“Sale la nebbia (sui prati bianchi)…”, così cantava De Andrè in Inverno.
Fatte le dovute proporzioni e dopo aver sostituito i prati bianchi con la distesa delle teste del motore della Haven, la situazione nebbiosa è quella che ci ha accolto entrando in sala macchine del gigante del Mediterraneo.
La superficie è blu elettrica, la visibilità dicono sia in netto miglioramento rispetto ai periodi passati e io sono speranzoso anche se l’obiettivo della nostra esplorazione è tutto al chiuso.
Fatti i dovuti check a pelo d’acqua scambio un triplice “Ok!” con il mio compagno d’immersione e poi “Giù! Ci troviamo al fumaiolo”. Una volta raggiunto il primo check point per procedere nell’immersione, lasciamo una stage ciascuno alla cima che connette il fumaiolo con la superficie. È qui che torneremo più tardi, ora dobbiamo scendere ed essere agili e con l’attrezzatura adesa al corpo per procedere meglio durante la stretta penetrazione.
Conduco la discesa fino all’ingresso in sala macchine. Oggi proviamo a entrare da un punto diverso, dal retro del fumaiolo, verso poppa. Sgonfiato il GAV, entriamo in questo ampio buco nero e già arrivano le prime avvisaglie di scarsa visibilità. Tanto era bello fuori, tanto è lattiginoso qui dentro.
Un passo d’uomo è aperto e ci permette di pinneggiare al di sopra di due modeste rampe di scale, al termine ci troviamo di fronte i due grandi pistoni di rispetto che, severi, appaiono nella coltre nebbiosa. Proseguo lungo il corridoio che porta all’officina, il mio compagno segue, comunichiamo spesso con le torce. Sulla sinistra appare la bellissima morsa avvolta tra fango e ruggine; proseguendo sul lato destro si trovano un’infilata di mezzi barili ricolmi di attrezzi ormai tutti affogati nel sedimento. Manteniamo questa quota per un altro po’ di tempo e osserviamo ciò che resta di grandi lampade, turbine di aspirazione e valvole.
Lasciamo scorrere le balestre davanti ai nostri occhi, incrociamo gli sguardi e ci diamo un “Ok” a scendere ulteriormente. Andiamo a -72m, la base del motore. La visibilità è costantemente nebbiosa e non permette di gustare fino in fondo tutta la gamma cromatica delle ruggini che compongono quel che resta del cuore della Haven. Una volta presi i riferimenti con reel e punti fissi e trovato il possente gancio di carico sulla mezzeria dell’invaso sottostante, chiedo l’OK al mio compagnio: decidiamo di scendere ancora. Voglio iniziare a esplorare e prendere confidenza con la via che porta alla trasmissione dell’elica. Questa volta l’esplorazione è finalizzata solo a conoscere il percorso che porta a questo punto, così da memorizzare i passaggi per una prossima immersione che sarà dedicata unicamente a questa parte (angusta) del relitto.
Le bolle che mi seguono lasciano cadere polvere di ferro e qualche detrito, cerco di stare molto attento alla pinneggiata per non compromettere ulteriormente la visibilità. Quando arrivo sul fondo penso di essere davvero nella pancia della Haven. Metto la testa all’interno del vano che contiene e protegge la trasmissione. È davvero enorme. Fa impressione. Siamo esattamente in asse con il bulbo dell’elica.
Esternamente vecchi reel segnano un percorso, non lo intraprendiamo: oggi il massimo punto da raggiungere era questo, anche perché sono ormai oltre 30 minuti che siamo al chiuso e il manometro della mia stage inizia a scendere sostanziosamente. Risalendo passo al back gas del mio bibo, miscela leggermente meno ricca di elio e con un pochino in più di ossigeno. Era stato preparato per la parte alta di questa esplorazione. Ancora qualche scala, alcuni corridoi e un paio di passaggi: sbuchiamo quasi direttamente alla mensa dell’equipaggio.
All’interno del cassero la visibilità è cristallina, i colori piacevoli, l’esplorazione è davvero più semplice adesso. Avevo promesso al mio compagno che questa immersione sarebbe stata tutta al “chiuso”, dal motore, alla trasmissione, al ritorno sulla cima di discesa, senza mai passare all’esterno della nave, e così è stato. Le scale nella parte bassa del cassero sono semi collassate, a tratti bisogna stare molto attenti ad alcune sporgenze acuminate; le rampe spesso non ci sono più e resta solo un cumulo di ferro indebolito dall’incendio antecedente l’affondamento. Con calma passiamo tra i vari ponti, lo sguardo ogni tanto è rapito dalle fette d’azzurro che si intravedono attraverso oblò e portelloni. La luce è calda là fuori, tra poco ci arriveremo anche noi.
Siamo giunti al penultimo ponte, all’ingresso del vano ascensore; giro a destra, uno per volta usciamo da un’ampia apertura che dal cassero affaccia sulla coperta verso prua. Torniamo alla luce e sotto di noi, per la prima volta in tutta l’immersione, abbiamo una colonna d’acqua. La sensazione di “galleggiare” immersi in un fluido mi mancava dopo tanto tempo passato in ambienti ostruiti.
È il cinquantesimo minuto. Siamo alla cima di risalita.
Ciascuno clippa la sua stage e si perde nei propri pensieri nell’oltre ora e mezza di deco che ci attende.
Arrivato ai -6m pulisco i guanti da tutto ciò che hanno raccolto durante questo tuffo. Poi sulla destra, a un certo punto, il mio sguardo è catturato da un piccolo crostaceo che si dibatte libero nell’acqua. Ondeggia, si contorce, fluttua. Non ho potuto fare a meno di pensare “all’innaturale grazia di Nijinsky”… Ancora trenta minuti di ossigeno e si torna in superficie.
Foto di Marco Mori
NOTA BENE:
effettuare immersioni in luoghi ostruiti è altamente pericoloso per sé stessi e per il primo team. Affrontare penetrazioni avanzate in relitti e in ambienti chiusi richiede un’ampia preparazione, disciplina e autocontrollo.
L’articolo è da intendersi quale testimonianza di un’esplorazione fatta da subacquei esperti e preparati. Si invita il lettore e il subacqueo che non ha il giusto addestramento e consapevolezza a non intraprendere questa immersione sull’Haven, le conseguenze di errori qui portano a incidenti gravi che comprendono la fatalità.