“Se noi italiani dovessimo mangiare solo pesce che proviene dalle nostre acque non ne avremmo più a disposizione, approssimativamente, intorno alla fine di marzo di ogni anno”.
Inizia così “Il pesce è finito – lo sfruttamento dei mari per il consumo alimentare”, il nuovo saggio del naturalista Gabriele Bertacchini, edito da Infinito edizioni, patrocinato da Oceanus onlus, in libreria dal 22 aprile, in occasione della giornata mondiale della Terra.
Un viaggio sotto la superficie dell’acqua, tra moderni attrezzi di cattura, dati impietosi, avvenimenti di cronaca, specie viventi che stanno diventando sempre più rare, per diventare consumatori più consapevoli e fare le scelte migliori.
Peschiamo troppo e lo stiamo facendo male, se è vero che, contemplando anche il deterioramento lungo la filiera, circa il 40% di tutte le catture non arriva al nostro piatto. Per alcuni “prodotti”, le catture accessorie possono essere anche più del doppio rispetto la specie per la quale si è usciti in mare. Per un chilogrammo di gamberetti, ad esempio, è possibile trovare nella rete anche più di cinque chilogrammi di animali “non desiderati”, che finiscono per essere sacrificati nel nome degli attuali modelli di consumo. Per un chilogrammo di cannolicchi pescati con le draghe turbosoffianti vi possono essere altri tre – quattro chilogrammi di esseri viventi che non vengono commercializzati.
La “pesca fantasma” non riguarda solo pesci, ma anche cetacei, uccelli marini e tartarughe. Solo per riportare qualche dato, a livello mondiale, ogni anno, perdono la vita nelle reti e nelle lenze di materiale plastico oltre centotrentamila tra leoni marini, foche e balene.
Il Mediterraneo è considerato il mare più sfruttato al mondo. Vi peschiamo dalle due alle tre volte al di sopra di quello che la natura è in grado di sopportare.
A livello globale, oltre il 30% degli stock ittici è eccessivamente sfruttato e circa il 60% è pienamente sfruttato.
Le specie che sono in cima alla piramide trofica (predatori), anche a causa dei loro cicli riproduttivi più lunghi, sono quelle che se la passano peggio. Il pesce spada, alcuni squali (come la verdesca e il palombo), il merluzzo nordico, il tonno rosso, la rana pescatrice, diverse cernie, sono solo alcuni dei “nomi” commerciali più famosi alla cui pesca ci si è dedicati con un’intensità spropositata.
All’interno dei Paesi dell’Unione europea, cinque prodotti soltanto coprono quasi il 50% dei consumi complessivi. Nulla da meravigliarsi, dunque, se entro il 2048, come sostengono alcuni biologi marini, continuando con questo passo, i principali pesci che siamo abituati a mangiare saranno in parte scomparsi.
In aggiunta c’è la pesca di frodo, quella che ha numeri difficili da conteggiare, ma che riguarda oloturie, cavallucci marini, giovani anguille, novellame di pesce azzurro, bivalvi, e che può essere praticata anche con metodi altamente distruttivi (basti pensare che per ottenere un piatto di spaghetti ai datteri di mare si distrugge, mediamente, un quadrato di fondale con lato superiore a trenta centimetri).
Oltre il 50% di tutti i prodotti ittici consumati dagli esseri umani, poi, proviene attualmente dall’allevamento. “Questo- spiega Bertacchini – contribuisce ad alimentare il problema e a provocarne dei nuovi. Bisogna tenere in considerazione l’efficienza con cui, in termini di peso equivalente, l’acquacoltura converte un’unità di pesce selvatico in un’unità di pesce allevato. Seppure la ricerca stia facendo passi da gigante, per alcune specie di grandi dimensioni e con una certa dieta (pensiamo al salmone) non è possibile ottenere un rapporto 1:1. Il che vuol dire che si svuotano i mari di pesci considerati di minore importanza solo per avere specie più alla moda, in quanto solo una parte dei mangimi e delle farine si ottiene dai prodotti di scarto della filiera ittica, quali i filetti.
L’allevamento può provocare anche fenomeni di inquinamento delle acque; distruzione di habitat (pensiamo alle gabbie per i gamberi tropicali che si sostituiscono alle foreste di mangrovie); introduzione di specie selezionate artificialmente in ambienti naturali. C’è infine l’aspetto etico. I pesci non godono di grande considerazione, ma sono gli animali, a livello numerico, più sfruttati al mondo”.
Il destino imminente dei pesci e delle altre creature dei mari è affidato a una crescita di coscienza e di conoscenza allo stesso tempo sia individuale che collettiva. Le nostre azioni contano più di quello che possiamo immaginare, in quanto vanno ad alimentare un circuito e a disegnare. Per quanto se ne dica, parole e idee possono cambiare il mondo. “Sono i pensieri che possono plasmare le leggi, i governanti, i consumi, i controllori, i commercianti e i pescatori di domani. Dobbiamo permettere agli ecosistemi di rimettersi in moto in modo naturale – continua Bertacchini. – Se messa nelle condizioni di poterlo fare, la vita acquatica è in grado di riprendersi. Le aree marine ci dicono e di dimostrano questo”.
Come scrive Umberto Pelizzari nella prefazione: “Cogliamo i piccoli e grandi segnali che il mare ci invia. Osserviamo. Guardiamoci dentro e adattiamoci alle sue esigenze. Sentiamoci parte di qualcosa di più grande. Fermiamoci per un istante, ascoltiamo quello che il mare ha da dirci”.
Note sull’autore
Gabriele Bertacchini (Bologna, 1980), è un divulgatore ambientale. Dopo la laurea in Scienze naturali e un master in comunicazione ambientale, nel 2006, fonda AmBios, azienda specializzata in educazione e comunicazione ambientale. Collabora con molti enti sul territorio nazionale. Vive diviso tra Trentino e Sardegna, tra i boschi e le coste di cui ama raccontare le storie. Ha all’attivo oltre duemila incontri pubblici tra conferenze e momenti formativi. Ha pubblicato Il mondo di cristallo (2017) e L’orso non è invitato (2020).