Autore: Valentina Morelli
Lanzarote è un’isola dell’arcipelago delle Canarie. Deve il suo nome a un navigatore genovese, Lanzerotto Malocello, che nel XIV secolo ci piantò la sua bella bandiera rossoblù e decise che l’isola era sua (sto romanzando, ma neppure troppo).
Lanzarote politicamente è Spagna, geograficamente Africa: piazzata nell’Oceano Atlantico a uno sputo dal Sahara, rossa e nera che quando atterri ti chiedi se per sbaglio non sei salito su
un’astronave e stai dunque sbarcando su Marte, ti strappa il cuore appena metti piede a terra e se lo tiene. Per sempre. La prima volta che ci sono andata non avevo ancora scoperto la magia della
subacquea e mi sono goduta la superficie: le magnifiche spiagge (Papagayo da infarto, Famara parco giochi dei surfisti e di chi si rifiuta di crescere e trova irresistibili i cavalloni, Orzola bianca e nera che pare finta), la Isla Graciosa (ci si gira solo a piedi o in bici: niente automobili, un incanto), il
parco nazionale del Timanfaya (volete un’idea dell’inferno?), i vigneti nani della Geria, le opere di Manrique (genio), il cibo squisito, il clima perfetto.
Una volta a Genova (dove vivo), non è trascorso troppo tempo che ho sentito il bisogno di tornare laggiù. E d’altronde il mio cuore era rimasto lì, che scelta avevo?
Nel frattempo la subacquea era diventata una malattia.
“Che fai quest’estate?”
“Vado a Lanzarote.”
“Quindi niente immersioni.”
“Veramente pensavo di sì.”
“Alle Canarie? Ma no, l’acqua è gelida, scura, sai l’Oceano, e non c’è neanche
la barriera corallina. Lascia perdere, non ne vale la pena. Puoi provare il
surf.”
Il mio più grande difetto è la cocciutaggine. Se decido che devo fare una cosa la faccio, e se anche Poseidone mi dice che è una pessima idea io me ne infischio: che ci devo sbattere il naso, io, nelle
cose. Sbagliare da sola, piuttosto che indovinare guidata da altri. Così, ignorando i ghigni scettici degli amici, ho riempito la valigia con l’attrezzatura, tanto che di spazio per vestiti e costumini ne è rimasto ben poco. “Oh, be’,” mi sono detta. “C’è sempre la spiaggia nudista.”
Prima di partire ho contattato il Manta Diving. Sono stati gentili e professionali e io già sorridevo (alla faccia degli scettici).
Finalmente ci sono. Il gommone balla il cha cha cha (sai, l’Oceano) e per tutto il tragitto maledico la mia zucca cocciuta e mi ripeto che, se avessi dato retta agli amici, ora sarei spaparanzata sulla spiaggia d’oro del Papagayo a farmi leccare i piedi dal mare.
Si ormeggia, mi preparo veloce come Flash per evitare di vomitarmi addosso, mi butto giù.
Hanno tolto l’acqua.
L’hanno tolta, e io sto volando a un metro da terra su un pianeta alieno bianco e nero. Sculture laviche, archi barocchi, spirali plastiche, mostri rococò.
Decine di anguille giardiniera sbucano interrogative da buchi nel fondale (sentinelle?), mentre le sogliole, con i loro buffi occhietti a torretta, studiano ogni mia mossa; i pesci lucertola, con quelle bocche affollate di denti, sembrano addormentati ma io, per sicurezza, svolazzo più in là.
Di fianco a me, un nastro d’argento: barracuda, a centinaia, grandi, medi, piccoli, splendidi!
Sopra di me, sciami di fula negra e fula blanca, banchi fittissimi di sardine, pesci pappagallo e un gruppetto di saraghi zebrati che procede ondeggiando: un colpo a destra, uno a sinistra. Sbronzi?
Uno squalo angelo si scuote la sabbia bianca di dosso e se ne va, infastidito forse dai canti stonati dei saraghi ubriachi.
In sosta tra archi di lava nera osservo un trio di orrendi spider-crab che si pigliano a pattoni e una seppia vanesia viene a pavoneggiarsi davanti ai miei occhi nel suo vestitino zebrato molto chic. Incontro pejepeine e gallinita, mi innamoro di un cavalluccio grande come una moneta e, mannaggia, è ora di risalire.
“Non abbiamo incontrato Felix.”
“Felix?”
“Il re della zona. Una cernia, è più grande di te. Abita qui, ma oggi, a quanto
pare, non aveva voglia di farsi vedere. Peccato.”
“Peccato sì. Vuol dire che mi toccherà tornare.”
Sorrido, e mentre il rollio del gommone mi culla e il sole mi asciuga la pelle, benedico la mia testa di vitello.
Che a volte non fidarsi è meglio.
Articolo pubblicato su
ScubaZone n.14
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