Spesso quando organizzo una spedizione mi viene chiesto se durante le immersioni venga praticato lo shark-feeding. Ultimamente mi rendo conto che la risposta è quasi sempre: sì. A questo punto la domanda sorge spontanea: ma non se ne può proprio fare a meno? Proviamo ad elaborare il concetto.
Quando si preparano armi e bagagli e si parte per un viaggio subacqueo il cui obbiettivo primario è quello di incontrare gli squali, il più delle volte si è spesa una bella cifra, si è chiesta almeno una settimana di ferie e le aspettative sono alte. Spesso mi viene quindi domandato se gli avvistamenti siano garantiti e la mia risposta non può che essere diplomatica: “in genere gli squali li incontriamo, ma non è che possiamo prendere un appuntamento con loro…”. Alla fine sono animali selvatici e se si presentano sul punto di immersione è perché lo decidono loro. È qui che la presenza di cibo in acqua fa la differenza tra un’elevatissima possibilità di incontro ed una medio-bassa. Alcuni potranno obbiettare che a Socorro, alle Galapagos, piuttosto che a Coco gli squali ci siano a prescindere, ma il punto è che non funziona così ovunque. Bahamas, Cuba, Sudafrica e così via sono zone ricche di squali, ma serve un aiutino affinché gli squali si manifestino e si avvicinino ai subacquei senza perdere di interesse e nuotare via.
Pastura
È per questo motivo che, giunti sul punto di immersione, normalmente ci si affida all’uso di pastura. Quest’ultima altro non è che poltiglia di pesce triturata che viene gradualmente versata in mare, così che gli squali, percependone l’odore, si avvicinino al punto di immersione. Tuttavia, il feeding vero e proprio è un altro.
Concettualmente, infatti, il feeding strettamente detto prevede che gli squali vengano nutriti in qualche modo ed è questo “qualche modo” a fare la differenza tra una pratica da evitare ed una meno invasiva (e tendenzialmente più accettabile). Ma facciamo un po’ d’ordine tra le varie tipologie di feeding.
Pole feeding
Con “pole feeding” si intende una tecnica grazie alla quale il feeder nutre gli squali porgendo loro del cibo per mezzo di una sorta di palo (da cui il nome “pole” feeding) dotato di una pinza ad una delle estremità. L’utilizzo del palo supporta implicitamente la credenza generale che l’esca debba essere mantenuta a debita distanza dal subacqueo. Questo effetto psicologico celato, ma negativo, è ulteriormente enfatizzato nel caso in cui il feeder (colui che porge il cibo agli animali) indossi una muta di maglia d’acciaio per proteggersi. Con particolare riferimento a quest’ultimo aspetto, la prima (e unica) volta che – tanti anni fa – sono sceso in acqua fa con un cavaliere medioevale, mi sono chiesto: “ma perché lui è bardato in questo modo mentre io sono in mutande?” Personalmente ritengo che questo tipo di teatrino sia poco educativo e rassicurante per un subacqueo che veda per la prima volta in vita sua uno squalo. L’idea che passa, infatti, è che, comunque, ci si stia imbarcando per un’avventura pericolosa. Al contrario, l’obbiettivo dello shark diving dovrebbe essere quello di far comprendere ai subacquei che gli squali non sono mostri assetati di sangue, quanto piuttosto animali con i quali si può condividere il mare pacificamente, sebbene con una robusta dose di cautela, preparazione e rispetto.
Hand feeding
L’hand feeding prevede, invece, che all’animale venga porto del pesce usando le mani (nude, o protette da guanti di maglia d’acciaio). Spesso, quando si verificano incidenti è questa tecnica a scatenarli. Non perché lo squalo morda volontariamente chi gli porge del pesce, ma perché se il cibo non viene porto nella maniera corretta il rischio è che l’animale afferri una mano, piuttosto che un braccio. Sia il pole, sia l’hand feeding sono tecniche possibilmente da evitare. In entrambi casi, infatti, vengono totalmente sovvertiti gli ordini gerarchici tra gli animali poiché è sempre il feeder a decidere quale esemplare debba mangiare per primo. In sintesi, a mio modesto parere, il valore educativo di questi tipi di immersione è pressoché nullo: gli animali sono indotti a mangiare e il loro comportamento naturale viene del tutto alterato.
Bucket feeding
Diverso è il caso del “bucket feeding” o del feeding praticato con carcasse artificiali. Nel primo caso gli squali non vengono nutriti nel senso stretto del termine, quanto piuttosto attirati con del cibo inserito all’interno di un contenitore (generalmente un cestello forato, un contenitore di plastica ecc..) che, gradualmente, rilascia in acqua una traccia odorosa.
Questa tecnica è tollerabile, a condizione che i subacquei non si avvicinino troppo all’esca e non si posizionino sottocorrente, nel bel mezzo della scia di fluidi di pesce che viene seguita dagli squali.
A questo proposito, esiste un trucchetto per capire da quale parte “tiri” la corrente quando questa sia particolarmente debole. In genere, infatti, remore e piccoli pesci tendono ad ammassarsi sul lato del cestello posizionato sottocorrente. Una volta individuato l’assembramento, è sufficiente posizionarsi dalla parte diametralmente opposta. In verità questa non è una regola generale, dal momento che spesso c’è tale e tanta confusione intorno al cestello da rendere impossibile individuare dove sia il punto sopra e dove quello sotto corrente. Specialmente in questo caso (ma è bene farlo a prescindere) mantenersi a debita distanza dall’esca è la cosa migliore da fare.
Carcasse artificiali
Venendo alle “carcasse artificiali”, dovete sapere che quando un grande mammifero marino (balena, delfino ecc..) muore, in breve tempo nella zona compaiono i primi squali per nutrirsi della sua carcassa. Il processo segue un ordine gerarchico basato sulla specie di appartenenza degli animali, la loro dimensione ed il sesso. Come suggerisce il nome di questo tipo di feeding, l’operatore tenta di ricreare le stesse condizioni che si verificano in natura utilizzando delle sorte di “carcasse artificiali”. A questo scopo diversi pezzi di pesce vengono congelati all’interno di un recipiente (ad esempio un secchio per la vernice) e, una volta estratti dal freezer, si presentano come un unico grosso blocco di cibo che viene calato in acqua dopo averlo attaccato ad una boa. Man mano che il blocco si scongela, gli squali iniziano a nutrirsi. Questo metodo ha il chiaro vantaggio di mettere gli squali nelle condizioni di stabilire il proprio ordine gerarchico. Inoltre, essendo la “falsa carcassa” attaccata ad una boa non viene associata alla presenza del feeder (come invece accade nel caso del hand o del pole feeding). Il rovescio della medaglia è che il distacco contemporaneo di pezzi di pesce dalla carcassa potrebbero accidentalmente finire in prossimità dei subacquei. Tuttavia, questo problema è facilmente risolvibile mantenendo un’appropriata distanza dall’esca e stabilendo prima dell’immersione dei segnali grazie ai quali la guida può avvisare i subacquei di eventuali pezzi esca alla deriva. In sintesi, questo tipo di feeding rappresenta la migliore opzione attualmente disponibile e dovrebbe essere utilizzata ogni volta che sia possibile. Sempre che l’operatore decida che il feeding è necessario.
Feeding sì, feeding no?
Personalmente non amo molto il feeding, anzi. L’ideale sarebbe non praticarlo del tutto per una serie di ragioni, ma non si possono dettare le regole a casa di altri. Inoltre, ha l’indubbio vantaggio di permettere un tempo di contatto con gli squali prolungato, cosa che non si verifica in assenza di cibo in acqua. Chiunque abbia fatto questo tipo di immersione avrà infatti notato che, una volta rimossa l’esca, nell’arco di brevissimo tempo gli squali se ne tornano da dove sono venuti lasciandoci nella desolazione più completa. Non mi sento quindi di condannarlo a prescindere, a condizione che venga praticato con le modalità corrette.
Detto questo, il feeding può aumentare le possibilità di incidenti? Onestamente non conosco le statistiche (né so se ne esistano di specifiche), ma credo che non ci sia una correlazione diretta tra cibo in acqua e incidenti che coinvolgono i subacquei. Al contrario, se si mantengono le debite distanze dall’esca, gli squali saranno senz’altro più interessati a quest’ultima rispetto ad un anonimo e bizzarro subacqueo. Questo discorso non vale per i feeder che senza dubbio si espongono a maggiori rischi, senza peraltro offrire alcun tipo di valore aggiunto all’immersione, trasformandola – al contrario – in uno spettacolo da circo. E a me il circo non è mai piaciuto.
Buongiorno, non sono un dive master tuttavia sono un AOW che ha effettuato centinaia di immersioni tra Maldive e Polinesia. Trovo questa pratica insensata in tutte le sue varianti, anche in quelle soft come quello del pentolone. Un diver trae piacere dall’osservare lo stato naturale del sito, che comprende tutte le sue bellezze dal reef ai piccoli pesci via via fino a quelli più grandi ed eventualmente squali. L’obiettivo è osservare l’ambiento allo stato naturale, non alterato.
Ho fatto poche settimane fa un’immersione a White Valley a Tahiti e fortunatamente avevano smesso di fare questa pratica (chiaramente perchè c’erano stati incidenti) ho comunque visto decine di pinna nera e squali grigi, soltanto che nuotavano liberamente invece di ammassarsi intorno ad una carcassa. L’immersione è stata meravigliosa, mi sono concentrato su tutto l’ambiente invece che solo sugli squali. In più mi sentivo al sicuro.
Lo shark feeding in pratica è l’equivalente di tirare un osso in mezzo ad un branco di cani che cercano di accaparrarselo, non necessariamente succede un incidente ma se lo fai un numero elevato di volte stai pur sicuro che prima o poi succede.
Nel mondo di google un diver medio prima di immergersi cerca se ci sono stati incidenti sul sito e con lo shark feeding probabilmente ce ne saranno alcuni. Nel breve periodo avrai più diver perchè magari l’ignorante vuole a botta sicura vedere il tigre o il lemon, ma nel lungo avrai sempre meno dive mano a mano che aumentano gli incidenti. Incrociamo le dita poi che non si avvicini un pinna bianca oceanico…