io sorvolo le strutture di sopra coperta a centro nave con le possenti mitragliere poste nel loro emiciclo girevole. Mi fermo; ecco che vedo il boccaporto dove passare appena sotto il cassero.
Mi ci infilo tra le lamiere contorte e corrose dalla salinità marina: ora mi trovo al buio nella stiva di prua con i bagni, i lavelli e le docce dell’equipaggio alla mia destra, una scala strettissima che scende ancora più in basso davanti a me e verso il locale divelto dall’esplosione ostruita da rottami di ogni genere e, di fronte ed ancora più avanti, un buio antro di strana memoria.
Mi viene allora in mente, in quei pochi attimi in cui riesco a vedere, prima che tutto si offuschi e la luce dei fari, riflettendo la sospensione alzata dai miei movimenti e distaccata dalle ferruginose pareti dalle bolle del mio respiro, trasformi l’ambiente in una sorta di visione da girone dantesco, che il Coriolanus era un dragamine dotato di una macchina a vapore e che era stato costruito per la navigazione in condizioni meteorologiche difficili (di tipo “Trawler”).
Taluni supposero, lungo lo scorrere degli anni che ci distanziano oggi dal conflitto mondiale, che, verso la fine della guerra, il mezzo navale effettuasse operazioni di nave spia in un mare appunto difficile spazzato spesso dalla Bora, il che potrebbe anche essere asseverato dall’ampio numero di dotazioni elettroniche che vennero trovate a bordo e che i pescatori locali mi han poi confermato.
Ora io mi trovo al bivio della decisione: non ci credo e cerco di scoprire ancora qualcosa; oppure accetto la spiegazione ufficiale offerta dai rapporti e velocemente archiviata e me ne torno indietro.
Procedo d’istinto verso quell’antro buio; i fari illuminano qualcosa di chiaro sul fondo, sommerso quasi totalmente dal sedimento e dalle sabbie del tempo.
Lo guardo bene e scorgo un grosso bidone con delle scritte in poca evidenza e qualcosa che somiglia a dei rubinetti: è strano vederlo lì e poi – penso – che ci fa un fusto qui? Scatto una foto nitida prima dell’inferno.
Non mi muovo più ora; attendo che la polvere si depositi un po’, mentre gli altri del gruppo fuori non sanno minimamente dove ora io sia.
Se mi capitasse qualcosa nessuno di loro mi potrebbe tirar fuori. Guardo il manometro e comprendo che il tempo è passato inesorabile: devo andar via di corsa da lì! Ancora una volta ralleto però e penso che questi son gli attimi in cui si fa l’errore grossolano di distrazione che potrebbe costar carissimo.
Esco quindi dettandomi estrema disciplina e tirandomi anche a forza braccia nello strettissimo corridoio.
Riguadagno così la luce e la cima dell’ancora, oltre che il resto del gruppo che ha già cominciato la risalita decompressiva; un rapido cenno d’intesa con Daniel. Tutto ok.
Mentre ritorno a Umago in barca e chiacchero con l’amico istruttore altoatesino Roland Ranzi continuo a pensare che quella nave sia stata centrata da un siluro e da non da una mina.
Non ho certamente nessuna prova certa o balistica per sostenere tale teoria, oltre alle mie supposizioni, ma tant’è: mi chiedo cosa ci faccia una mina da profondità inesplosa in prua, a meno di due metri dalla deflagrazione di una potente mina che avrebbe dovuto coinvolgerla.
Se fosse invece entrato un siluro nella fiancata e ne fosse in qualche maniera uscito (o fosse stato rimosso insieme agli apparati radio ed alla loro strumentazione di memoria di informazioni e codici cifrati dopo) mi potrei spiegare meglio la presenza di un grosso ordigno inesploso.
Rientrato a casa in Salvore faccio le mie ricerche e riflessioni di confronto: mostro l’immagine a Marko, il compagno pescatore della cugina Isabella e divenuto, suo malgrado, esperto recuperatore sui fondali istriani di mine della guerra durante lo svolgimento del suo lavoro. Egli mi spiega il metodo con cui il mare, penetrando nella bombe per corrosione dall’involucro ferroso esterno, renda innocua la bomba, soltanto quando però essa non contenga il meccanismo di innesco in ottone (non corrodibile), poiché, in quel caso, la bomba resta pericolosissima in quanto tecnicamente ancora attiva nella sua parte di percussione.
Corrispondo allora, al culmine delle mia curiosità, via internet con l’amico Palombaro della nostra Marina Militare, al quale mostro l’immagine scattata in esclusiva inviandogli un’e-mail: egli mi rimanda quindi per confronto un’immagine disegnata di bomba di profondità della guerra contenuta in un fusto. E’ identica!
Io non so ora se la mia teoria possa esser giusta, se essa possa esser correlata con la rappresaglia che gli alleati fecero sulla San Marco affondandola con tutto il suo carico umano, magari scambiandola o ritenendola il Coriolanus, se lo squarcio a dritta del Coriolanus stesso possa esser considerato ragionevolmente l’esito di un’esplosione da mina, o meno.
Quel che è certo è che ho documentato la presenza di elementi che sostengono alcuni interrogativi oggi ancora aperti sul tavolo della storia.
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