Autore: Matteo De
Lorenzi
Certo che essere appassionati di subacquea e
abitare all’estremo nord dell’Italia, parrebbe un controsenso.
Il mare, purtroppo, è molto lontano e ci costringe a lunghe e pesanti trasferte
da fare in giornata.
Abbiamo però il Grande Lago, il Garda, vicino e misterioso.
Poi arriva la stagione invernale, quando molti ripongono la muta, mandano in
revisione gli erogatori e rispolverano sci e scarponi. Ma ci sono quelli che
invece continuano ad immergersi come se niente fosse. Noi facciamo parte della
seconda schiera. Sigillati nelle nostre mute stagne scendiamo nelle fredde acque
del Garda, che le rigide temperature di 8/9 gradi rendono limpide e con una
visibilità nemmeno immaginabile.
Poiché questo non ci basta, siamo andati alla ricerca di qualcosa di più
estremo. Vedendo nelle riviste questa sorta di “esploratori” tuffarsi in acque
coperte di ghiaccio, abbiamo deciso di provarci anche noi. Le locations in Alto
Adige non mancano. Innumerevoli sono i laghi nelle vallate che durante l’inverno
ghiacciano, avevamo l’imbarazzo della scelta.
Abbiamo cominciato così, per curiosità e per divertimento. Poi è nata l’idea di
proporlo a tutti quei subacquei che ne avessero avuto voglia.
Perciò ogni inverno, da ormai nove edizioni, noi subacquei meranesi organizziamo
una grande manifestazione per dare modo a tutti di vivere questa meravigliosa
esperienza.
La nostra è una vera passione, infatti continuiamo a farlo anche per noi stessi,
perché in fondo siamo i primi a voler segnare questa immersione nel nostro
logbook ogni anno.
Per la nona edizione abbiamo scelto l’ultimo weekend di marzo, quando le
giornate sono un po’ più lunghe e le temperature diurne un po’ meno rigide.
Nella valle di Anterselva a 1642 m s.l.d.m.,
dove si stende l’omonimo lago l’inverno è ancora lungo, tanto da formare una
lastra ghiacciata dello spessore di oltre un metro.
Lo specchio alpino si formò a causa di una frana, che sbarrò la strada ai
ruscelli che scendono dalle alte montagne, e sul suo fondo si possono trovare
gli enormi tronchi di quegli alberi che una volta crescevano sul fondovalle.
Dopo mesi di attesa e di intensa organizzazione ci siamo, è ora di partire. Le
bombole sono cariche e l’attrezzatura per la logistica pronta. Sembra strano che
invece di avere bisogno di una barca, la cosa più importante sia avere una
motosega con una lama da 100 cm e un potente motore, di quelle che si usano per
abbattere alberi centenari.
Il nostro gruppo sale già il venerdì sera, in modo da essere pronti la mattina
presto. Ormai ad Anterselva siamo un po’ di casa. Arriviamo che è quasi buio
anche se la neve riflette gli ultimi raggi solari, regalandoci sempre un grande
spettacolo. Il lago è piccolo, se confrontato con quelli abitualmente
frequentati, incastonato tra alte vette dominate dai quasi 3.500 m del monte
Collalto, ma con i suoi 43 ettari di superficie non sfigura affatto. La reazione
di chi viene la prima volta è di stupore, in quanto non si riesce ad immaginare
come sia possibile che, sotto quella piatta superficie innevata, ci sia celato
uno specchio d’acqua.
L’albergo che ci ospita ha una posizione
ideale, direttamente sulle sponde del lago.
Scarichiamo tutto il materiale nel piano interrato, che fungerà da magazzino e
da zona coperta per la vestizione. L’inverno appena trascorso è stato anomalo.
Il grande freddo è mancato, ma ci sono state grandi precipitazioni che hanno
portato sulle montagne nevicate che non si ricordavano da anni.
Poi quasi per farci un dispetto, le prime due settimane di marzo sono state
molto miti, quasi troppo!
Trovare uno strato di ghiaccio non sufficiente avrebbe potuto generare non poche
difficoltà. Dopo cena, il termometro esterno segnava un bel +3, inusuale in
questo periodo, ma le previsioni davano le temperature in calo con nevicate per
domenica.
Incontriamo i nostri primi ospiti che ci hanno già raggiunto. Molti rimangono
rapiti dalla bellezza del posto, dove, se escludiamo l’albergo, non esiste altra
costruzione. Un vero angolo di pace.
Mentre facciamo conoscenza c’è sempre qualcuno un po’ perplesso. Da sempre mi
sento dire da molti subacquei “io morirò di freddo!” “Non so se ce la farò, i
venti minuti previsti sono tantissimi!”
In effetti era la stessa cosa che pensavo io per la mia prima volta sotto quel
ghiaccio.
E invece, sará per l’emozione, per la concentrazione o forse perché sotto la
stagna ci mettiamo mezzo armadio, il freddo non rovina mai l’immersione!
Rassicurati gli animi andiamo a dormire. Domani sarà una lunga giornata.
La sveglia suona presto, sotto il piumone si
sta benissimo, ma uno sguardo fuori ci fa intravedere che il sole è già alto e
lo spettacolo toglie il fiato, tutto bianchissimo. Come i bambini che si vestono
velocemente per andare a giocare con la neve, noi lo facciamo per andare a
preparare il nostro sito d’immersione!
Una rapida colazione ed usciamo. L’aria è fredda, secca e pura, la senti ad ogni
inspirazione nei polmoni. Il nostro staff è già presente sul ghiaccio, le
attrezzature per la preparazione pronte. Ci raggiungono i nostri ospiti curiosi
ed entusiasti. Decidiamo dove praticare i fori e la direzione della linea
d’immersione.
Foto di Davide De Lorenzi
Ormai dopo tanti anni ognuno sa cosa deve fare.
Subito accendiamo la grande motosega per un primo taglio, in modo da avere un
dato fondamentale, il suo spessore. I 40 cm sono il minimo necessario. In realtá
già uno spessore di 18cm può reggere il peso di un’auto, ma nella zona del foro
il ghiaccio diventa fragile, un po’ come il vetro, quindi si richiede maggiore
spessore per avere la sicurezza che durerà per tutta la giornata senza brutte
sorprese. Se invece è troppo spesso, la lama da un metro potrebbe non bastare e
il peso dei blocchi diventerebbe troppo impegnativo. Qualche strappo per
l’accensione della motosega e capiamo che anche lei avrebbe voluto rimanere
sotto il piumone! Spesso l’altitudine “scombussola” la carburazione. Dopo una
serie di regolazioni e dopo molti tentativi finalmente parte borbottando.
Scaldato il motore si dà fondo al gas, il suo ruggito rimbomba in tutta la
vallata. La catena attacca il ghiaccio, é un attrezzo potentissimo ed
estremamente pesante, da tenere bene diritta e perpendicolare per avere un
taglio efficiente. Ovviamente non è un gioco e va usata con estrema attenzione.
Saremo certi di aver forato la lastra in tutto il suo spessore solamente quanto
l’acqua uscirà dal taglio. Troviamo cinquanta centimetri, di cui trenta di neve
compattata e il resto di trasparentissimo ghiaccio, direi più che perfetto.
La motosega taglia veloce, i blocchi non sono pesanti e abbiamo un ottimo
margine di sicurezza. Dobbiamo preparare due linee d’immersione parallele
costituite da un foro di entrata circa 3 m per 3 m, uno di eventuale uscita a
una distanza di 20 m e un terzo di sicurezza più piccolo in mezzo. Il tutto va
delimitato per questioni di sicurezza con paletti e nastro segnaletico. Una
volta che il primo foro è tutto tagliato a scacchiera dobbiamo estrarre i
“cubetti”.
Operazione non semplice, soprattutto per il primo. In questo caso decidiamo di
affondarlo, cosí gli altri hanno gioco per muoversi e ne facilitano
l’operazione. In base al peso dei blocchi e alla temperatura esterna, optiamo se
arpionarli con i rampini o fissarli con una corda dotata di una vite da
ghiaccio. La corda è molto più efficace, ma se fa troppo ”caldo”, cioè se la
temperatura è sopra lo zero e il sole scalda, il ghiaccio tende a spaccarsi e la
vite spesso non tiene. Due nostri istruttori sono già pronti a entrare in acqua
per tirare le sagole guida che indicheranno la direzione verso le aperture. Dato
che qui l’accesso immediato verso la superficie non è possibile.
Tutto questo lavoro occupa 6/7 persone per tutta la mattinata. È stata una
grande faticata, ma siamo soddisfatti. Tutti osservano con un pò di diffidenza
quei buchi neri che si stagliano sulla candida superficie gelata. In effetti
ogni volta che li guardo, penso a una sorta di “portali” che conducono verso un
mondo ignoto, circondati da una corona formata dai blocchi estratti che con il
sole brillano come fossero diamanti.
I primi sub sono già pronti, quelli che hanno
deciso di conseguire il brevetto Ice Diver. Faranno tre immersioni nel weekend,
apprendendo tutto quello che serve sapere per praticare il tutto in maniera
sicura e divertente. Si segue un rapporto di 2:1, due allievi e una guida. La
guida sarà assicurato con una sagola che è tenuta in superficie da un
assistente. In caso di un qualsiasi problema basta uno strattone per essere
tirati fuori come pesci all’amo. I due allievi, a loro volta, saranno assicurati
con delle sagole all’istruttore.
I nostri “eroi” già attrezzati si siedono sul bordo e intingono le gambe nella
fresca acqua di montagna. S’intravedono sempre espressioni diverse. Chi
entusiasta, chi concentrato, chi ride e quelli un po’ preoccupati, magari
pensando: “ma dove mi sto cacciando..?”
Il tempo come da previsioni, sta peggiorando.
I nostri assistenti ci aiutano con le ultime cose, bagnamo il viso per
acclimatare la pelle… Sempre una bella sveglia! Il viso che rimane in qualche
punto scoperto non è mai contento e pizzicando un po’ sembra dirci “non ti
vorrai mica infilare li dentro? É gelata!”
Il computer ci trasmette un dato di +3 gradi, difficile abituarsi…
Dopo aver gonfiato il gav a bocca ci si cala
lentamente in acqua. Le mute stagne sono una grande invenzione e svolgono il
loro compito egregiamente. Il mio sottomuta pesante più qualche altro strato
preso in “prestito” dall’abbigliamento sciistico, mi coibenta a dovere. I nostri
assistenti badano a collegare le sagole. Mi sembra sempre di stare a bagno in
una tinozza, con i bordi cosí vicini e i piedi dei miei compagni all’altezza del
mio sguardo, che girano tutt’intorno. Come raccomandato nessuno respira dagli
erogatori e le bombole sono ancora chiuse. Quest’accorgimento è fondamentale per
far si che i primi stadi non si ghiaccino. Le rigide temperature dell’aria,
comunemente sotto zero, ci impiegherebbero un attimo a congelare quell’umidità
presente nell’aria della nostra bombola mandando in autoerogazione il tutto,
costringendoci a uscire e sostituire il gruppo, una bella scocciatura!
Invece, anche se sembra paradossale, l’acqua, che come temperatura è sempre
sopra lo zero, tramite ponte termico “riscalda” i nostri erogatori quel poco da
non permettere la formazione di ghiaccio nei piccoli passaggi dei loro
meccanismi. Questo ci fa capire il perché è obbligatorio l’uso del doppio primo
stadio.
Però in acqua questo inconveniente non è sempre scongiurato, infatti, se per un
qualsiasi motivo costringiamo le nostre fonti d’aria ad un superlavoro come in
caso di affanno, la perdita rapida di pressione, che causa raffreddamento,
potrebbe portare a congelamento. Quindi la ridondanza è d’obbligo.
Torniamo alla nostra immersione. Gli assistenti
di superficie hanno aperto i rubinetti delle bombole e le attrezzature sono
funzionanti. Dopo un breve check, ci diamo il segnale di discesa e scarichiamo i
nostri sacchi quel tanto che basta per avere l’acqua all’altezza degli occhi. La
discesa è innescata. Piano piano scendiamo in quell’acqua color inchiostro.
Anche se è giorno, il ghiaccio e soprattutto quest’anno, lo spesso strato di
neve compattata, scherma gran parte dei raggi solari creando un effetto quasi
notturno. Lo spessore del foro scorre davanti allo sguardo. I cinquanta
centimetri di questa edizione non sono un record, ma vederli lì davanti alla
maschera sono un muro imponente.
Poi finalmente eccolo, lo spettacolo che stavamo cercando. La luce sotto
aumenta, la visibilità è di circa di 15 metri e, contrariamente alle solite
immersioni dove il nostro sguardo scruta verso il fondo, qui si guarda in alto.
Quel muro appena attraversato visto da sotto si trasforma in una lastra di vetro
senza fine. Il mondo sembra capovolto, con il pavimento sopra le nostre teste.
Ci spostiamo sotto e le nostre mani sigillate dentro i guanti stagni scorrono su
quella superficie liscia e scivolosa. Il primo strato di ghiaccio è trasparente
come il vetro e sopra lo strato di neve compattata si staglia nettamente dal
resto. Guardo in tutte le direzioni ed è tutto perfettamente uguale. La sagola
guida risulta preziosa. Le bolle di scarico del secondo stadio, salendo si
scontrano con il ghiaccio, e dopo un attimo di quiete incominciano a correre
veloci in più direzioni, seguendo le impercettibili variazioni d’inclinazione,
per cercare sfogo verso la superficie. Sembrano grandi gocce di mercurio.
Aggiusto il mio assetto, gonfiando un po’ la muta. Solitamente tendo a
zavorrarmi più del solito per due motivi, il primo perché, usando oltre al
sottomuta pesante un ulteriore abbigliamento protettivo, sono più positivo, il
secondo perché mi dà modo di tenere più gas nella stagna. Parliamo di gas perché
tendiamo ad usare Argon, che di solito viene impiegato nella subacquea tecnica e
risulta piú indicato per il gonfiaggio della stagna perchè essendo più denso
della normale aria fornisce un maggior isolamento, offrendo un buon confort.
Guardo i miei compagni che giocano e osservano colpiti, dopo poco richiamo la
loro attenzione sulla sagola indicando la direzione di marcia, stare troppo
fermi fa perdere calore in fretta. Raggiungiamo, a metà percorso, il foro di
sicurezza che permette di uscire in caso di problemi. Chiedo un ulteriore “ok”
ai miei compagni che rispondono positivamente. Uno dei due non resiste
dall’infilare la testa dentro il foro per dare un’occhiata fuori. Proseguiamo e
in lontananza scorgiamo qualcosa, é un tronco d’albero dal grosso diametro, non
abbattuto, che sale dal fondo in verticale. Servono forse due uomini per
abbracciarlo completamente. È una di quelle piante che centinaia di anni fa
cresceva sul fondovalle prima della formazione del lago, chissà da quanto tempo
giace lì sotto. Lo usiamo come riferimento per raggiungere il fondo a 20 metri.
Il fondale è formato perlopiù da fango e non offre molti spunti. Usiamo le torce
per una piccola esplorazione. Abbiamo una “run” di dieci minuti. Decido di
staccare dal fondo e risalire usando nuovamente il tronco come riferimento e i
miei compagni mi seguono.
Riguadagnata la “superficie” ripercorriamo la
sagola di ritorno sino a scorgere l’uscita. Questa permette alla luce di entrare
senza ostacoli, creando un fascio nel buio come quello di un grande riflettore,
molto suggestivo. Osserviamo anche le forme che prende il ghiaccio in alcuni
punti. L’acqua scorrendo modella il ghiaccio donandogli forme strane; Si formano
cunicoli dove si può infilare un braccio, spuntoni come lame di coltello
talmente trasparenti che quasi si confondono con l’acqua, che appaiono
minacciosi anche se al primo tocco si spezzano tanto sono fini e fragili. Sembra
un piccolo mondo di cristallo. Prima di terminare resta solo il “sottosopra”.
Cercando di non annodare le sagole, rendendosi un po’ positivi ci si deve prima
mettere a testa in giù, a gattoni e poi in ginocchio e sollevarsi in piedi. Vi
assicuro non è un’impresa facile! Ritrovarsi a camminare a testa in giù come sul
soffitto di una stanza con le bolle di scarico che scorrono tra i piedi, è una
sensazione leggermente anomala, ma veramente divertente. Vedo i miei compagni
contenti dell’esperienza, ma le dita dei miei piedi cominciano a lamentarsi,
questo è il segnale per uscire! Guardando verso l’alto si scorgono i nostri
assistenti in piedi vicino al bordo, sembrano attendere il nostro ritorno da
un’altra dimensione. Ci incanaliamo nel nostro “Stargate” verso la superficie.
Appena fuori vedo occhi felici dietro le maschere, come i miei. Altra sorpresa,
nevica copiosamente e le nuvole si sono abbassate, praticamente siamo riemersi
in una bufera di neve. Chi lo avrebbe detto dopo il caldo delle settimane
precedenti. Liberati dalle cime ed issati prontamente fuori dall’acqua ascolto i
commenti “a caldo”. L’entusiasmo è unanime… L’esperienza appena vissuta non è
confrontabile con nessun’altra…
Infine scatta la domanda di rito: “avete avuto freddo?” e prontamente la
classica risposta: “No! Non particolarmente, solo un pochino alla mani alla
fine. Sarà stata l’emozione e che sotto la stagna ho indossato l’impossibile!”
Tutto questo dà ulteriore gratificazione alla mia immersione, al piacere che
provo tutte le volte “sotto il ghiaccio” e al lavoro di tutto il team.
Una grande soddisfazione professionale.
Anche per quest’anno è andata. E ora speriamo che la prossima sia al mare!
Perchè alla fine sono sempre tutte delle “cool dive”…
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