Non avevo mai visto una cosa simile.
Per un attimo eterno guardai ancora, abbacinato. Fui invaso da un senso di reverenza mai provato.
Poi mi ricordai di tirar su la testa, per riprendere a respirare.
Massimo mormorò:
“Magnifico, vero? Solo stando qua sotto si può capire che cos’è una luce simile!”
Aveva ragione. E mi resi conto che bisognava pagare un biglietto, per ricevere questa visione. Non era cosa alla portata di tutti. Bisognava guadagnarselo, questo privilegio. E noi l’avevamo fatto, con l’impresa appena conclusa.
Il grosso dell’umanità era tagliato fuori da questa grotta.
Mi sentii di colpo orgoglioso per la mia conquista, come uno scalatore giunto faticosamente in cima alla vetta.
Anche questa era un’ascesa mistica. Alla rovescia, nelle profondità del mare e della terra insieme. E come tutte le ascese era purificatrice.
Ci voltammo a togliere pinne e maschere deponendole sulla rena. C’era addirittura una piccolissima spiaggia! Restammo con le giacche delle mute in neoprene. La temperatura era fresca e la pelle delle nostre cosce era già accapponata. Ma si poteva ancora sopportare: la muta intrisa d’acqua tiepida fungeva, almeno per ora, da confortevole cappotto per il nostro torace.
Cominciammo a esplorare scalzi la gigantesca caverna e riaccendemmo le torce.
La spiaggetta sabbiosa terminava un po’ più su e ridiventava suolo roccioso. La grotta era dotata di molte camere secondarie sopraelevate, tutte ricchissime di concrezioni. Esplorammo un paio di esse e incontrammo il medesimo spettacolo. Ambienti ellittici, bassi, pavimentati di sabbia umida, fredda. Tutti pullulavano di gusci di conchiglie, ma tutto sommato al loro interno si poteva camminare con poca difficoltà.
Tutte le camere erano ricche di stalattiti e stalagmiti.
Come giganteschi stomaci, comunicavano con le viscere della terra attraverso budelli sempre più stretti. Seguimmo un paio di essi dapprima chinandoci, poi strisciando in ginocchio ma quelli si restringevano sempre più… e non consentivano il passaggio.
La roccia che li foderava era liscia, sempre più liscia e umida, e stillava lentamente. La sfiorai con le dita, affascinato. Certo dovevano esserci delle polle d’acqua, da qualche parte.
La seconda camera era simile alla prima, ma stavolta i budelli d’uscita erano due; uno si dirigeva verso l’alto e uno verso il basso. Lisci e piacevoli da accarezzare.
Mi chiesi da dove provenisse l’aria che stavamo respirando. Doveva pur esserci qualche entrata!
Non vedemmo segni di volatili, né insetti di alcun tipo. Solo conchiglie, a miriadi, e carapaci di granchi.
Gli ambienti ipogei erano assolutamente bui; uscendo da essi il Grande Blu tornava a ogni volta a splendere nello specchio d’acqua antistante.
Erano trascorsi più di quaranta minuti e cominciavamo ad avvertire il freddo. Era tempo di andare! Mi ripromisi che sarei tornato là almeno un’altra volta nella vita, dotato di un qualche apparecchio di ripresa, per poter condividere quella meraviglia della natura con qualcuno che amavo.
Mentre scendevamo verso l’approdo principale di rena vidi a terra un oggetto color verde pisello. Lo illuminai e mi chinai a raccoglierlo.
“Kodak”. Era la scatola di un rullino di pellicola!
“Che vergogna – dissi ad alta voce – hanno già lasciato il segno, gli uomini”.
“La gente è senza rispetto” commentò Massimo.
Pensai che se la grotta fosse stata resa alla facile portata di tutti, magari con un ingresso a pagamento scavato apposta nella roccia (come ho poi visto a Frasassi)… altro che un rollino, avrei trovato. Carte unte e lattine di birra!
Era meglio che un posto così restasse preservato e protetto dal mare.
Calpestammo a piedi nudi per l’ultima volta la sabbia quasi incontaminata e scendemmo in acqua per ricalzare maschere e pinne. Spegnemmo le torce, non ce n’era più bisogno: di fronte a noi si stagliava il Grande Blu.
Nuotammo piano verso la camera preliminare.
Le nostre teste restarono lì a riposarsi per qualche minuto. Non c’era fretta di uscire! Sentimmo la superficie del mare salire e scendere ritmicamente, e noi con essa.
Notai molti particolari che prima mi erano sfuggiti. Le screziature sulla roccia, gli animaletti aggrappati, le incrostazioni di patelle e conchiglie. Le striature e la morfologia della pietra avrebbero potuto rivelarmi – se solo fossi stato un geologo! – tante informazioni sulla genesi di quella camera. Il mare andava lentamente su e giù, rendendo roridi gli aggregati di spugne, coralli e tutte le incrostazioni laterali.
Osservai incantato questo piccolo mondo che veniva asperso dal tocco vitale del mare. L’escursione ritmica dell’acqua era di quasi di mezzo metro.
“Se la calma dell’esterno viene amplificata in questo modo – riflettei – chissà col mare agitato quale inferno diventerà qui sotto!”
La mia mente si ritrasse spaventata dal pensiero.
Effettuammo l’iperventilazione.
“Sei pronto?” chiese infine Massimo.
“Pronto. Andiamo!”
Guardai un’ultima volta la Grotta dello Zaffiro per salutarla. Poi m’immersi.
Il fondale era profondo, ma stavolta lo vedevo. Le mie pupille erano abbastanza dilatate. Cambiai assetto e mi disposi in orizzontale.
Guardai avanti, mi spinsi nel vuoto e volai nel Grande Blu.
Non c’era nulla, se non il blu.
Nulla sopra, nulla sotto, nulla attorno. Solo il Grande Blu mi circondava.
A differenza dell’andata ero libero da ogni preoccupazione e continuai a pinneggiare nell’infinito. Mi sentii pervadere da una sensazione mistica mai provata.
Ero coscienza disincarnata. Se non fosse per il fatto che stavo muovendo le gambe, avrei giurato di star fermo.
No, non era così. Avvertivo il costante fluire dell’acqua attorno al mio corpo teso in avanti. Davanti a me la luce blu si faceva pian piano sempre più forte, diventava azzurra. Intuii che dovevo ancora proseguire.
Ecco che l’azzurro si schiariva e si tramutava in celeste luminoso.
Sempre più luminoso. Quasi bianco. Sulla mia testa apparve la roccia illuminata dell’arco e io transitai lentamente sotto la sua maestosità.
Ancora avanti, ancora avanti… e vidi sopra di me la superficie increspata e cangiante. Risalii, e infine emersi nella luce abbacinante del primo pomeriggio.
Di fronte a noi era ormeggiata la barca.
La raggiunsi velocemente e mi aggrappai alla sua fiancata, distogliendo gli occhi dal cielo. La sua luce insostenibile mi feriva.
Udii la voce ansante di Massimo.
“Peppe, questa grotta ha un’altra uscita, molto più profonda, a quasi venti metri di profondità. Se guardi giù riesci a vederla. Quel percorso però si può fare solo con le bombole”.
Guardai in basso. La sensibilità della mia vista, stando al buio, si era acuita. Seguii la sagola bianca dell’ancorotto tesa quasi verticalmente… e in effetti, guardando con attenzione, intravvidi il fondale. A una trentina di metri c’erano delle pietre, sul fondo. Ma era tutto davvero distante; quelli dovevano essere massi! Non vidi però nessun orifizio. Pazienza, non sapevo bene dove guardare.
Ruotai su me stesso restando a mezz’acqua e rividi l’arco naturale dell’ingresso. In effetti non era un arco. Riattraversandolo contro la luce proveniente dall’esterno avevo visto che era un gigantesco foro di forma più o meno ellittica.
Tirai fuori la testa e finalmente respirai.
La distesa di roccia, inframmezzata da cespugli e arbusti mediterranei, piombava a picco nell’acqua tranquilla.
Se non avessi visto coi miei occhi, non avrei creduto.
Lì sotto c’era una via che portava alle latebre della terra e del mare.
Ed esisteva, ben celato, un mistico tesoro blu.
(Fine)