Formazioni vegetali come foreste o praterie costituiscono degli importanti magazzini di carbonio, in cui questo elemento viene immobilizzato sotto forma di lunghe molecole di cellulosa, lignina, e altri composti stabili.
Almeno fino a quando un erbivoro attacca queste molecole e le demolisce ricavandone nutrimento (zuccheri semplici, altre molecole organiche) e liberando in ambiente molecole semplici, vale a dire anidride carbonica (CO2). È il ciclo del carbonio. Ogni tanto i resti vegetali fossilizzano in assenza di ossigeno, e formano gli idrocarburi (i combustibili fossili), altra tomba di carbonio.
Questo ciclo è andato avanti per ere geologiche, fino all’arrivo di un bipede intraprendente, che cominciò ad abbattere gli alberi, a bruciare carbone e petrolio, con il risultato di aumentare pericolosamente il livello di CO2 nell’atmosfera e di accelerare il cambiamento climatico di cui tutti vediamo le conseguenze.
Recentemente gli scienziati hanno identificato un nuovo fattore che potrebbe imprimere un’ulteriore accelerazione al cambiamento: la pesca eccessiva e l’uccisione dei grandi predatori, tra cui dominanti negli oceani sono, o dovrebbero essere gli squali.
Al calo degli squali corrisponde un aumento delle loro prede, tra cui erbivori come tartarughe, pesci, echinodermi, crostacei, quindi un maggior consumo di vegetali e una maggior produzione di CO2. Non sottovalutiamo il rischio, ecosistemi costieri come mangrovieti e lagune immagazzinano circa 25 miliardi di tonnellate di Carbonio, circa il 50% di tutto il carbonio degli oceani. La funzione principale degli squali che nuotano un poco al largo è proprio quella di tenere sotto controllo tutto l’ecosistema.
È anche un elegante dimostrazione di come sulla Terra tutto è connesso, per cui comperando un filetto di verdesca confezionato al supermercato stiamo contribuendo all’accelerazione del cambiamento climatico.
Nella vignetta di apertura, l’interpretazione umoristica della notizia, di Francesca Scoccia.