Autore: Carlo Amoretti
Per anni istruttori e didattiche hanno sempre additato come un terribile errore l’effettuare immersioni a "profilo inverso", potrebbe non essere così. Un nutrito gruppo di esperti nel campo del calcolo della decompressione e della fisiologia subacquea si sono riuniti ad ottobre a Washington (U.S.A.) sotto gli auspici della Smithsonian Institution e della AAUS (American Academy of Underwater Sciences)proprio per cercare la verità nascosta sotto i preconcetti che circondano questo argomento, i risultati del seminario sono sorprendenti.
Con l’espressione "profilo inverso – reverse dive profile" si intende un’immersione ripetitiva ad una profondità superiore a quella precedente oppure una immersione multilivello nella quale si raggiunga la massima profondità alla fine e non all’inizio. Tra i subacquei ricreativi c’è una conoscenza diffusa di come questi comportamenti siano errati e generalmente ritenuti proibiti, però molto spesso vengono effettuati ugualmente.
La cosa interessante è che nessuno apparentemente sa come sia nata questa regola e, tantomeno, quanto sia realmente valida. La comparsa dei computer subacquei in grado di calcolare la decompressione e di programmi per personal computer che possono generare tabelle secondo profili stabiliti dal subacqueo ha un po’ cambiato le cose. Sui manuali di tutti questi prodotti si trova scritto di non esporsi a questo genere di profili però in realtà questi strumenti non ne impediscono la pratica e continuano a calcolare i profili senza grosse variazioni, solitamente soltanto una riduzione del tempo di fondo disponibile nell’immersione successiva, questo ha portato in genere ad un certo rispetto di questo "divieto".
Se andiamo a vedere il mondo della subacquea commerciale e militare tutti questi problemi non esistono, la proibizione ai profili inversi non esiste, anzi non vengono neppure considerati una cosa particolare. Invece il mondo dell’immersione scientifica, che in genere segue regole simili a quelle della ricreativa ma con obiettivi molto più esigenti, si è trovato di fronte ad alcune costrizioni operative ed ha deciso di riesaminare la questione. Il primo problema del seminario è stato stabilire la provenienza di questo divieto, una ricerca esaustiva della letteratura ha evidenziato come la regola non avesse niente a che vedere con una maggiore sicurezza dell’immersione, ma soltanto il desiderio di ottimizzare i tempi di fondo di una serie di immersioni. Questo in base a considerazioni relative al carico di gas che permettono una migliore gestione dei tempi di fondo se le prime esposizioni sono più profonde delle successive. Chiarito questo punto i presenti hanno contribuito le loro conoscenze di fisica, fisiologia e modellazione matematica della decompressione al problema in esame.
Sono stati esaminati i modelli decompressivi più avanzati, quasi tutti basati su approcci di formazione e/o crescita delle bolle come il VPM (varying permeability model) di Wienke, l’RGBM (reduced-gradient bubble model) della Duke University, il modello evolutivo DCIEM basato sui dati doppler, e altri basati sulla dinamica di gas secondo i concetti di Van Liew (V. Flook) e sulla dinamica delle bolle a livello dei tessuti (M. Gernhardt) hanno dato tutti risultati concordanti; quasi tutti, ad esempio, tendono ad impiegare minori gradienti di sovrasaturazione nella fase iniziale della risalita (deep stops) e tempi di non decompressione più brevi di quelli richiesti dai modelli convenzionali basati sulla dinamica dei gas disciolti. Nel corso del workshop i vari relatori hanno presentato le loro opinioni rispetto al fenomeno dei profili inversi: Van Liew ha sottolineato come sia necessaria molta più attività sperimentale per chiarire l’esistenza ed il ruolo dei micronuclei nella formazione delle bolle nei tessuti dei mammiferi, e se tali nuclei possano, o meno, venire "schiacciati" fino all’eliminazione o all’inattivazione. Un’altra interessante presentazione ha evidenziato come per quanto il profilo inverso possa determinare una previsione di maggior incidenza di PDD in realtà il confronto di coppie di immersioni no-stop e con decompressione (Tabelle USN) mostra che le differenze sono minime. Un’interessante sessione del seminario ha visto confrontarsi vari produttori di computer subacquei, alcuni dei modelli più vecchi utilizzano modelli convenzionali (Haldaniani) che considerano solo il carico di gas e i limiti di sovrasaturazione (Valori M) senza considerare l’ordine nel quale le immersioni vengono condotte, in questi casi di solito il produttore consiglia di non effettuare profili inversi. I modelli più nuovi, con algoritmi basati, in misura variabile, sui "modelli a bolle" sono dotati di specifici allarmi e/o penalità per profili a rischio (yo-yo, ripetititve con pd eccessive ecc.)
Sono stati portati come prova vari racconti anedottici associati all’esecuzione di profili inversi, il caso classico è quello dell’istruttore che va a liberare l’ancora (immersione corta e profonda) dopo una giornata di immersioni ed è vittima di una PDD grave. E’ però emerso come queste situazioni siano particolarmente difficili da interpretare dato che il numero di soggetti coinvolti è molto piccolo, non c’è un denominatore e spesso accade che i compagni di immersione (che effettuano lo stesso profilo) non presentino sintomi. E’ stato suggerito che studi condotti su 100 immersioni non siano sufficientemente ampi per una analisi statistica, ma è stato anche commentato "sempre meglio avere quelle 100 immersioni che nessuna osservazione". Un’altra giusta osservazione è che la mancanza di dati su questo fenomeno possa essere dovuta all’arbitrario divieto alle immersioni a profilo inverso. Ovvero, sono state fatte poche immersioni di questo tipo. Pur ammettendo che in alcuni casi i profili inversi hanno creato dei problemi, la conclusione, sulla base dei reali dati di immersione (US Navy, immersioni commerciali, camere di ricompressione, DAN e varie fonti ricreative) , è che i profili inversi non mostrano, di per sé, un incremento del rischio di PDD. Questo però può essere affermato con sicurezza solo se la pressione differenziale del profilo inverso non è troppo elevata, il che significa che anche la profondità è un fattore importante. Dai dati appare anche che le tabelle di decompressione, i computer e gli algoritmi usati finora sono efficaci anche in questi casi. Al momento di girare la discussione alla platea gli animi si sono scaldati, i sostenitori dei "modelli a bolle" hanno mostrato serie riserve contro una eliminazione totale del divieto ai profili inversi, infatti, i modelli di evoluzione delle bolle mostrano che un’immersione a profilo inverso pianificata o eseguita scorrettamente può portare a conseguenze molto gravi. Inoltre, molti temevano che i subacquei, soprattutto i meno esperti, possano recepire un messaggio sbagliato e ritenere che si possano eseguire profili inversi senza speciali considerazioni.
Però, di fronte al fatto che l’esperienza pratica ha mostrato che non ci sono troppi problemi con questi profili, è stato stabilito di evidenziare questi fatti e anche di cercare di indicare un limite alla pressione differenziale (delta-P) indicando che la maggior parte delle immersioni concluse senza problemi avevano 12 metri di dislivello. Un altro punto di accordo è stato che comunque la proibizione rimossa deve essere applicata entro il limite di profondità per l’immersione ricreativa (40 metri).
Scritto sulla base dei dati riportati nel numero di marzo/aprile 2000 di Pressure
Ringraziamo Andrea Neri per l’articolo fornito.
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