Articolo di Cesare Balzi – foto Mauro Pazzi
L’affondamento della nave da trasporto Probitas lungo le coste albanesi non consentì a molti soldati di ritornare in Patria dal fronte greco-albanese dopo gli avvenimenti dell’8 settembre ’43. Quest’anno ad ottobre il 70° anniversario della commemorazione di una delle pagini più tristi del Secondo conflitto mondiale.
From Marco Daturi to Alessandro Boracina. Oggetto: Relitto nave Probitas Albania. «Sono Vincenzo Rago. Mio nonno era il Ten. Vincenzo Rago del 129° Reggimento Fanteria della divisione Perugia. Doveva imbarcarsi sulla Probitas la notte del 24 settembre 1943. Purtroppo la nave non partì per una avaria e fu affondata nel pomeriggio del 25 settembre dai tedeschi. A causa del mancato imbarco mio nonno e gli altri Ufficiali furono catturati dai tedeschi e fucilati. Ho raccontato tutta la storia sul sito www.kuc.altervista.org. Vorrei ricevere, se possibile, maggiori informazioni circa l’ubicazione del relitto ed altre foto. Ve ne sarei molto grato. Vincenzo Rago». Eravamo rientrati in Italia da pochi giorni, quando Alessandro mi girò il testo di una mail spedita al sito www.scubaportal.it, che aveva pubblicato quotidianamente l’esito delle nostre esplorazioni in Albania. Iniziai subito a documentarmi rendendomi conto che, con l’identificazione della Probitas, Alessandro, Igli, Mauro, Michele ed io, avremmo da li a poco contribuito a tenere vivo il ricordo di una delle pagini più tristi del secondo conflitto mondiale legata agli avvenimenti del settembre ‘43.
Giunse l’8 settembre. Alle 19 e 15 di quel mercoledì, coloro che in Albania ascoltavano la radio udirono dalla voce del Generale Badoglio il proclama dell’armistizio che fu ricevuto e si diffuse ovunque in modo fulmineo.
In un primo momento suscitò emozione, sorpresa ed un’esplosione di gioia all’idea del ritorno in Patria. Per gente da tanto tempo lontana da casa non c’era altro posto, nella mente e nel cuore, se non per la nostalgia dell’Italia e dei propri cari. Ma la guerra era veramente finita? Il proclama ordinava la cessazione delle ostilità contro gli Anglo-Americani e l’assunzione di un atteggiamento di pronta reazione ad offese provenienti da qualsiasi parte. E così per i nostri soldati, fin da quella mattina, i tedeschi, da alleati, si trasformarono in nemici. La situazione in tutto il territorio albanese andò precipitando: l’improvviso annuncio dell’armistizio mise le nostre truppe dislocate nei Balcani e nell’Egeo in una situazione disperata, in quanto, fin dall’alba del 9, incominciarono ad incontrare l’azione repressiva tedesca. Le tre settimane successive furono caratterizzate da un intenso traffico, nell’Adriatico meridionale e nello Ionio, di torpediniere, motosiluranti e unità mercantili per assistere e recuperare militari e civili in ritirata dalla Dalmazia, dall’Albania, dalla Grecia e dalle isole antistanti. A Corfù il 19 arrivarono da Brindisi la Ms 33 con rifornimento di medicinali, ed inoltre la motonave Probitas, le torpediniere Clio e Sirio che furono trasferite a Santi Quaranta per imbarcare millesettecentocinquanta soldati e partire di nuovo, il giorno seguente, alla volta di Brindisi. Nel pomeriggio del 21, due aerei italiani apparvero nel cielo di Delvino e si abbassarono sulla colonna di soldati della Divisione “Perugia”, lanciando un messaggio diretto al Generale Chiminello, nel quale era annunciato il prossimo arrivo di navi nel porto di Santi Quaranta. La speranza dell’imbarco rianimò la lunga marcia di migliaia di soldati al fine di raggiungere il mare. All’alba del 24 settembre un secondo convoglio costituito, oltre che dalla Probitas, dal piroscafo Dubac e dalla motonave Salvore, scortate dalla corvetta Sibilla e dalla torpediniera Stocco, partì da Brindisi diretto nuovamente a Santi Quaranta per evacuare il restante personale. In seguito ad attacchi dal cielo da parte di Stukas tedeschi a ponente di Corfù, la Tp Stocco, ricevuto l’ordine di lasciare il convoglio e dirigere verso l’isola greca per contrastare uno sbarco tedesco. La Probitas, a causa di un malfunzionamento all’apparato motore, entrò all’interno della baia di Santi Quaranta con leggero ritardo.
Da quel momento si disegnò il destino della nave e di molti uomini che con essa sarebbero dovuti rimpatriare, mentre dalla vicina Grecia giunse ai soldati la drammatica notizia che a Cefalonia i tedeschi avevano incominciato a fucilare gli ufficiali della Divisione Acqui.
Nella notte tra il 24 e il 25 settembre, la motonave Salvore ed il piroscafo Dubac caricarono circa 2.700 militari. Il Ten. Col. Cirino, partito per l’Italia con il convoglio del 19 settembre e rientrato con onore in Albania per assistere l’evacuazione dei rimanenti, dettò alle truppe italiane i seguenti ordini: «Imbarcare quanti più uomini possibili per evitare la cattura da parte delle truppe tedesche». Data la precedenza ai feriti ed agli ammalati, l’imbarco avvenne nell’oscuramento totale, mentre i soldati scrutavano preoccupati sullo sfondo gli aerei tedeschi che bombardavano già la vicina isola di Corfù. Il convoglio disgraziatamente ripartì senza la motonave Probitas che non riuscì a prendere il largo e, a causa dell’avaria ai motori, fu costretta a rimanere ormeggiata, riducendo così il numero dei possibili imbarcati ed allontanando la speranza di molti che con essa sarebbero dovuti rimpatriare. All’alba del 25 settembre la Probitas si spostò dal porto al centro della rada e gli uomini che rimasero a terra, vedendola allontanarsi, furono assaliti da sensazioni di sfiducia e sgomento. Pochi minuti dopo un aereo ricognitore tedesco proveniente da Corfù fu avvistato minaccioso sopra di essa. Secondo la testimonianza del Ten. Tarcisio Scanagatta, cappellano militare, uno dei pochi ufficiali sopravvissuti e testimone oculare dei fatti, la Probitas subì quattro incursioni da parte di aerei tedeschi Junkers 87. Una prima ondata di dodici aerei, dopo aver sorvolato la città e il porto, iniziò a bombardare la nave senza trovare alcuna opposizione. Questo primo attacco non riuscì ad affondarla né a danneggiarla seriamente. Un secondo raid iniziò verso le dieci da parte di un’altra formazione. Allora l’equipaggio, ancora presente a bordo nel vano tentativo di riparare il guasto, abbandonò la nave raggiungendo la costa e sfuggendo all’attacco aereo nemico che però fallì nuovamente. Una terza formazione aerea, verso mezzogiorno, sorvolò l’indifeso bersaglio più volte e poi si lanciò all’attacco. Solo verso la cinque del pomeriggio si ebbe il quarto ed ultimo inesorabile assalto. La nave colpita gravemente si inclinò su di un fianco e, lentamente, si inabissò.
La mattina del 7 ottobre 1943, trentadue Ufficiali del 129° Reggimento di Fanteria della Divisione “Perugia” furono barbaramente fucilati dai tedeschi in un piccolo paese dell’Albania chiamato Kuç.
La Divisione «Perugia», infatti, il giorno successivo l’affondamento della Probitas ricevette l’ordine di trasferirsi a Porto Palermo, ma lungo il cammino quattromila soldati cedettero all’imposizione di abbandonare le armi da parte dei partigiani albanesi. Nella vana attesa dell’arrivo di navi che li avrebbero riportato in Patria, i soldati italiani vennero disgraziatamente raggiunti dai tedeschi sulle colline dove avevano cercato rifugio. Il 4 ottobre, gli uomini del primo battaglione del 99° Reggimento della «Gebirgsjäger» – una Divisione di cacciatori di montagna – già autori di non pochi crimini di guerra, si resero responsabili della fucilazione del Generale Chiminello e del Capo di Stato Maggiore, Maggiore Bernardelli e il giorno successivo della crudele esecuzione di altri sessanta ufficiali, nella baia Limione, una piccola insenatura a nord di Saranda. Il 7 ottobre, in località Kuç, nell’entroterra albanese, l’eccidio proseguì con gli ultimi 32 ufficiali della Divisione Perugia, tra i quali vi era il Tenente Vincenzo Rago.
Catturati più volte dagli affascinanti scenari fotografici lungo la via, raggiungemmo il lungomare di Saranda solo in tarda mattinata e, nelle vicinanze del porticciolo, incappammo in un gruppo di pescatori raccolti in un momento di pausa.
Rivolsi a loro alcune domande, cercando di catturare alcune informazioni sull’identità di quel relitto affondato da settant’anni a poche centinaia di metri dalla riva. Le notizie che ci seppero fornire erano generiche e da noi già conosciute: la nave era di nazionalità italiana ed affondata nel corso della seconda guerra. Nonostante la disponibilità al colloquio, non si resero però disponibili a darci un passaggio, essendo sprovvisti della licenza per lo svolgimento di attività turistiche. Dovevamo risolvere il problema di come raggiungere agevolmente in superficie il relitto, visibile al centro dell’insenatura e indicato da un segnalamento marittimo, che oggi assicura la sicurezza per la navigazione. Trovammo un ragazzo albanese che si offrì di accompagnarci con una piccola imbarcazione non sufficiente a trasportare però il resto dell’attrezzatura che avevamo al seguito. «Tre di noi ed il ragazzo potrebbero utilizzare la barca – propose Alessandro – due invece potrebbero utilizzare gli scooter subacquei». Dopo un attimo di sorpresa valutammo che l’idea era, in effetti, realizzabile e che lo stato del mare garantivano le condizioni di sicurezza. Terminata la fase di configurazione e controllo delle attrezzature, ci apprestammo a svolgere l’immersione tra la curiosità dei bagnanti.
Ancora sulla battigia, prendemmo con la bussola i riferimenti del segnalamento marittimo che oggi indica il relitto ed a tre metri sotto la superficie iniziammo a percorrere lo spazio che ci divideva dal Probitas.
La sorpresa all’arrivo fu tra le più grandi. Al subacqueo, il relitto si presenta, infatti, adagiato sul fianco di sinistra, lo scafo è rivolto verso terra, mentre i ponti di coperta sono rivolti verso il mare aperto. Una nave di oltre cinquemila tonnellate che si alza da una profondità di ventitre metri sino a tre metri dalla superficie! Pensai: «Un relitto lungo centoventi metri in ventitre metri di acqua! Se non fosse ancora per le difficoltà logistiche che presentano le immersioni in quest’area, ci sarebbe da fare la fila per vedere un relitto così». Oggi il relitto è integro ed in un buono stato di conservazione. Tutte le sezioni sono interessanti. La prora è intatta con gli argani nella posizione originaria così come le bitte, intorno alle quali sono avvolte ancora delle cime. Sotto l’estrema prora, si incontrano le due grandi ancore con entrambe le marre curiosamente rivolte verso l’alto. Solo dopo aver esaminato le fotografie di Mauro ed il video di Michele, constatammo che entrambe le ancore non dovevano trovarsi sul fondo nell’istante in cui la «Probitas» venne affondata, poiché non vi erano all’esterno della nave sufficiente catena indispensabile per tenerla stabile alla fonda. Quindi deducemmo che la nave o si doveva trovare alla deriva o era in procinto di essere rimessa in moto. Lo scenario più suggestivo di tutta l’immersione lo si ammira sulla poppa dove si incontrano due grandi eliche a tre pale, di cui una semisommersa nella sabbia ed un’altra è invece proiettata verso la superficie dato che il relitto si trova adagiata su un fianco. Sono divise da un’altrettanto grande pala del timone. Il lato dove si trova lo scafo e la chiglia della nave, se si esclude l’immagine impressionante che offre, soprattutto nei primi metri d’acqua, per via delle dimensioni, non merita molta attenzione. Il contrario invece si deve dire del lato dove si trova il ponte di coperta lungo ben oltre centoventi metri. Oltre all’interesse che suscitano le parti delle sovrastrutture, infatti, è possibile addentrarsi all’interno di sei stive, accedendovi da ampie ed agevoli aperture. Trascorsero due ore intorno a quella grande nave adagiata sul fondo, a soli quattrocento metri dalla spiaggia ed al termine, eravamo ancora intenti a stipare le attrezzature in auto, quando Mauro ci svelò l’identità: «Probitas! E’ arrivato un messaggio – esclamò leggendo l’sms pervenuto da un amico – dice che è il Probitas». Avevo così aggiunto un altro tassello ai quattordici relitti esplorati in Albania sino a quel momento, ma di questo dovevo ancora conoscerne a fondo la vicenda, legata all’ultimo triste capitolo della guerra d’Albania, uno dei più amari della nostra storia.
Bibliografia.
Ufficio Storico Marina Militare, La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto Roma, USMM, 1971.
Benanti, Franco, La guerra più lunga Albania 1943-1948, Mursia edizioni, 1966
Scheda tecnica
Motonave da carico «Probitas»
Costruita: 1918
Completata: marzo 1919
Cantiere: Ansaldo Muggiano La Spezia
Lunghezza: 119,2 metri
Larghezza: 15,7 metri
Stazza: 5.084 tls.
Potenza motore: 2.200 HP
Velocità: 10 nodi
Fu realizzata a La Spezia nel 1918 per la Soc. Naz. di Nav. presso il Cantiere Navale Ansaldo del Muggiano con numero di costruzione 162. Venne completata nel marzo 1919 ed inizialmente fu denominata «Ansaldo San Giorgio I». Con una stazza di 5.493 tls, era lunga circa centoventi metri e larga sedici. I motori diesel, con una potenza pari a 2.200 hp, sviluppavano una velocità di dieci nodi. Adibita al trasporto di merci ed emigranti diretti negli Stati Uniti, approdò due volte nella baia di New York presso Ellis Island. Nel 1924 venne sostituito il nome con quello di «Ansaldo San Giorgio Primo» e nel 1928, insieme all’«Ansaldo San Giorgio Secondo», fu venduta alla Nova Genuensis, Soc. An. per l’Ind. ed il Comm. Mar.mo di Genova ed ancora la prima venne ribattezzata «Probitas», la seconda «Potestas». Nel 1933 passò alla Soc. An. Ind. & Arm.to (gruppo Pietro Ravano) di Genova e qui, il 23 settembre 1941, venne requisita dalla Marina Militare. Utilizzata per schierare le nostre truppe verso i teatri di guerra, fece parte in principio dei convogli diretti in Nord Africa, sfuggendo a due minacciose incursioni nemiche, la prima all’alba del 18 dicembre ’41 da parte di aerosiluranti che le lanciarono due siluri e bombe. Le schegge di quest’ultime provocarono a bordo la morte di un membro dell’equipaggio e tre feriti. Venti giorni dopo, il 6 gennaio ’42, scortata dalla torpediniera «Orsa», fu attaccata da un sommergibile inglese sulla rotta Tripoli-Trapani. Dopo l’8 settembre 1943, data dell’annuncio dell’armistizio con gli Alleati e della fine dell’alleanza militare con la Germania, la nave venne impiegata nelle operazioni di rimpatrio delle truppe italiane, ammassate in un porto nel sud dell’Albania.
Saranda, tra storia e turismo
Già presidio degli Italiani nel corso della Prima Guerra Mondiale, la città prese il nome dall’antico monastero sulla collina dei «Quaranta Santi». Denominata dal ’39 al ’44 Porto Edda in onore di Edda Ciano Mussolini, figlia del Duce, Saranda è oggi la città turistica più nota della costa meridionale dell’Albania, vicino al confine con la Grecia. Situata di fronte all’isola greca di Corfù dalla quale dista solo due miglia, si affaccia su una piccola baia aperta, circondata da verdi colline. Da Tirana, la capitale del paese, si raggiunge Saranda percorrendo una strada interna, recentemente rinnovata e potenziata, che attraversa le antiche città di Argirocastro e Tepelene, capisaldi dell’Esercito Italiano nel corso della Seconda Guerra e teatro di cruenti scontri con le forze partigiane albanesi in particolare lungo il fiume Voiussa. Un secondo itinerario più panoramico è quello che percorremmo la scorsa estate partendo da Orikum, a sud di Valona, e che segue oggi una suggestiva strada costiera. Dopo essere saliti, infatti, a circa mille metri di quota ed aver superato il passo del Llogarà, si scendono tortuosi tornanti, anch’essi da poco riassestati, che conducono alle bianche spiagge intorno alla località di Dhermi, e proseguendo ancora sino a Himara e Porto Palermo. Notammo con sorpresa come, ad estate già inoltrata le spiagge, bagnate da un invitante mare di colore turchino, fossero ancora poco frequentate, ancora libere dal consistente flusso turistico che si registra ogni anno nel mese di agosto. Le vedute che si godono sia dalle alture che dalla scogliera permettono di apprezzare un paesaggio mediterraneo ancora incontaminato. Proprio quest’area però è legata al ricordo dell’amara sorte dei soldati italiani della Divisione «Perugia» che, nel corso della Seconda Guerra, cercando di superare questa regione allora ostile, aspiravano raggiungere il mare e trovare lì un imbarco che li riportasse in Patria.