Autore: Marco Mazzotta
Le bombole, si sa, sono metallo lucente che quel giorno brillava da una barca
appena approdata riflettendo i migliori bagliori di un tardo pomeriggio
agostano. “Cosa avete preso oggi?”.
Domanda di rito al rientro da una sprofondata nell’epoca in cui non vi era né
scandalo, né impedimento giuridico alcuno ad accoppiare il fucile alle bombole e
attingere, quindi, avidi a un mare ancora ricco e generoso. Una risorsa ritenuta
inesauribile, o almeno così si credeva allora.
Il piccolo gruppo accorso, aspettava che venissero sbarcate le preziose ceste
del pescato e, a poco a poco, aumentava di numero sul molo, fino a togliere la
visuale a chi, ancora l’età non permetteva di guadagnare un proprio punto di
osservazione. Il pubblico vociante rimestava prudentemente nelle ceste, schivava
gli ancor temibili aculei degli scorfani cercando, invece, con occhio clinico lo
sguardo immobile del pesce più pregiato, quasi per comprovarne l’effettiva vera
freschezza e poter forse negoziare un prezzo.
Il pescato, a quel tempo, era il fine unico di ogni sommozzata che si
rispettasse. La quantità era lo spartiacque tra chi veniva considerato un vero
subacqueo e chi no e dava carisma e prestigio nelle allegre congreghe serali di
amici nelle stagioni balneari dei primi anni settanta. Ma alle volte non c’era
solo il pesce sulle barche. Ogni tanto arrivavano anche oggetti strani, corrose
vestigia di un passato ancora fresco e da dimenticare al più presto. Talvolta
erano frammenti di bossoli, di armi, talvolta addirittura ogive, qualche rara
volta anche cocci di anfora, ma per questi ultimi c’era il problema di
occultarli allo sguardo del Maresciallo dei Carabinieri, anche lui accorso
entusiasta e interessato a vedere da vicino le prelibatezze ittiche .”E
questi da dove vengono?” chiedevano i
curiosi indicando dei vecchi proiettili, “Da un relitto ricco di pesce,
pieno di queste cose, ma triste e tenebroso come non ne ho mai visti, fuori
Vada, ma è come per i cercatori di funghi, non mi puoi chiedere dove di preciso!”
Il pescato ben rimaneva, in ogni caso, l’evento principale in quanto foriero di
imminenti crapule serali. Crapule che coinvolgevano anche chi, poco avvezzo alla
caccia subacquea, rimediava diversamente presentandosi con abbondanti forniture
di “quel vino bono che fa un mio amico che ha le vigne a Fauglia”,
accedendo così di diritto a quel tavolo imbandito e vociante, ricco di quel
“bendiddio” che allora il mare regalava.
Ma sbarcato il pescato, mentre tutti erano intenti ad ascoltare i racconti della
giornata, le bombole rimanevano sole aspettando quelle secchiate di acqua dolce
che le avrebbero preservate più a lungo dalla corrosione del sale marino. Da
quelle bombole, scrostate dall’uso intenso, partivano neri come la pece i
corrugati, che descrivevano un ampio cerchio per poi rincontrarsi sul boccaglio.
Avvicinatolo appena alla bocca, per mimare il gesto dei grandi, quel bambino
scoprì con sorpresa un odore che per lui era già familiare. L’odore, ricordava
un odore marino, insolitamente già noto, quasi familiare. Ma sì, quell’odore,
leggero come un anelito, proprio come quello del suo bel tubo di gomme azzurro
fatto di quella stessa identica materia. Tubo da accoppiare a una maschera,
anch’essa azzurra, che solo ora definiremmo primitiva. Quella maledetta maschera
di gommaccia dura che non tutti i suoi coetanei avevano la fortuna di possedere.
Regalo proveniente da chissà quale familiare, per chissà quale promozione,
evento o compleanno. Quella maschera che gli solcava il viso ancora imberbe
lasciando a lungo un segno tondo e sottile intorno agli occhi e al naso, che
faceva male e che strappava i capelli, ma che, come una sfera magica,
ricompensava di tutto quel soffrire aprendo a lui e solo a lui lo scrigno di un
mondo fantastico. Un mondo da cui non avrebbe più distolto gli occhi.
Era insomma quell’odore una specie di anello di congiunzione olfattivo tra il
piccolo “suo” e il grande “loro”, fra il loro grande mare delle abbondanti
pescate e il suo piccolo mare di ghiozzi, bavose e granchietti che
inconsapevolmente viveva in lui in appena un metro d’acqua.
Erano gli odori dunque che comandavano. Come quell’ostinato odore di pesce
tipico della subacquea di allora che permeava tutte quelle attrezzature
affascinanti e misteriose e che prontamente restituivano quegli effluvi sulle
sue manine di preadolescente appena toccava quelle bombole. Quelle stesse
bombole, forse un tantino meno malandate che aveva anche visto, per la prima
volta, al cinema. Quelle di 007. Quelle impiegate in una scena per combattere
negli abissi i cattivi di non so quale organizzazione criminale, insieme a una
giovane Ursula Andress che anticipava, da parte sua, l’approccio minimalistico
alla subacquea limitatamente al bikini, molto ridotto, parecchio ridotto, troppo
per quei tempi ancora parecchio bigotti. Ma di quel costume minimo al ragazzino
poco importava. Se lo sarebbe anche lui gustato come gli altri qualche anno più
tardi. Ora gli piacevano solo le bombole. Quelle vedeva, quelle voleva conoscere
e quelle gli sarebbero bastate per colmare i suoi pensieri.
Il rame anch’esso è metallo lucente, più caldo e discreto rispetto all’acciaio e
di un colore che, di per se stesso, evoca strumenti antichi. Era accoppiato ad
una muta marroncina di gomme sdrucita e a zavorre di piombo di vario tipo e
foggia , che, pur essendo esso stesso metallo, è molto meno lucente. Quel rame
era indossato in forma di casco da un curioso individuo che aveva militarmente
occupato con tutti i suoi ammennicoli quella spalletta e quel ponticello che,
solo l’estate prima, era pertinenza esclusiva di quel ragazzo che sognava di
bombole e di caccia subacquea e che insieme alla sua combriccola di amici si
sfidava lì in tuffi sempre più audaci e alti o in appassionate partite di
pallanuoto. C’era poi da attirare l’attenzione delle prime ragazzine che ridendo
dal bordo aspettavano di vedere le loro evoluzioni. Era un piccolo spazio entro
lo stabilimento balneare, confinato da spallette e due ponti (le porte per la
pallanuoto). Lo chiamavano tutti il “botro” o il “bozzo” e aveva la
caratteristica di avere una profondità sotto il ponte di un paio di metri che
permetteva tuffi di ogni tipo e maniera. Un posto di epici scherzi, come quando
Gigi, una volta, si procurò un polpo morto e buttandolo da quel ponte, in fondo
a quella buca, indicava ai passanti l’animale sul fondo. Ogni tanto qualcuno ci
cascava e armato di maschera e fiocina si lanciava a pescarlo per poi riemergere
trionfante con l’animale infilzato fra gli schiamazzi dei ragazzi che gli
ridevano dietro urlando: “Vai! Ora mori dal tanfo!!”.
E risate a non finire . E poi giù nuovamente la carcassa di quella povera bestia
ad attrarre il prossimo gonzo.
Ora era invece pieno inverno e quello specchio d’acqua, testimone di tanti suoi
giuochi, era occupato solo da quel marziano. La quiete di quel tiepido
pomeriggio era solo rotta dal rumore assordante di uno strumento strano,
guardato a vista da un personaggio, strano anche lui, in tuta da lavoro che
pompava aria “a sfare” e da sotto quel ponticello tornava in superficie in
enormi volute di bolle che si rompevano in superficie. In quel trambusto vedeva
sotto il pelo dell’acqua luccicare appena quel casco strano, proprio sotto quel
ponticello dove pochi mesi prima si era perpetrato lo scherzo del polpo morto.
Le persone vedevano e commentavano quel lavoro e di come il proprietario dello
stabilimento avesse dovuto chiamarlo urgentemente per riparare quel vecchio
ponte debilitato dal tempo e dalla azione dei marosi e che ora rischiava di
venire giù. “Luilì sì che c’ha campato bene nel dopoguerra, con tutti
quei relitti che i tedeschi hanno affondato in porto!”
commentava un anziano che pareva essere il più informato dei fatti. Tale “Luilì”,
infatti, prima della guerra, rifiutandosi di prendere la tessera del partito
fascista, lui borghigiano anarchico, fu fatto licenziare in tronco dal Federale
come palombaro capo nel cantiere navale. Poi scacciati finalmente i fascisti e
finita la guerra, nuovamente riabilitato, fu incaricato di rimuovere tutte
quelle carcasse di navi che ostruivano l’ingresso del porto. Ma non solo, finito
lo sgombero iniziò a smantellare anche i relitti affondati in mare aperto per
ricavarne ferro e soprattutto metalli più preziosi da rivendere poi a prezzi più
alti. Si tramanda ancora tra i vecchi marinai che, scoperchiando uno di questi
relitti, che giaceva inclinato su un fianco oltre il faro di Vada, si trovò in
un locale sottocoperta dove sperava di trovare chissà che cosa. Invece si trovò
ad annaspare in un numero impressionante di cadaveri che per un gioco beffardo
di correnti iniziarono a circondarlo quasi come a volerlo abbracciare e a
imprigionarlo lì. Una situazione che mise a dura prova anche quel suo cuore di
rude palombaro, che pure di stranezze e tristezze nella vita ne aveva vedute
assai.
Quello sarebbe stato il primo ed unico momento in cui quel ragazzo vide una vera
testa di rame al lavoro. Ultimi bagliori di un’epopea che perdeva sempre più
terreno rispetto ad altre tecnologie più semplici ed efficaci da usare nei
lavori sottomarini, ma, prive di quel fascino che solo i caschi di rame sapevano
e sanno dare.
Poi quel palombaro uscì dalla scaletta, si fece svitare il casco e apparve il
volto un uomo di mezza età solcato dagli anni e dalla fatica di un lavoro che
forse ha uguali solo nel lavoro in miniera. Il volto di un uomo che mare e
fatica avevano modellato a propria immagine e somiglianza in maniera definitiva.
Con brevi cenni e qualche parola al suo assistente, sparì come una prima donna
dalla scena senza curarsi troppo di quell’improvvisato gruppo di spettatori. Si
diresse verso la Direzione con piglio sicuro e spedito, forse per ricevere già
il suo compenso o protestare per chissà che cosa, lasciando ampie orme umide dai
piedi finalmente liberati dalle enormi scarpe zavorrate.
Il metallo sarebbe stato lucente. O almeno avrebbe continuato ad esserlo per
lungo tempo ancora, se quella mina maledetta non si fosse portata giù l’intera
nave con tutto il suo tragico carico di vite umane. Lo conoscevano allora come
il relitto dei bersaglieri per via di alcune carcasse di bicicletta che, in
bellavista, emergevano dalla sabbia nei fondali al largo del faro di Vada, ma
non si sapeva molto di più.
Il metallo lucente si trovava invece sulle spalle di quel ragazzo che un tempo
sognava su vecchie bombole lasciate su un molo e sulle imprese di James Bond e
che ora, diventato nel frattempo uomo, possedeva un equipaggiamento modernissimo
corredato di erogatori di ultima generazione. Il tutto finalmente suo e solo
suo: la sua armatura per sfidare gli abissi. Aveva appena terminato una discesa
insolitamente faticosa nel blu. Un blu repentinamente virato a blu notte per via
di una brutto peggioramento atmosferico lasciato frettolosamente in superficie e
che non prometteva nulla di buono per il ritorno. Quella discesa, più faticosa
di altre volte, per via di una corrente insidiosa, lo aveva portato innanzi a
quel relitto. Le luci dei compagni, in ampie volute, squarciavano rassicuranti
quella quasi oscurità.
Il relitto, o meglio quei miseri resti che avevano lasciato tanto tempo fa i
palombari, residui del metodico smantellamento e risparmiati solo perché troppo
imparentati con il fondo, erano ora spettrali come sempre davanti ai suoi occhi.
I racconti non dicevano molto del naufragio ma erano dettagliati sullo
smantellamento del relitto. In porto dicevano che quando il palombaro capo finì
il lavoro, una bettolina scaricò pietosamente, proprio in quel punto, un carico
di ghiaia. Era infatti un relitto pieno zeppo di cadaveri. Fuoriuscivano a
frotte ogni volta che si scoperchiava un nuovo locale e l’ultima parte fu
lasciata anche per dare una sorta di decorosa sepoltura a quella povera gente.
Ma quanti erano? Non era stato possibile recuperarli. Erano troppi anche per
contarli! Ci voleva troppo tempo e il tempo in questi lavori è da sempre
tiranno. E poi chi erano? Che mai era successo in quel posto? Nessuno gli aveva
mai reclamati. Sembravano marinai, marinai italiani a giudicare dalle dotazioni,
ma questo era tutto quello che si sapeva. Alcuni resti, inizialmente, furono
portati indietro insieme ai rottami e probabilmente furono inumati in fossa
comune, constatata l’impossibilità di dare un nome e un cognome. Ma non c’era
più voglia né di morti, né di guerra e il lavoro doveva procedere spedito. Così
si fece la cosa più semplice. Si fece sparire quella tragedia sconosciuta e di
cui, come ogni cosa di guerra a quel tempo, nessuno voleva che se ne parlasse
mai più. C’era solo voglia di vita di vivere e di rinascere.
Il mare però è molto più ottuso di noi, col tempo, iniziò a disperdere quella
montagna di ghiaia. Il nascondiglio divenne a poco a poco sempre meno
nascondiglio. Le lamiere riemersero dal fondo e piacquero subito ai pesci che le
adottarono a loro rifugio. A ruota attrassero i subacquei che non disdegnavano
di completare un facile pescato con qualche reperto particolarmente
significativo.
Il relitto, o meglio la parte superstite prodiera aveva come sua parte più
caratteristica un unico longherone di acciaio che si ergeva verticale, isolato e
maestoso come un dito di un gigante, quasi a volere indicare quella superficie
ormai irrimediabilmente lontana e perduta. Ed era l’unico sviluppo verticale
importante del relitto che comprendeva, invece, solo la piatta chiglia
semiaffiorante dalla ghiaia e la si percorreva tutta in poche pinnate. Gli occhi
vuoti di cubia ospitavano due murene enormi che con la loro bocca aperta avevano
un che di minaccioso, come due severe sentinelle a guardia di quel posto. Sotto
la chiglia i fasci di luce facevano brillare le livree di un superbo branco di
corvine che, una volta illuminate, si ritiravano sdegnose verso i più reconditi
nascondigli. Quelle poche pinnate, con cui potevi misurare la lunghezza di
quell’unico moncherino di nave, avevano offerto, inoltre, in passato, una
ghiotta opportunità di arricchire le proprie collezioni di “memorabilia
militari” a quei collezionisti che, con pochi scrupoli e un brevetto valido di
subacqueo sportivo, avevano letteralmente ripulito il relitto. Ora, dissoltisi
anche i poveri corpi, consumati dal tempo e dal mare, rimaneva come unica loro
vestigia una impressionante distesa di suole di stivali e fibbie di giberna,
residui non biodegradabili delle loro divise, ultimi muti testimoni della
tragedia, rimasti lì perché il mare proprio non ce la faceva a distruggerli e
nemmeno il più infimo predatore di relitti voleva portare con sé.
Era quasi finita l’immersione quando quel ragazzo, ormai, come si è detto,
adulto, fu attratto da un oggetto bianchiccio che emergeva dalla ghiaia.
Sott’acqua quel giorno, con fare circospetto, iniziò a pulire con la mano per
vedere cosa era. Quando la sospensione si diradò, si accorse che due orbite
vuote lo stavano fissando intensamente. Un sobbalzo. La recente libecciata,
scavando il sedimento, aveva lasciato questa nuova vestigia e molto altro
intorno. Altre volte era stato lì, infatti, ma niente aveva notato. Poi un
oggetto scuro si rivelò essere una baionetta nel suo fodero. La si poteva quasi,
con un po’ di pazienza, ancora sfoderare. Ma c’era di più, un altro viso, ma che
viso strano, due occhi azzurri spalancati beffardi in fronte a lui. Lo fissavano
intensamente. La cosa non era bella.
“Fermati, rifletti e agisci” gli avevano
insegnato ai corsi. Ma qui non era in pericolo, non c’era né da fermarsi, né da
riflettere, né da agire, però stava dando fuori di cervello. “No dai, è
solo un gioco di luci, è una maschera antigas cavolo! Una meravigliosa maschera
antigas. Ancora intatta, una vera cuccagna trovarne ancora di così bene
conservate”. Quella maschera veniva via
facilmente. Poi un rasoio, la scatola delle lamette e poi altro. Che bello,
tutto perfettamente conservato. Si accorse, a questo punto, che stava
semplicemente scavando in uno zaino ormai dissoltosi da tempo. “Ma si,
ora il quadro si fa chiaro”pensò. Si
intravedevano, a poco a poco, quelle che dovevano essere un tempo le costole e,
forse, una tibia del proprietario dello zaino. Sembrava quasi rannicchiato. “Dunque,
c’è lui, ci sono i suoi effetti”. “Questo povero ragazzo non si è nemmeno
accorto di cosa gli era successo”-meditò-“Forse stava dormendo sottocoperta
appoggiato al suo zaino dove ora sto rovistando e quella maledetta esplosione lo
ha fatto passare in un attimo da un sonno all’altro”.
“D’improvviso però si sentì imprigionato come da una forza misteriosa che lo
risucchiava verso il fondo. Lo inchiodava a quei poveri resti come un mortale
abbraccio e non riusciva più a muoversi. Si sentiva schiacciato contro colui che
doveva essere, un tempo, un aitante giovanotto e non c’era verso di staccarsi.
Si ricordò allora della storia del relitto sentita da ragazzo, dei cadaveri che
circondavano i palombari e gli trattenevano giù quando smantellarono la loro
nave. Ebbe un tragico pensiero di spettri, di ombre e di fantasmi che chi usa la
razionalità tenderebbe a rinnegare ma che per la prima volta ebbe la sinistra
sensazione di avvertire . Era tempo di risalire, “Ma come fare? Non mi
muovo”. Erano dunque quelle orbite vuote ad
averlo bloccato, come una sorta d’ipnosi. “Mi stai forse cercando di
spiegare qualcosa?”. “Ma sì, ora mi è chiaro cosa mi stai dicendo!” “Non ti
avevo capito subito. Non si prende la roba d’altri, mi dici, non sta bene… – che
tu sia morto da tanto tempo non conta un cavolo, è vero! Quella roba è solo tua!”.
Erano attimi totalmente irriflessivi. Prese una decisione. La maschera antigas
sparì subito sotto il coperchio di un vecchio bidone sfondato. Il resto fu
seppellito lì accanto. Velocemente. Pensò intensamente “Si ho capito, mi hai
solo spiegato che lo desideravi, nessuno ti aveva più considerato da quel
maledetto giorno scordandosi persino che sei esistito. Ti considero io ora e ti
chiedo scusa ancora, ciao!”., Fu come uscire da un sogno, l’incantesimo finì,
rincominciò nuovamente a muoversi, quelle orbite vuote ritornarono ad essere
solo parte di un vecchio cranio consunto dal tempo. Uno sguardo veloce al
computer, raggiunse gli altri che già lo aspettavano e via il segnale di
risalita collettiva. Forse carezzò quel piccolo resto prima di accommiatarsi. Il
suo amico cineoperatore, invece, incallito predatore di relitti, aveva però
immortalato l’evento e pregustava già l’ambita preda da godersi in superficie.
Ovvia, quindi, la domanda a gesti su che fine avesse fatto quella meravigliosa
baionetta che brandiva spavaldo. “Meno male che non si era reso conto anche
della maschera antigas” pensò il ragazzo mentre mimava il gesto di “buttar via”.
Il segnale di risposta fu quello che si fa indicando con l’indice la tempia,
ruotando la mano con il pollice disteso per dire “tu sei matto!”. La replica fu
di muovere velocemente le dita a mimare qualcosa che deperisce velocemente “Mi
sono liberato solo di una vera schifezza, solo un fodero che si è dissolto
subito”. Speriamo abbia mangiato la foglia. Era una povera bugia. Ma ci poteva
stare, per difendere questa strana intesa creatasi, sott’acqua quel giorno, fra
due ragazzi che erano stati giovani a sessanta anni di differenza, senza mai
essersi conosciuti in vita, se non solo un attimo, un attimo solamente, uno
vivo, l’altro morto da tempo. Un attimo solo sul fondo del mare, quel luogo
spesso muto testimone di tragiche storie iniziate in superficie dove, invece, la
stoltezza riesce meglio a esprimersi e a finalizzarsi in disastri. Disastri che
poi il fondo muto raccoglie senza più distinguere tra giusto o ingiusto, buono o
cattivo, bianco o nero e stendendo, in questo modo, un pietoso velo su quelle
miserie umane che generano così tanti guai. E soprattutto capace, in gran
segreto, di compiere, come questo, strani eventi che a ragione non arrivi a
comprendere.
Il ragazzo scoprì poi, osservando i segni rugginosi sul suo erogatore di
emergenza, che questo si era evidentemente staccato, senza che se ne fosse
accorto, andandosi inopinatamente ad incastrarsi proprio a una lamiera che, a
sua volta, lo aveva incastrato in quel macabro faccia a faccia con il teschio.
Ecco spiegato il mistero che tanto sgomento causò. Ma, però, con estrema
sorpresa si accorse, tempo dopo, anche di una rugginosa monetina andata
fuoricorso proprio dai tempi dell’affondamento entro una tasca ben chiusa della
stagna. Lui non ce l’aveva messa. In quella tasca ci andava la maschera di
emergenza e niente altro. Così, oggi, a distanza di così tanto tempo, non ha
ancora capito se, sott’acqua quel giorno, la presenza di quell’inaspettata
moneta e del vuoto di memoria riferito alla sua provenienza fosse qualcosa che
avesse un nesso con l’azoto e sui suoi negativi e ben conosciuti effetti o se,
invece, fu veramente un dono di ringraziamento che una mano misteriosa
proveniente dal passato elargì. Chissà!
[Questo breve racconto è dedicato ai 233 marinai affondati insieme alla
motonave Tabarca al largo del Faro di Vada (LI), il 1 dicembre 1943.]
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