Le aree marine protette funzionano? Studi recenti dimostrano che un nuovo approccio è necessario.
Le aree marine protette (AMP) sono state a lungo considerate uno strumento efficace e alla base dei progetti per la conservazione degli ecosistemi marini. Una recente ricerca solleva però dei dubbi sulla loro reale efficacia e propone un approccio più flessibile e diversificato per affrontare le sfide della protezione marina.
La sfida della protezione marina nelle aree marine protette, un esempio concreto
Immaginate una scena: due pescatori ricreativi cercano di catturare dei pesci imperatori iridescenti in una zona protetta del santuario del Ningaloo Marine Park, in Australia Occidentale, dove tutta la pesca dovrebbe essere vietata.
Avvisati via radio dell’arrivo imminente delle guardie del parco, ripongono rapidamente le loro canne, accendono il potente motore e si allontanano dalla zona protetta. Quando le guardie arrivano, tutto sembra calmo e tranquillo.
Questo scenario, descritto dal professor Peter JS Jones dell’University College London, illustra quanto è impegnativo proteggere la fauna marina dagli effetti dannosi delle attività umane, come la pesca.
La corsa al 30% e i suoi limiti
Quasi tutti i paesi del mondo stanno cercando di raggiungere l’obiettivo legale concordato a livello internazionale di proteggere il 30% delle loro aree terrestri e marine entro il 2030.
L’istituzione di aree marine protette è un modo per raggiungere questo traguardo, ma, come sottolinea Jones, “devono essere efficaci nel ridurre effettivamente gli effetti negativi delle attività umane, oltre che essere eque nei confronti delle popolazioni locali evitando restrizioni eccessive”.
C’è il timore che la corsa alla creazione di più AMP possa distrarre i governi dalle reali difficoltà da affrontare necessarie per garantire che le misure di conservazione siano il più efficaci possibile.
Un’analisi globale rivela carenze
Per valutare modi diversi di affrontare queste problematiche, Jones e il suo team hanno valutato l’efficacia di 50 AMP in 24 paesi, dall’Ecuador al Madagascar e al Vietnam. Hanno confrontato i punti di forza e di debolezza di diverse misure di conservazione utilizzando un set di 36 “incentivi di governance”, tra cui la compensazione finanziaria, la responsabilità legale e l’istituzione di gruppi locali che incoraggiano la partecipazione della comunità alle discussioni e alle decisioni.
I risultati sono stati scoraggianti: le 50 AMP hanno ottenuto un punteggio medio basso di 2/5 per efficacia. Jones spiega: “Molte misure di protezione e conservazione erano in vigore sulla carta, ma non erano efficaci nel ridurre gli effetti dannosi di determinate attività umane per proteggere la fauna marina”.
Questo risultato evidenzia la necessità che le AMP devono intervenire concretamente, con risultati tangibili, altrimenti rischiano di diventare quelli che molti definiscono “parchi di carta”, che esistono nei testi legali ma non nella pratica.
Non esiste una soluzione unica per migliorare l’efficacia delle aree marine protette
La ricerca conferma che non esiste una chiave unica per il successo: diverse combinazioni di misure di conservazione funzionano meglio per migliorare l’efficacia in luoghi diversi. Una tendenza generale chiara è che un mix più diversificato di approcci gestionali ha portato a una maggiore riduzione degli effetti della pesca, del turismo e di altre attività umane.
Jones cita come esempio relativamente positivo i parchi marini di Ningaloo e Shark Bay in Australia Occidentale. Qui, gli ufficiali della pesca applicano restrizioni legali sulla pesca ricreativa, il che ha portato al recupero di alcune popolazioni precedentemente sovrasfruttate, come il lutjano rosa.
Rimane però difficile prevenire la pesca illegale nei santuari remoti vietati alla pesca. I pescatori che vengono sorpresi a infrangere le regole vengono multati, ma queste sanzioni fisse spesso non sono sufficienti a scoraggiare ulteriori attività illegali.
L’osservazione della fauna marina: un modello di gestione
Un altro esempio interessante riguarda la gestione dell’osservazione della fauna marina, in particolare per gli squali balena e tursiopi. Questa attività è regolata attraverso un numero limitato di licenze per le imbarcazioni turistiche.
Le condizioni legali per prevenire il disturbo a questi animali sono allegate a queste licenze, applicate dalle stesse imbarcazioni che si controllano reciprocamente in modo competitivo, nella speranza di poter acquisire ulteriori licenze per l’osservazione della fauna selvatica. La sorveglianza satellitare e le pattuglie delle guardie aiutano a monitorare le imbarcazioni dedite all’osservazione della fauna selvatica.
Equità e partecipazione locale
I parchi marini di Ningaloo e Shark Bay promuovono anche l’equità nei confronti delle popolazioni locali. I modi di vita tradizionali degli aborigeni australiani sono rispettati e si impara dalla loro comprensione degli ecosistemi generata nel corso di molte generazioni.
I locali lavorano come guardie e ufficiali di ricerca nei parchi, i comitati prevedono la partecipazione alle discussioni delle popolazioni locali che rappresentano diversi interessi, compresi quegli degli aborigeni australiani.
La necessità di un approccio mirato a preservare la biodiversità
Gli ecosistemi sono più resilienti all’impatto delle attività umane se supportano una maggiore diversità di specie. Le AMP rappresentano sistemi sociali ed ecologici complessi, ciascuno interagente in modi diversi con le popolazioni locali delle comunità costiere.
La ricerca di Jones mostra che non esiste una soluzione unica per tutti e ciò che funziona in una situazione potrebbe non funzionare in un’altra.
Lo studio dimostra anche che per proteggere con successo il 30% delle loro terre e dei loro mari entro il 2030, i governi e le popolazioni locali dovrebbero utilizzare diversi approcci gestionali in combinazione, piuttosto che cercare irrealisticamente un’unica soluzione ottimale.
Jones conclude: “La chiave per la resilienza è la diversità, sia delle specie negli ecosistemi che delle misure di conservazione nei sistemi di gestione delle aree protette”.
Le difficoltà pratiche della gestione delle Aree Marine Protette
Nonostante le buone intenzioni molte AMP si trovano ad affrontare difficoltà pratiche nella loro gestione quotidiana. La carenza di risorse, sia in termini di personale che di mezzi, spesso ostacola l’efficacia delle misure di protezione.
Un caso emblematico è quello Siciliano dell’area marina protetta del Plemmirio, trovandosi in difficoltà, ha dovuto richiedere l’assistenza di Sea Shepherd Italia, un’organizzazione non governativa.
Questa collaborazione con un approccio originale sta dando buoni frutti: i volontari di Sea Shepherd monitorano la costa anche durante le ore serali e notturne, segnalando alle autorità eventuali attività di bracconaggio o altre problematiche.
Questo modello di cooperazione tra enti pubblici e organizzazioni private potrebbe rappresentare una soluzione pratica per altre AMP che si trovano a fronteggiare simili carenze di risorse, permettendo una sorveglianza più capillare e continua delle aree protette.
La protezione degli oceani è di vitale importanza per il futuro del nostro pianeta, queste nuove riflessioni e un approccio più diversificato potrebbero rappresentare una via da seguire per garantire un futuro sostenibile per i nostri mari e le comunità che da essi dipendono.
Articolo originale: https://theconversation.com/most-marine-protection-measures-are-not-working-a-new-more-flexible-approach-is-needed-232753