Autore: Paola Ottaviano –
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Il viaggio alla volta di Isla del Coco, isola oceanica
della Costa Rica, é preceduto da ansiosi patemi d’animo e trepidanti
speranze. Racconti apocalittici di intere giornate nel Pacifico (che di pacifico
ha solo il nome) in balìa di onde furiose e mare imbestialito, contribuiscono a
incrementare quel sottile senso di angoscia che si accompagna spesso
all’incertezza della partenza. Ansia da prestazione, nel senso che ci si chiede
terrorizzati: ce la farò a sopravvivere? Al tempo stesso l’idea di centinaia di
squali martello (visione che nutre l’immaginario collettivo dei subacquei di
tutto il mondo al solo pronunciare il nome di quest’isola) rende audace anche il
più timoroso dei viaggiatori. E’ la motivazione che sfida le paure, sconfigge la
pavida ragione e riaccende quel sano senso di incoscienza senza il quale saremmo
sempre chiusi dentro quattro mura a domandarci perché viviamo.
Ergo, si parte! Il volo per San Josè, capitale dello
stato centroamericano della Costa Rica, dura undici ore. All’arrivo il clima non
promette niente di buono. Siamo in aprile, al passaggio stagionale tra la secca
estate che sta finendo e il piovoso inverno incipiente. Il vento e le nuvole ci
accolgono all’aeroporto e contribuiscono alla confusione mentale indotta dal jet
lag delle otto ore indietro di fuso orario. L’incaricato dell’Okeanos Aggressor,
la barca su cui stazioneremo nei prossimi giorni, esordisce con una notizia di
ambivalente interpretazione. “El aqua en la Isla es muy caliente por El Niño” .
Ma poi precisa che, durante la settimana di immersioni che ci ha preceduto,
nessuno si é lamentato per gli avvistamenti, comunque soddisfacenti. Tradotto:
se l’acqua é troppo calda, gli squali si tengono a grandi profondità, ma in ogni
caso qualcosa si vedrà.
Il tragitto di due ore in direzione Punta Arenas é allietato dalla visita
ai giardini delle mariposas, dove un colorato e dispettoso tucano in cattività
subisce infastidito i flash di tutte le fotocamere in azione. Viceversa,
l’arrivo a Punta Arenas é funestato dalla carcassa di una grande tartaruga
marina, trasportata inerme sulla battigia della spiaggia della città portuale.
Cattivo presagio per la ciurma, che esorcizza i demoni della superstizione con i
dovuti scongiuri!
Finalmente si prende possesso delle cabine, accolti dalla tripulación in
alta uniforme. Dopo le presentazioni di rito, la barca molla gli ormeggi e si
accinge ad affrontare l’avventura della traversata oceanica, che durerà ben
trentaquattro ore. L’onda lunga culla la maggior parte dei presenti e tormenta
coloro che soffrono il mare.
L’Oceano Pacifico. Una distesa infinita, senza soluzione di continuità.
Dall’alto dei sundeck si scruta l’orizzonte, in attesa di sorprendenti
apparizioni. I delfini in gruppo fanno a gara di velocità con la carena di prua
e incantano i naviganti distesi in coperta a naso in giù. Le tartarughe agitano
scompostamente le zampe per cavalcare i flutti. In lontananza soffioni di
cetacei non ben identificati rompono la superficie dell’acqua. Balene o orche?
Chi può dirlo.
Il sole si tuffa nella scintillante distesa d’acqua per ben due volte e all’alba
del terzo giorno irradia l’isola dei dinosauri.
Isla del Coco, Jurassic Park, appare agli occhi dei
viaggiatori in tutta la sua asprezza. Scure nubi disegnano minacciose ombre
cariche di pioggia sulle cime di alte rocce montuose a picco sul mare. Sono
ricoperte da fitta vegetazione lussureggiante con le piante abbarbicate alle
pendici e solcate da ruggenti cascate che precipitano in acqua. Violenti e
improvvisi acquazzoni torrenziali rendono l’oceano marrone in pochi minuti. Così
come, in pochi minuti, riappare il sole a scaldare e a ristabilire le
proporzioni originarie.
Le regole del parco non consentono di superare i trentacinque
metri di profondità in immersione, ragion per cui appare inevitabile l’uso del
Nitrox. Chi non é in possesso del brevetto é indotto a seguire il corso sulla
barca. Il limite di profondità é dettato da ragioni di sicurezza. La camera
iperbarica più vicina a Isla del Coco si trova a Ciudad de Panamá, a tre giorni
di viaggio. Di conseguenza, i rischi di incidenti da decompressione vanno
azzerati. In aggiunta, un GPS di segnalazione viene fornito ad ogni subacqueo e
comporta il pagamento di una tassa salata in caso di smarrimento. E così
corazzati, con il pedagno, il GPS, la macchina fotografica, la torcia e i guanti
che pendono dal GAV, con i pesi maggiorati a compensare la leggerezza delle
bombole d’alluminio, ci si appresta ad entrare in acqua per il check dive come
dei veri e propri marines!
Ci si immerge a Bahia Chatham, la baia dove é
attraccato l’Aggressor. Passo da gigante, pesata e giù, gentilmente, a periziare
i fondali. La temperatura dell’acqua è davvero molto calda, ventotto gradi di
media. Nella scarsa lattiginosa visibilità dovuta alla sospensione, squali pinna
bianca di tutte le taglie nuotano irrequieti e veloci in gran quantità. Sarà la
caratteristica peculiare di tutte le immersioni. Un pesce rana, dal colore
sgargiante, filtra l’acqua a bocca aperta, immobile su una roccia del fondo
sabbioso. Sembra un fumetto, un bizzarro e buffo personaggio dei cartoon. Murene
di tutte le specie e l’ombra di una manta che si allontana, sfortunatamente
troppo distante per poterle tributare gli onori che le sono dovuti.
La seconda immersione della giornata é all’isola di
Manuelita. I subacquei si dividono in due gruppi, quello della Panga 1 e
quello della Panga 2. I gommoni partono a poca distanza l’uno dall’altro,
direzione Manuelita afuera. Incontri fortunati per alcuni, che
s’imbattono nello squalo tigre che da giorni pattuglia il sito, meno fortunati
per gli altri, che in compenso si godono razze marmoree e aquile di mare in
gruppo. La scarsa visibilità non facilita gli avvistamenti e crea non pochi
disagi ai fotografi, che soffrono profonde frustrazioni per la pessima qualità
degli scatti. La fotografia é luce. No luce, no foto.
La corrente si fa sentire alla terza immersione e, finalmente, regala la prima
fugace apparizione dell’oggetto del desiderio, l’agognato squalo martello. Anche
lui si tiene a debita distanza, ma é la prova che esiste! La vera “chicca” del
primo giorno é l’immersione notturna a Manuelita adentro. Il rodeo degli
squali pinna bianca, in frenesia alimentare, si manifesta nella sua inquietante
crudezza. Fiumi di carcarinidi si affollano, si azzuffano, puntano minacciosi
frontalmente e deviano il loro corso solo ad un palmo dall’erogatore, quando il
malcapitato subacqueo abbassa la luce della torcia. Uno spettacolo
impressionante, al quale si assiste lottando con la risacca che sbatte
violentemente sulle rocce. All’uscita, nel buio della notte, il cielo risplende
di stelle brillanti e tremule, e l’acqua scintilla di plancton.
Il mattino seguente l’imbarcazione si sposta a Bahia Wafer, dove tutti si
precipitano sul tetto per comunicare con il mondo civile. Il ripetitore piazzato
sull’isola permette le comunicazioni telefoniche con i cellulari. Dopo aver
rassicurato amici e parenti, ci si prepara per un altra dura giornata di lavoro.
Punta Maria. La pioggia torrenziale induce ad
immergersi al più presto, e così giù, attaccati alla corda dell’ancora fino a
trentaquattro metri, in attesa sulla balconata rocciosa. Punta Maria é la
cleaning station degli squali martello smerlati (Sphyrna Lewini). L’ottanta per
cento dei clienti di questo salone di bellezza sono le femmine, che vengono a
farsi togliere i parassiti delle ferite procurategli dai maschi nell’atto
sessuale. I pesci pulitori sono mariposas y angel, pesci farfalla e pesci
angelo. Quando c’é corrente, giunge il termoclino che trasporta gli squali con
la bocca aperta. Le tre condizioni perché il fenomeno dei banchi di centinaia di
squali martello si verifichi sono, dunque, la luna piena, il termoclino e la
corrente. Il periodo migliore sembra essere da giugno a settembre, quando le
tempeste tropicali si abbattono sul Parco e il mare si gonfia. Ma in questa
particolare settimana di aprile la temperatura dell’acqua é alta, la luna é
nuova e il taglio di acqua fredda pressoché assente. Ci si deve accontentare di
qualche esemplare soltero, cui la condizione di single nulla toglie in dignità.
E sembra aver percepito il basso tono dell’umore e la delusione dei sub uno
squalo martello con il suo piccolo, che si sofferma per venti minuti a Piedra
Sucia (la sommità emersa di un faraglione imbiancata di guano di uccelli
marini), a farsi ammirare e a riscattare la categoria. Non si risparmia neanche
un altro degno esemplare, il Carcarino delle Galápagos, che sfida la
scarsa luminosità del fondale e si mostra in tutta la sua potenza. Un fiume di
carangidi s’improvvisa in danze eccitate e contagiose. Ci si infila in mezzo e
da questa posizione privilegiata l’incontro ravvicinato con una grossa tartaruga
regala finalmente scatti fotografici degni di questo nome. Isla Pajara é
un digradante volo planato sullo slope sabbioso, colonizzato da centinaia
di garden eels e sogliole pavonine.
A bordo é il momento di ricevere visite. Un emissario dei
rangers del Parco sale per riscuotere la tassa d’ingresso e fornire
l’autorizzazione necessaria per scendere sull’isola. Purtroppo i sentieri sono
fangosi a causa delle piogge intense. Ci si dovrà accontentare di una breve
sortita alla stazione dei guardaparco. Sacchi ricolmi di palamiti recuperati in
mare sono la triste testimonianza della diffusa pratica illegale di pesca di
frodo. I volontari della Base Wafer fanno del loro meglio con i pochi
mezzi a disposizione.
Cervi e fringuelli si spartiscono i frutti della terra tra l’erba, moschini in
gran quantità annusano la pelle bruciata dal sole, senza produrre alcun prurito,
e imponenti piante endemiche svettano verso il cielo. La foresta fitta e
rigogliosa racchiude in sé un cuore selvaggio e incontaminato che il sole
incendia al tramonto, riversando riflessi di fuoco sulla superficie immota del
mare.
A Dos Amigos é il momento dello svago. La forte corrente fa i dispetti e
i subacquei la bypassano entrando e uscendo dall’arco sommerso attorniati da
nugoli di dentici e grugnitori. Un polpo fuori tana allunga i tentacoli
cangianti come ad applaudire l’impresa.
Durante la sosta di sicurezza a Vikingo, un’aquila di mare adagiata sulla
roccia si nutre avidamente. Come perdere l’occasione di immortalarla in un bel
primo piano? Si ridiscende quindi di pochi metri. Il raiforme sembra apprezzare
ed esibisce vanesio tutta la sua bellezza. Un peccato veniale che si paga a caro
prezzo: nell’eccitazione del momento, la pinna di un sub scivola in acqua e
affonda per sempre negli abissi marini di Coco.
Bajo Alcyone, il cui nome é ispirato alla nave di J. J. Cousteau, é uno
dei siti migliori dove nuotano indisturbati squali martello sul fondo,
tartarughe e wahoo.
La barca si sposta per le ultime immersioni a Bahia Yglesias.
E’ il giorno della resa dei conti.
Il gruppo della Panga 2 é in vantaggio su quello della Panga 1 per gli
avvistamenti della manta e lo squalo tigre. L’altro ha al suo attivo il pesce
rana, immortalato diverse volte con bellissime macro.
I dive, Piedra Sumergida. Dopo aver attraversato una grotta passante
invasa da decine di azzannatori e aver scovato una famiglia di aragoste
rintanata sotto un crepaccio, non rimane molto altro da rimarcare.
II dive, Piedra Solitaria. Una coppia di buddy del dinghy 1 si fionda nel
blu al limite dei trentacinque metri. O la và o la spacca. Nella penombra
obnubilata dalla sospensione, quando la barriera non si distingue più e il resto
del gruppo è sparito dalla visuale, appare uno squalo martello di tre metri che
naviga verso l’alto. Ma non é solo! Segue il secondo, il terzo, fino al quinto.
Un branco in formazione si materializza davanti allo sguardo sbigottito dei due
audaci pionieri del mare.
E’ il riscatto. Tornati all’Aggressor, i componenti del dinghy 2 si affacciano
dalla balaustra curiosi e incassano un goal che ristabilisce la parità della
partita. La competizione é giunta all’epilogo, c’é chi rosica e chi risica.
L’ultimo tuffo in acqua affronta la spettacolare grotta de La esquina de las
mantas, un passaggio nel canale del mar de fundo, dalla forte
risacca. All’uscita ci si attacca letteralmente alla roccia de la estación de
limpieza, in attesa. Niente mante, ma una lotta all’ultimo sangue viene
ingaggiata contro la corrente feroce per tenersi stretto l’erogatore con i denti
e aggrapparsi con tutti gli arti alla parete ricoperta di ricci, che infilzano
impietosi la carne dei temerari subacquei.
Degna conclusione per un luogo così selvaggio, in balìa delle forze della
natura.
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