Autore testo: Valentina Morelli
Autore foto: Suus Berger
Ruggine
Il sole è appena tramontato su Sharks Bay.
Il posto è perfetto. Perfetto per noi, almeno, per me e per l’Omonero: nessuna
piscina inutile, nessun animatore molesto, nessun turista caciarone; una camera
accogliente, una finestra sul mare, una terrazza, un ristorante, un diving.
“A che ora dobbiamo essere al diving domani?”
“Alle otto.”
La sveglia alle sette è traumatica, abbiamo ancora addosso la stanchezza del
viaggio e lo stress inquinante del lavoro, ma pane tostato e marmellata di fichi
troppo dolce ci riconciliano col mattino.
Qualcuno porta la nostra attrezzatura in barca e io, che non sono abituata a
essere servita, nel percorso tra il diving e la barca mi sento un po’ in
imbarazzo.
“Benvenuti! Sono Yasser, la vostra guida. Con calma, montate l’attrezzatura. Tra
mezz’ora saremo a Tiran, che è un’isola deserta tra il mar Rosso e il golfo di
Aqaba. Finché non vi chiamo, andate a rilassarvi, prendetevela comoda: siete in
vacanza. Easy easy!”
Non ce lo facciamo ripetere. Inzicchiamo la bombola e andiamo a sederci a prua,
gli occhi pieni del mare più blu che abbiamo visto mai. E restiamo lì, le gambe
penzoloni, a scrutare l’orizzonte e sorseggiare tè alla menta.
“BRIEFING!”
Quasi mi strozzo con la torta.
“Vieni, andiamo, ” mi dice l’Omonero.
Ingoio la torta in un boccone, mi pulisco le mani sulla maglietta, lo seguo a
poppa.
Seduta per terra sul tappeto azzurro, ascolto. Attenta come il primo giorno di
scuola, non mi perdo una parola, annuisco, sorrido. L’impazienza pizzica: ci
siamo.
Isola di Tiran. Gordon Reef.
Yasser mi studia. “Muta da sette millimetri? Quattro chili in più.”
“Quattro chili? Non sono troppi?”
Anche l’Omonero protesta.
“Ne vuoi due?”
“Due, sì. Dovrebbero bastare.”
Yasser non commenta, mi passa due chili da infilare nelle tasche.
“Tutti pronti? Jump!”
Jump!
Com’è salato!
“Provate a scendere,” dice Yasser.
Faccio ok all’Omonero e lui a me. Scarico il gav. E resto a galla, ma così a
galla che potrei tornare in barca camminando. E l’Omonero pure.
“Quanti chili vuoi?”
“Due,” dico arrossendo un po’.
“E tu?”
“Due anch’io.”
“Così quanti chili avete in più del solito?”
“Quattro.”
“E io che avevo detto?”
Eh. Che aveva detto?
Finalmente, giù. Lo spettacolo dovrebbe togliermi il fiato: l’acqua è così
trasparente che pare non ci sia, i coralli hanno settemila colori, i pesci, a
centinaia, si affollano curiosi davanti alla maschera. Ma io non sono a mio
agio: a secco da sei mesi (maledetto inverno, che quest’anno hai fatto sul
serio) e per niente abituata a tutto quel peso in tasca e alla corrente che ti
porta via, mi muovo troppo, respiro male, non trovo l’assetto e osservo le
meraviglie che mi passano sotto il naso come se le vedessi in tv, come non
fossero davvero lì.
Tornare in barca è quasi un sollievo. Sospiro.
“Fatica eh?” dice l’Omonero.
“Sì un po’.”
“È la ruggine. Andrà meglio, vedrai.”
Via la bombola vuota, sotto la bombola piena. Un altro tè, un’altra fetta di
torta, un respiro profondo. Mi sdraio di sopra, all’ombra, e leggo un po’:
Dirk Gently, Agenzia di investigazione olistica,
di Douglas Adams. Mi fa ridere, mi rilasso. Easy easy.
“BRIEFING!”
Ma porcobelino!
Via, di sotto.
Seduta per terra sul tappeto azzurro, ascolto. Attenta come il primo giorno di
scuola, non mi perdo una parola. Ma quando Yasser dice: “Immersione in corrente,
nessun indugio, tutti in acqua alla svelta e subito giù,” non annuisco e non
sorrido; non mi vedo, ma so che sono verde.
Sono un diesel, io. Ho bisogno di calma, di tempo. Odio la fretta, mi incasina.
Easy easy un piffero secco!
Isola di Tiran. Thomas Reef.
La corrente è forte, Yasser fa segno di stare vicino al reef. L’Omonero ha la
mia stessa espressione smarrita, il mare tira e spinge, mantenere la quota è
un’impresa.
I nostri compagni d’immersione la sanno molto più lunga, lasciano che la
corrente li porti e se la godono, si vede, mentre noi…
Provo a stare orizzontale, ma vado a capa sotto, mi raddrizzo, mi preoccupo, mi
pare d’essere in un videogioco in cui l’obiettivo è evitare di finire dentro
alle gorgonie, che sembrano pareti di pizzo macramè, cercare di non sfondare i
coralli con una pinnata maldestra, stare attenti a non prendere a sberle il
corallo di fuoco. Tutto questo sotto gli occhi perplessi di… ohhh!
Due napoleone che… Ma non credevo… non sapevo… Sono grandi come elefanti! Che
creature bizzarre: i napoleone non hanno la forma di pesci grandi. Se li vedi in
fotografia, ti immagini che misurino al più trenta centimetri. Invece, sono
bestioni di due metri! Come se una strega avesse fatto un incantesimo di
ingrandimento a un pesciolino, così, per gioco.
Occhi negli occhi coi napoleone, mi dimentico di pensare alla corrente. Al
respiro. All’assetto.
E la ruggine inizia a scrostarsi, a sciogliersi nel sale, a scivolare via.
A guardarti bene…
La giornata di ieri è stata faticosa per noi
bestie urbane, e alle dieci già ronfavamo della grossa. Così stamattina alle sei
siamo già svegli. Ma svegli sul serio, non come quando mi alzo per andare in
ufficio ma sto ancora dormendo e resto rincitrullita fino al terzo caffè.
“Andiamo?”
“Ma è presto.”
“Fa niente. Ho fame.”
Sotto la tenda beduina non c’è ancora nessuno e la marmellata di fichi oggi è
più buona. Colazione perfetta nel silenzio, davanti a un mare di cristallo che
profuma d’anguria.
Un pesce chirurgo, a un metro dalla battigia, gira ossessivo intorno a una
roccia, a pelo d’acqua, e caccia via ogni pesce che osi avvicinarsi. Che
fetente!
Arriva Yasser. Con lui, come ieri, padre e figlio olandesi, marito e moglie
belgi; in più, una coppia giovanissima. Americani, tutti e due lunghi lunghi e
secchi secchi, lei è bella come una diva: capelli neri come sputo di seppia e
occhi che fanno invidia al cielo.
“Si torna a Tiran,” dice Yasser. “Tiran è un’isola deserta tra il mar Rosso e il
golfo di Aqaba.” Poi ride.
“Perché ridi, Yasser?”
Yasser racconta.
“Una volta un russo è salito sulla barca carico di banane.
-
Perché tutte quelle
banane? Crampi? -
Per le scimmie, fa
il russo. -
Le scimmie?
-
Le scimmie di Tiran.
-
Non ci sono scimmie
a Tiran. -
Sì che ci sono.
-
Ma chi te l’ha
detto? -
Quel tipo gentile
sulla spiaggia. Quello che mi ha venduto le banane. -
Quello non era un
tipo gentile. Quello era un motherf*****!
E tra risate e tè alla menta, la
Freedom
raggiunge il punto di immersione. Gli americani sono perfino più inesperti di
noi, e Yasser li piazza in prima linea; subito dietro noi, poi padre e figlio
d’Olanda e, a chiudere la carovana, marito e moglie del Belgio.
Isola di Tiran. Jackson Reef.
Neanche il tempo di entrare in acqua e già
qualcosa non va. L’americano masculo sprofonda verso gli abissi senza rendersene
conto, l’americana femmina, in verticale, pedala che sembra una mantide
impazzita, sbuffa bolle e si tiene l’erogatore con una mano. Yasser scende a
ripescare lui, risale ad acchiappare lei, io e l’Omonero non sappiamo che quota
tenere, gli olandesi ci superano, i belgi pure, li seguiamo e la corrente ci
trascina in pochi istanti lontano dalla guida e dagli americani. Stringo forte
l’erogatore tra i denti, la sensazione che possa venirmi portato via è più
psicologica che reale, ma io mozzico.
Siamo giù da appena undici minuti che Yasser, tenendo l’americana per un
braccio, ci fa segno di tornare indietro. Lo raggiungiamo nuotando
controcorrente, un crampo a un polpaccio mi fa tornare in mente le banane del
russo e mi viene quasi da ridere. Quasi, eh.
Mentre mi arrampico sulla scaletta penso: “Poverini, gli americani. Si
sentiranno in colpa per aver fatto rientrare tutto il gruppo.”
Seh. Lei si sta già strafogando di torta e quando Yasser le fa notare che non si
va sottocoperta gocciolanti, lei lo guarda con sufficienza, poi fa spallucce e
rientra, gocciolante, a prendersi un’altra fetta. Mmh. Stamattina mi sembrava
più carina.
“Scusate,” dice Yasser al resto del gruppo. “Ma la corrente era troppo forte.
Lasciamo Tiran, per oggi e ci rilassiamo con una local dive; appena decidiamo
dove andare vi chiamo.”
Relax sottocoperta, due chiacchiere con i belgi
sdraiati sui cuscini colorati. E sono lì lì per appoggiare le labbra sul
bicchiere col mio tè all’anice fumante che…
“BRIEFING!”
Santiddio, Yasser!
Local dive: Ras Nasrani
Olandesi e belgi passano il turno. Andiamo in
acqua noi, io e l’Omonero, con Yasser e gli americani.
“Anche qui c’è un po’ di corrente. Se vi faccio questo segno – e Yasser
sforbicia indice e medio – smettete di pinneggiare: serve solo a sprecare
energia. Godetevi l’immersione.”
Jump!
Mi lascio andare al mare. E comincio a prenderci gusto. Senza muovere un
muscolo, mi godo lo spettacolo di gorgonie e tettoie di coralli, di anemoni a
bulbi abitati da pesci pagliaccio; trattengo un respiro e salgo di quota, giusto
un po’, quanto basta per non finire spiaccicata contro un cervello gigante; le
castagnole verdi che ci orbitano intorno sembrano pensieri.
L’Omonero mi indica un pesce palla che fa vibrare le pinnette-alette
controcorrente e ci guarda curioso. Mi avvicino, e il pesce apre la bocca.
Oddio.
Ora. Io già non sono abituata ai pesci coi
denti. Sono cresciuta coi pesci rossi, mi sono nutrita di trote, orate, bestie
sdentate. E quando il pesce palla apre la bocca su quei quattro dentini assurdi,
come quelli di un marmocchio di pochi mesi, non ce la faccio: comincio a ridere
sott’acqua, a crepapelle. E l’Omonero pure.
Yasser, che fino a quel momento ha dovuto scortare gli americani, ci vede tra le
bolle delle risate, forse pensa che siamo in affanno e si preoccupa, ma gli
facciamo segno che va tutto bene e quando usciamo, aggrappati alla scaletta,
stiamo ancora ridendo.
Oggi è l’ultimo giorno a Sharm per gli
americani. Domani proseguono il loro viaggio per chissà dove. Lei mi si
avvicina: “Pensate di lasciare una mancia a questi?” chiede, facendo cenno, col
mento, all’equipaggio.
Questi. Così dice, con una faccia che trasuda disprezzo.
Ma lo sai che ora che ti guardo bene sei veramente mostruosa?
Di notte, tutti i gatti sono bigi. I pesci no.
“Bisogna aspettare il tramonto,” dice Gerard che, non so perché, ci guiderà per
la notturna. Yasser, invece, chiuderà il gruppo.
“Mi raccomando, non fate segnali nel buio, che non si vedono, e non puntatevi le
luci in faccia. I pesci scorpione di notte cacciano, potrebbero avvicinarsi alle
luci per vedere meglio le prede. Non preoccupatevi, è sufficiente che puntiate
il fascio da qualche parte, si allontaneranno.”
“Tipo su di te?”
“No, ecco, non su di me!”
Local dive: Ras Bob
Il sole se n’è andato, ma un debole chiarore
ancora illumina fondali, coralli, pesci e subacquei. Ma bastano pochi minuti e
il paesaggio si trasforma, la luce cambia, scompare, e il nero inghiotte tutto.
La pace e il silenzio sono irreali, e i colori, senza il filtro blu del giorno,
sono così vivi che sembrano finti. Tra i coralli compaiono i crinoidi che
ondeggiano nella corrente come piume nere in uno spettacolo di burlesque.
Un pesce scorpione scivola di fianco a una
lattuga; provo a puntare la luce sulle chiappe di Gerard per vedere se davvero
lo segue, ma il pesce non mi si fila per niente e se ne va per la sua strada.
Al suono delle bolle illumino, tra le rocce, un arazzo verdeazzurro. Ma che è?
Sposto il fascio più in là e un occhio grande come un piattino da caffè si apre,
stupito, assonnato e, giurerei, pure un po’ incacchiato.
“Ma che vuoi?” dice un napoleone, che aveva appena cominciato a russare.
“Scusa, amico mio, non l’ho fatto apposta!”
“Si vabbeh. Ti perdono, ma togliti di torno, ora: voglio dormire.”
Ce ne andiamo zitti zitti, in punta di pinne, che tanto ormai è ora di tornare.
Appena risaliti in barca, mentre ci liberiamo di gav e pinne, il suono di un
tappo di bottiglia che salta ci fa sollevare le sopracciglia. Che succede?
“Ho appena superato il mio esame di divemaster. Grazie a tutti voi!
Festeggiamo!”
E bravo Gerard! Ci hai usato come cavie, eh? Mannaggia, peccato che il pesce
scorpione non t’ha pizzicato le chiappe!
Con la muta ancora addosso, sorseggiamo champagne mentre il profumo di pollo e
verdure che sfrigolano sul barbecue riempie l’aria.
No, no. Io, a casa, non ci torno.
Una scimmia a Tiran
“Che buona, ‘sta marmellata!”
“Buona, sì, ma sbrigati: la barca parte tra dieci minuti.”
“Stamattina si va a Ras Mohamed: Shark e Yolanda Reef.”
Sembra più in forma che mai, il nostro Yasser.
“È tra le immersioni più belle di tutto il mar Rosso, per il paesaggio e
l’abbondanza di creature. Si parte sul plateau pieno di anemoni, si nuota fino a
Shark Reef, si continua verso Yolanda, dove si trova il relitto di un cargo che
trasportava sanitari.”
“Eh?”
“Sanitari, sì. Vasche da bagno, gabinetti. Se la corrente lo consente, passiamo
oltre; altrimenti, si torna indietro. Si risale sempre davanti ai reef: se
finite dietro, la barca non può venire a prendervi. Fate attenzione.”
Sono una fifona e normalmente il pensiero di finire in un posto dove nessuno
possa venire a raccattarmi mi farebbe venire i sorci verdi. Invece, sono in
pace.
Ras Mohamed: Shark e Yolanda Reef
Gli anemoni coi loro abitanti, le gorgonie, un
nastro d’argento di tonni che sembra non finire mai, una cernia lenta, pacifica
e grande come un pullman, nuvole di pesci vetro e anthias così insolenti che
devi cacciarli dalla maschera, pesci bandiera e farfalla e angelo, pesci
pappagallo e balestra e trombetta, un pesce scatola che mi strappa l’ennesima
risata, e siamo sulla sabbia tra Shark e Yolanda.
Yasser fa segno di proseguire.
Un corallo pulsa coi centomila polipetti e mi ipnotizza, scorgo qualche
nudibranco, un riccio dagli aculei lunghissimi, resisto alla tentazione di
accarezzare le tridacne azzurre, di far spaventare un pesce palla, di inseguire
un trigone a pois blu che, svolazzando, se ne va.
Ma c’è qualcosa lì. Lì, dietro quella gorgonia di pizzo. Mi avvicino e, da
dietro la gorgonia, come un sole da dietro le montagne, sorge lei.
Pizzico l’Omonero.
Lui mi fa l’inequivocabile gesto
checacchiovuoi?
“UHA HARHARUHA!” grido nell’erogatore. E punto il ditino. Dalla faccia capisco
che l’ha vista anche lui. Ci fermiamo, pinne penzoloni, ad ammirare la sua danza
elegante. Che poi come cacchio fa, con tutto l’impiccio del carapace, a muoversi
con quella grazia? Mozzica un corallo, mastica, sputa e sparisce nel blu.
Wow!
L’Omonero mi tira, gli altri sono avanti. Ed ecco che siamo alla fine di Yolanda.
Yasser fa segno che la corrente tira dalla parte giusta e che è un po’ forte. E
di non pinneggiare. Ma noi questo l’abbiamo imparato.
E così si vola, braccia spalancate come goffi uccelli, sui cessi e sulle vasche
da bagno, felici e sorridenti come bambini alle giostre.
Ed è così che succede. Quando finalmente hai capito come funziona la corrente,
quando è la terra a darti il capogiro e non il mare, quando la marmellata di
fichi è diventata la tua marmellata preferita, quando i membri dell’equipaggio
ti sembrano gli amici di sempre, quando tutto è finalmente perfetto, ecco: è ora
di tornare a casa.
“Ho un’idea,” dice l’Omonero. “Resto qui a vendere banane ai turisti fessi.”
“Bene. E io?”
“Tu vai a Tiran. A fare la scimmia.”
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