Autore: Pierpaolo
Montali
Avevo sentito parlare della nave da carico VIS
qualche tempo fa, documentandomi per il mio viaggio in Croazia- Istria,
dall’amico Darko Cacardic, uno dei due soci del diving a Mosceniska Draga che si
chiama Marine Sport.
Era una nave a vapore con caldaia a tripla espansione, costruita nel Regno unito
nel 1921 e battezzata col nome Renteria. Scafo in acciaio con cabina di comando
al centro, era lunga 79 metri ( o 120 secondo altra fonte) e larga 12,5 per una
stazza di circa 2.865 tonnellate.
Mi interessava la storia ed il fascino di questa nave, affondata in assetto di
navigazione in uno dei golfi più noti degli scenari di guerra sia della prima
che della seconda mondiali: il Quarnero.
Darko parla italiano perchè si trova frequentemente a lavorare sulla sua
barca-catamarano con subacquei italiani (per lo più triveneti) che si recano in
zona per immergersi su alcuni dei molti relitti presenti.
Con lui si è quindi stabilito un programma di esplorazione che parte dalla VIS
lunedì sedici agosto.
Preso contatto con gli amici Umberto e Andrea da Vicenza, si decide di trovarci
al confine sloveno nell’abitato di Basovizza; io li raggiungerò passando da
Capodistria e Trieste, proveniente dalla penisola di Salvore, tutta terra
d’Istria, un tempo colonia della Serenissima Repubblica di Venezia prima ed
Italiana dopo.
In questi giorno poi ho anche avuto anche modo di navigare in Adriatico con
l’amico Marko e suo fratello, i pescatori con l’imbarcazione più grande del
paese di Umago ed ho imparato cosa voglia dire acqua fredda e vento del nord est
(qui chiamato Bora): in Quarnero non dovrebbero essere molto differenti.
Parto in auto dalla costa quindi, con 18 gradi centigradi all’alba, per recarmi
verso l’altopiano carsico di Basovizza e, arrivato a destinazione, vengo
tagliato letteralmente in due dai sette gradi del mattino presto in mezzo a
nuvoloni grigi e bassi: la maglietta a maniche corte da perfetto cittadino fa
subito spazio alla giacca militare di scorta che c’è nel bagagliaio della mia
auto, utilissimo ricordo della mia passata esperienza di ufficiale nel corpo
degli Alpini.
Ho preparato per questa immersione una miscela normossica, poiché la profondità
maggiore del relitto dovrebbe essere intorno ai 63/67 metri.
Sono col vecchio e solido 10 + 10 in circuito aperto: ho dovuto rinunciare al
mio fidato rebreather infatti per motivi di spazio e di delicatezza del carico
nel marasma vacanziero, del resto sono ormai abituato da anni a passare da un
sistema all’altro di respirazione subacquea, mi adatterò anche questa volta.
Ho portato un sottomuta leggero: è estate e non farà così freddo – penso –
stante il rigore adriatico che ho appreso in altre occasioni; errore di
valutazione grave questo che pagherò caro più tardi in acqua.
La nave cargo a vapore Vis apparteneva alla ditta “Brodarsko a.d.” società
azionaria, o “Oceania” di Susac, che nel periodo tra le due guerre possedeva
un’ampia flotta di navigli da carico.
Lo spazio per le merci nello scafo era diviso in quattro grandi stive: due a
prua e due a poppa.
Nel 1939, dopo l’inizio della guerra, sulla nave comparve la scritta “Jugoslav”
e la bandiera dello stato sulla fiancata, in modo che i sottomarini e le navi da
guerra potessero vedere da lontano che si trattava di una nave neutrale da
carico.
Nell’aprile del 1941, dopo l’occupazione della Jugoslavia, tutte le navi da
commercio jugoslave che si trovavano nei porti a controllo britannico o
americano furono confiscate per le necessità della marina militare.
Alla Renteria, cui venne dato il nome di Vis (= forza in latino), accadde la
stessa sorte e fu così subito inserita nei convogli delle navi alleate in
transito nell’Adriatico.
Leggendo il giornale di bordo che si è rintracciato si è ricostruito che verso
la fine della guerra, la Vis partì con un convoglio attraverso l’Atlantico alla
volta della Gran Bretagna, dove scaricò un carico di legname per ripartire
quindi verso Oran nel nord Africa.
In loco fu caricata di merce varia per Alessandria d’Egitto. Nella città delta
del Nilo fu poi ricaricata con gli aiuti anglo-americani dell’U.N.R.A. destinati
alla nascente Jugoslavia di Tito.
Inizialmente però la Vis approdò a Trieste e dopo tanti anni di guerra giunse a
Spalato.
La nave effettuò ancora un paio di viaggi corti e poi fu destinata
definitivamente al porto di Fiume in Istria.
Il 13 febbraio 1943 la Vis, partita alla volta di Arsia nella penisola in
istriana dove doveva caricare un carico di carbone, faceva rotta verso sud a
causa della persistente minaccia delle mine nella parte centrale della Porta
Grande (il passaggio tra la costa dell’Istria e la parte nord dell’isola di
Cherso); al capitano fu pertanto indicato di tenersi il più vicino possibile
alla costa continentale, dove avrebbe dovuto esserci un corridoio bonificato dai
pericolosi ordigni.
La Vis navigava, per questa ragione, a quattrocento metri dalla costa Istriana,
quando alle 09:30 fu scossa da una forte esplosione a dritta che innalzò a prora
via un alto muro d’acqua quasi cristallizzata. Assieme agli spruzzi vaporizzati
volarono anche pezzi dello scafo e dell’equipaggiamento, ricadendo in mare pochi
secondi dopo.
L’albero di prua era caduto con un boato sordo, lasciando dietro di sé una
specie di voragine deserta e sulla fiancata destra s’era aperta una falla enorme
dalla quale entrava copiosa l’acqua.
Il capitano Frano Jurkotic e il primo ufficiale Sveto Ratkovic, come tutti i
componenti dell’equipaggio che si trovavano in coperta, fecero il possibile per
salvare il salvabile. Ma purtroppo non vi fu il tempo per calare regolarmente le
scialuppe, poiché la nave stava affondando con la prora già in acqua sino alla
coperta principale.
Restavano soltanto le scialuppe (barchette in legno) che erano state montate
dagli alleati su degli scivoli accanto alla cabina nel caso si dovesse
abbandonare la nave in fretta.
Era questo il caso concreto.
Tagliate decisamente le cime, le scialuppe scivolarono velocemente in mare e
l’equipaggio vi prese posto mentre galleggiavano vicino alla nave che si stava
inabissando sempre più veloce.
Dopo solo un paio di minuti dall’esplosione, la Vis, con la poppa alzata in alto
sul livello del mare, sparì per sempre dalla superficie.
Con la nave purtroppo persero la vita 3 membri dell’equipaggio ed i superstiti
naufraghi furono salvati da un veliero a motore e portati all’ospedale di Rabac.
Il relitto è stato ritrovato nel 1976 sembra per opera della precisa indicazione
dei pescatori locali che ci perdettero diverse reti e poi dimenticato per anni.
L’IMMERSIONE
Anche se il relitto si trova a poche centinaia di metri dalla costa, in
corrispondenza del villaggio di Nacinovici, l’immersione può ritenersi come
un’immersione in mare aperto, poiché da questa parte dell’Istria l’Adriatico si
comporta come il Tirreno: precipita rapidamente verso gli abissi in un blu
cobalto rilucente sotto il sole perpendicolare.
Il clima nel frattempo è cambiato: dall’inverno di Basovizza della mattina, si è
ora catapultati in una calda giornata estiva, passati attraverso il quadro delle
altre due stagioni durante gli spostamenti in auto e sulla barca del diving.
Nonostante la Vis si trovi ad una sessantina di metri di profondità e la sua
esplorazione consista in una immersione quadra nel blu, sta comunque diventando
sempre più un’attrazione per i subacquei che s’interessano di relitti e che
praticano le immersioni tecniche.
Al relitto di solito è legata abbastanza precariamente una boa con della sola
corda, che però qualche volta, con le burrasche invernali, o per via dell’usura,
viene a mancare, così che per localizzare la nave affondata c’è bisogno
dell’ecoscandaglio e di tutta l’esperienza del comandante.
Nel nostro caso, cima, boa e comandante vanno
subito d’accordo e l’ormeggio sul relitto avviene in un attimo, dopo i quaranta
minuti di navigazione lenta in cui abbiamo potuto conoscerci meglio e
pianificare l’immersione con i miei due compagni conosciuti de visu in giornata:
Umberto è un bravo istruttore di Vicenza e sul relitto ci è già stato altre
volte.
Gli spiego che cosa vorrei poter fare nell’unico tuffo che ho a disposizione e
lui ascoltandomi attentamente comprende bene, definendo così il percorso che mi
guiderà a compiere e che partirà da poppa via, risalendo la fiancata di dritta
sino al grande squarcio della mina in prua, per poi ridiscendere su quella di
sinistra verso il ponte di comando e, se ci sarà tempo, si chiuderà con una
visitina alla sala macchine dietro il fumaiolo.
La nave è affondata adagiandosi con la chiglia sul piano di un fondale sabbioso
e piatto in cui i pesci non avrebbero avuto alternativamente alcun riparo: ecco
perchè di solito, già scendendo sulla cima del pedagno, si nota la parte più
alta della nave, il camino, che si trova a quarantacinque metri di profondità,
spesso avvolto da una nuvola di pesce argenteo come nel nostro caso. Si tratta
di mènole, come vengono chiamate in Istria, che testimoniano la teoria che un
relitto posto su di un fondale fangoso genera autenticamente la vita.
“Mannaggia! – penso – saranno un miliardo!!!”
Non grandi, ma tante, anzi direi tantissime
come non ne ho mai viste prima. Avrò modo al termine dell’immersione di darmi
ragione del loro strano comportamento d’insieme. Intanto guardo il termometro
del mio profondimetro digitale: sono arrivato sui cinquanta metri e sento uno
strano freschetto: “mannaggia! – ancora – ci sono dieci gradi qua sotto! Altro
che sottomuta leggero!” Non mi sarei aspettato tanto freddo in piena estate e
più tardi condividerò questa sensazione con i miei compagni d’immersione sulla
barca al ritorno.
È interessante come il camino alto e rotondo si trovi ancora perfettamente al
suo posto dopo sessantasette anni; da esso pendono molte reti sfilacciate
purtroppo. I fianchi del medesimo sono stati schiacciati perché durante
l’affondamento della nave, probabilmente l’acqua non è entrata subito
all’interno facendo contro pressione. Si legge su di esso ancora chiara la
lettera “O”, che era il simbolo della compagnia di navigazione, la “Oceania”
appunto.
Un rapido cenno con i compagni e si nuota
rapidi verso poppa a fianco della cabina, dove si trovano i supporti delle
scialuppe di salvataggio dell’equipaggio calate precipitosamente in mare al
momento dello scoppio. Dietro al camino c’è il boccaporto della sala macchine
che è parzialmente aperto, dal quale si intravede la macchina a vapore.
Sono in programma tra i 25 ed i 30 minuti di fondo, a trenta io avrei pochissimo
gas nel mio 10+10 e quindi devo sbrigarmela prima. Oggi non ho a disposizione la
funzionalità del rebreather anche se i miei due amici sono datati di un bibo da
18 + 18 ciascuno.
Andando avanti verso la parte terminale della
nave si trova il boccaporto numero tre e sopra di esso c’è l’albero di poppa,
che è ancora tenuto ritto e saldo dai suoi originari cavi d’acciaio.
Calandoci sul fondale marino di poppa, per raggiungere verso l’inizio
dell’immersione la quota più profonda, entriamo in un strato di acqua torbida
che di solito sta sopra il fondo di un paio di metri. Il timone e l’elica sono
quasi completamente immersi nel fango e si riesce appena a distinguerli. Vicino
alla nave troviamo anche le scialuppe in legno che sono cadute dai loro
supporti.
Altro cenno d’intesa: non val la pena perdere qui tempo e prezioso gas
respiratorio. Ci alziamo e andiamo via.
Negli ambienti non troviamo nessuna merce; solo vuoto e la desolazione tipica di
un disastro.
In fondo alla stiva poppiera troviamo un grande
tubo che porta presuntivamente dalla sala macchine fino a poppa via. All’interno
del tubo si comprende esserci l’asse di trasmissione all’elica esterna.
Dalla parte sinistra della paratìa che divide la stiva dalla sala macchine
troviamo la grande elica di rispetto con la “O” incisa su una delle sue pale;
immagine davvero imponente per il subacqueo in quello stretto ambiente!.
Qui accade che sul piano divisorio, Umberto veda per primo quello che riteniamo
possa essere un femore umano e me lo indichi con un gesto inequivocabile.
Non faccio fotografie ai resti umani, se e quando mai li trovo; mi sembra un
sacrilegio.
Con il dovuto rispetto mi scanso e lascio al buio assoluto di questa stiva,
profanato solo dalla potente luce dei nostri illuminatori, la custodia del
riposo eterno delle vittime di codesto affondamento.
Dalla stiva di poppa rimontiamo fino alla zona di sopra coperta esterna, dove
individuiamo molti utensili anche se non se ne distinguono più le definizioni
esatte.
Il ponte di comando della nave è ancora in buono stato, tutto sommato, sebbene
le sovra strutture siano tutte crollate ormai, anche per effetto del crollo
all’esplosione dell’albero maestro..
I ponti in legno sono naturalmente marciti ed in questo modo si può entrare
facilmente all’interno della nave nelle grandi stive.
I muri e i vetri della cabina di pilotaggio
sono ancora in piedi e si possono vedere varie installazioni, oltre che un
minuscolo gabinetto.
L’antenna goniometrica è caduta di un piano dal tetto della cabina di pilotaggio
e si trova ora adagiata sulle travi di ferro sottostanti.
Ovunque lenze ed impigli di ogni tipo: occorre fare molta attenzione.
A me tocca strapparne via una di forza che mi si è attorcigliata intorno al
braccio fermo che sorregge l’attrezzatura fotografica; fortuna che è di solo
nylon.
Ecco perchè – penso – i pescatori a volte imprecano quando incontrano i relitti
in mare: pesce sì, ma anche tanto materiale da cucire e da cambiare.
Sulle ali del ponte di comando ci sono delle piastre in ferro, che erano
probabilmente i supporti per i cannoni antiaerei montati dagli alleati. La parte
esterna della nave è completamente coperta da una rigogliosa concrezione.
La prua della nave è gravemente danneggiata dall’esplosione.
L’albero si trova adagiato sopra l’apertura della seconda stiva, assieme ad una
moltitudine di cavi in acciaio che hanno ceduto durante l’esplosione.
La fiancata della prua, all’altezza della stiva prodiera, è stata squarciata
dall’esplosione formando un buco di 5 x 7 mt, praticamente per tutta la
dimensione della murata.
“Dev’essere stato un boato devastante…!” penso mentre nuoto.
La prora fu squarciata dall’esplosione e risulta ora come leggermente storta
all’insù.
Lì si trovano anche i grandi verricelli che venivano usati per tirare in secco
le àncore, ancora nei loro occhi di cubìa.
Faccio cenno ai miei due compagni che si abbassino sul piano orizzontale di
lavoro prodiero; tiro su la macchina fotografica e scatto, ma la luce, pur
continua, dei miei fari quasi mi acceca di rimbalzo.
Mi accade ora una cosa che in tanti anni di immersioni non ho mai verificato:
guardo verso centro nave e… non la vedo! Ci sarà quel miliardo di mènole di
cui all’inizio dell’immersione tutto concentrato adesso davanti al mio soggetto
fotografico e che mi rimbalza tutta la luce con l’argenteo delle proprie
scaglie.
Per un attimo non so più dove sono e penso: “possibile che non riesca a vedere
una nave larga quasi tredici metri e lunga quasi un centinaio?!”. Sembra assurdo
ma è così.
E’ come se una vocina mi chiamasse da dentro in quel medesimo istante: siamo
giunti al ventisettesimo minuto e mi restano soltanto più 70 bar nel bibo; sono
sui cinquantacinque metri del ponte di coperta e devo farmi tutta la
decompressione; non guardavo il manometro da un po’ troppo tempo.
Alzo così la testa d’istinto e vedo il comignolo con la cima bianca del pedagno
tesa in obliquo, mentre la nuvola argentea e vivente di pesce si sposta di
nuovo, quasi avesse adempiuto al proprio compito.
Infatti è come se mi avessero avvertito: preso com’ero dal mio reportage stavo
quasi dimenticando tempi e modalità decompressive.
Faccio così cenno ai miei due compagni che sono a fine corsa, che debbo risalire
e che lascerò alla prossima volta la visita della sala macchine; ok d’intesa.
Entrambi restano sul fondo ancora un po’, certamente avvalendosi della più
grande capacità delle loro bombole.
Mentre mi decomprimo sulla cima da solo ripenso allo strano comportamento dei
pesci sul relitto.
Ora sembra che mi guardino dal basso, come se mi salutassero.
Grazie amici.
INFO AGGIUNTIVE: VALUTAZIONE SULL’IMPATTO AMBIENTALE
La nave Vis era un vaporetto e come tale era alimentata a carbone, che era
tenuto in un alloggio tra la cabina di pilotaggio la caldaia ed il camino.
L’olio per la lubrificazione era tenuto in un serbatoio nello scafo, però la sua
posizione esatta non è nota, come nemmeno si sa se all’interno se ne trovi
ancora.
La nave era senza carico, ciò si comprende dalle stive completamente vuote:
pertanto non si hanno pericoli d’inquinamento dati dalle merce trasportate (come
accade spesso in altri casi).
Dopo tanti anni dall’affondamento si pensa che le quantità di lubrificante nella
nave siano minime o nulle. Nonostante ciò, una volta all’anno ancora oggi si fa
un’immersione per controllare eventuali perdite da parte delle autorità portuali
croate.
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