Autore: Paola Ottaviano – www.materialidiviaggio.com
Islas Revillagigedo, le Galápagos messicane.
Ci risiamo. E’ mai possibile che quasi tutte le isole sparse nell’Oceano Pacifico orientale siano puntualmente definite attraverso un’identità che non é loro propria?
Le isole Revillagigedo sono le isole Revillagigedo, le Revillagigedo messicane. Appartengono a se stesse e sono uniche, senza nulla togliere alle isole Galápagos e alla loro altrettanto straordinaria unicità, a meno che un giorno qualcuno le definisca le “Revillagigedo ecuadoriane”!
La prima difficoltà che si presenta al profano, é la pronuncia. Non é facile. Le due “g” della parola Revillagigedo vanno pronunciate con lieve aspirazione.
E poi, ma cosa sono, chi le ha mai sentite nominare?
E chi le ha mai viste? Non sono neanche segnate sull’atlante, il più delle volte. Un parto della fantasia, l’anelito di una fervida immaginazione, un’utopia fatta di nera lava vulcanica rappresa e pietra pomice bianco immacolata. Una “Roccia Spezzata” in mezzo all’oceano, in mezzo al nulla, senza approdo, in balia delle onde del mare, la punta di un vulcano emerso innevata di guano degli uccelli colonizzatori che ne allietano le cime tempestose con i loro cinguettii squillanti. L’isola del “Soccorso”, montagnosa, con l’unico insediamento umano dell’Arcipelago. L’isola di “San Benedetto”, che sia benedetta!, imponenti faraglioni dalle tonalità dell’avorio, che formano una cornice istoriata per un mare color dell’inchiostro.
L’isola che non c’é, titolava un cantautore nostrano una delle sue più famose canzoni. Sembra finta questa Revillagigedo, eppure, come nella migliore tradizione, la realtà supera la fantasia e travolge ogni più ottimistica aspettativa. Off the beaten track, fuori dai sentieri battuti, del tempo, dello spazio, della mente e del cuore.
Parte I
Il tempo
Il tempo si dilata. E’ la dimensione di ogni viaggio. Quando si parte, anche per pochi giorni, si ha la sensazione di essere via da casa da molto più tempo, come se ogni minuto lievitasse in frazioni di ore, di settimane, di mesi.
Nel caso di Socorro, l’idea di tempo dilatato corrisponde ai tempi di percorrenza. Ci vogliono quattro giorni e tre notti per raggiungere le Revillagigedo dall’Italia, un viaggio nel viaggio. Anzi, tanti piccoli viaggi, ciascuno dei quali con il suo bagaglio di esperienze, curiosità e fascino.
Nell’aeroporto di Ciudad de México regna sovrano il caos. Non si trovano i corrispondenti dell’agenzia viaggi nel marasma dei cartelli in bella mostra. Forse sono i viaggiatori ad essere confusi, frastornati dal fuso orario, e si sentono orfani, estranei nella terra di nessuno. Cominciano a pensare a come cavarsela. Possono sempre emulare le gesta del Tom Hanks della Krakozhia finito in un nonluogo e rendere The Terminal la propria casa permanente a fronte di tanta precarietà. Alla fine gli incaricati del tour operator li recuperano, fanno l’appello come a scuola e li trasferiscono nell’hotel a cinque stelle dell’aeroporto. Che lusso! Adesso, rassicurati e coccolati dai gentilissimi messicani della reception, si possono anche permettere di cincischiare, di indulgere in rilassanti chiacchiere e risate prima di sprofondare in un sonno rigeneratore tra i morbidi guanciali e le lenzuola immacolate del comodo letto a due piazze in dotazione a ciascuno.
Il giorno dopo si approda in un altra terra ancora, la Baja California Sur.
E’ sempre Messico, ma l’idioma prevalente ha l’accento gergale della lingua nordamericana. “Hi guy!” Ma guy a chi? E pensare che il solo rivolgersi ai messicani con poche parole di spagnolo crea, tutte le volte, un piccolo miracolo: gli occhi gli si illuminano, si girano di scatto, in preda ad uno stupore emozionato, che esprimono con un sorriso solare e avvolgente. ¿Hablas español? E’ il riconoscimento della loro identità, é un segno di rispetto, il rispetto che passa attraverso una comunicazione autentica. Colpisce soprattutto qui, in Gringolandia, area dei conquistatori americani. Los Cabos, l’ultimo lembo di terra messicano proteso verso l’Oceano Pacifico, é artificiosamente costruito a misura di Yankee. Ma non si creda che l’atteggiamento apparentemente compiacente dei locali sia una resa incondizionata allo straniero invasore. Basta fare un pò d’attenzione nei luoghi di ritrovo, basta notare ed imitare le più semplici norme di buona educazione della loro cultura. Come quando nei ristoranti si alzano a fine pasto e augurano¡Que aproveche! al vicino di tavolo, o come quando salutano sempre con un Buenos días all’arrivo e con un benaugurate ¡Y que te vaya bien! alla partenza.
Cabo San Lucas. Un susseguirsi di locali, discoteche, luci stroboscopiche per attirare un turismo sfrenato, che può finalmente mollare gli ormeggi dei divieti americani e sfogarsi nella terra confinante del permissivismo. Luminarie che promuovono “las mujeres mas bellas del mundo”, “cantinas” italiane che offrono “pizza al viagra”, discoteche dove le cameriere servono i clienti in mutande e reggicalze. Il tutto condito dalla consumata perizia dei lavoratori messicani che incitano gli avventori col suadente accento latinoamericano, così esotico, very exotic!
I semafori del lungo viale orlato di cactus giganti occhieggiano ai pedoni e simulano il passo per attraversare la strada con un omino fosforescente che corre, mentre i numeri illuminati scorrono a ritroso, ad evidenziare il conto alla rovescia dei secondi che mancano allo scattare del rosso. Al porto, in mezzo a lussuosi yacht che battono bandiera panamense o di qualche altro porto franco, le egrette fanno la punta per ghermire l’esca. Sono immobili, a scrutare la superficie dell’acqua. Improvvisamente affondano il becco e pescano con uno scatto pari al guizzo di una frazione di secondo, velocissime. Altrettanto veloce é il pellicano che si fionda come una furia a rubarle la preda. Il dorso nero di un leone marino fa capolino tra i flutti. Si diverte a sconfinare tra le imbarcazioni, in cerca di qualche rimasuglio di cibo.
E dopo il primo bagno benaugurante nel Pacifico, arriva il momento della partenza.
Ci si imbarca, eccitati e ansiosi, pronti ad affrontare ventiquattro ore di navigazione verso l’ignoto. Verso l’isola che non c’é.
Parte II
Lo spazio
La barca esce dal porto all’ora del tramonto, solenne.
Percorre le prime miglia lentamente. Mostra orgogliosa la visuale dell’Arco de Los Cabos inondato dagli ultimi raggi del sole che insinua i suoi riflessi dorati attraverso le ombre della roccia scolpita dal vento.
I membri della tripulación mettono subito i clienti della barca a proprio agio, preparando squisiti margarita che incrementano, in poco tempo, l’euforia generale. Solo l’onda lunga dell’Oceano tenta di porre un freno all’illimitata baldanza alcolica, che prosegue in grande allegria. E’ il bienvenidos a bordo che allieta la traversata e trasgredisce le ferree regole d'”ingaggio” che dovranno essere seguite alla lettera nei giorni a venire durante le attività subacquee. Il mare si placa nella notte e culla i sonni pieni di sogni e di speranze dei naviganti.
Alle quattro del giorno dopo la barca ormeggia in prossimità di faraglioni di roccia pomice color alabastro, preceduta dal più esuberante comitato d’accoglienza, un nutrito gruppo di delfini che saltano a prua. Isla San Benedicto, la prima tappa.
E’ il momento del check dive. Proibito andare in decompressione, pena il divieto di immergersi il giorno successivo.
Un districarsi di tunnel a Las Cuevas e già ci si perde, schiacciati nella grotta, ad osservare gli squali pinna bianca adagiati sul fondo a sonnecchiare. La visibilità é scarsa, la temperatura dell’acqua é fresca, la risacca impegna i subacquei nella verifica delle proprie capacità di adattamento. Va assecondata in maniera opportunistica, basta imitare i pesci che rimangono immobili quando la corrente é contraria e approfittano del flusso a favore per seguire l’onda e farsi trasportare senza sforzo. Troppo impegnati a controllare la propria attrezzatura e il proprio assetto, si é colti totalmente alla sprovvista alle prime luci dell’alba del mattino seguente a El Cañón.
Non si é minimamente preparati alla visione di cento squali martello in gruppo che nuotano sinuosi nella luce lattiginosa. Fermi dietro le rocce, é come stare al balcone e ammirare una parata marziale e composta, con gli “sfirnidi” che deviano il loro corso per osservare da vicino, con gli occhi piazzati ai lati della protuberanza della testa, quegli strani intrusi ammutoliti per lo sbigottimento. Chi se l’aspettava! Ed é solo la prima delle meraviglie imprevedibili di questo luogo, foriero di irresistibili lusinghe come il canto delle sirene.
Piccoli comprimari si palesano all’improvviso. La torpedine elettrizza l’aria delle bolle. Una razza grigia oceanica dalle ali appuntite fa una breve sortita. E’ sfuggevole, veloce. Preziosa nella sua rarità. Un flash e un desiderio insperato, appena sfiorato.
Ma la regina indiscussa delle Revillagigedo si fa attendere, come ogni vera signora che si rispetti. Si concede solo alla terza immersione ed é talmente eccitata che marca il territorio, espellendo dalla coda liquidi organici che lasciano una scia nebulosa. La manta gigante del Pacifico attanaglia gli astanti con il suo volo planato e li imprigiona a sé, ipnotizzandoli con il movimento lascivo delle sue grandi ali e tramutandoli in vittime compiacenti di un incantesimo. Non c’é bisogno di affannarsi ad inseguirla. E’ lei che si avvicina dolcemente e sfiora i corpi sospesi a mezz’acqua con le sue movenze morbide e provocanti. E resta lì, nell’eterno ritorno di una danza a giri concentrici, la cui bellezza smuove le più profonde corde del sentimento.
Il capitano avvisa la ciurma che l’area dell’arcipelago é interessata da una tormenta. Nell’attesa che i fenomeni atmosferici definiscano la loro traiettoria, si parte in direzione di Socorro. Il mare é mosso e anche coloro che si vantano di non risentirne soffrono di chinetosi. Ci si difende come si può. Chi applica il cerotto dietro l’orecchio, chi si ritira in cabina, chi si stende sui lettini prendisole sul ponte di poppa a scrutare il mare, col viso sferzato dal vento. Il modo migliore di neutralizzare il “mareo”.
La sagoma del vulcano appare in tutta la sua imponenza al sorgere del sole e domina l’oceano. L’isola di Socorro é l’avamposto della Marina Militare, distaccata dal governo messicano a salvaguardia di questo sconosciuto paradiso terracqueo.
A Cabo Pierce si va a tentoni.
La scarsissima visibilità ovatta tutto a tal punto che, quando ci si trova di fronte una coppia di delfini tursiopi del Pacifico, si trasale perché non li si é visti arrivare. La silhouette di una manta si staglia in controluce e incrocia la sagoma di uno squalo martello. Se non fosse per la certezza assoluta di morire annegati, i subacquei starebbero tutti a bocca aperta per lo stupore. Una pastinaca dalla livrea nera si adagia sulla cresta della parete rocciosa a strapiombo e la sua ombra si proietta attraverso i fari della fotocamera che l’immortala.
Al tramonto, il sole digrada a picco sul mare e disegna una striscia scarlatta sulla linea dell’orizzonte.
La barca oceanica sfida le condizioni degli alti marosi e intraprende la traversata di nove ore verso Roca Partida. Le onde sbattono sulla chiglia e chi occupa le cabine di prua rimane steso immobile ad assecondare l’effetto centrifuga del mare in tormenta. E’ l’unico modo per tenere sotto controllo la situazione e mettere a tacere lo stomaco sottosopra.
L’alba sorprende gli assonnati ed intrepidi esploratori degli oceani con una palla di fuoco che illumina il proscenio. La sconfinata marea senza soluzione di continuità si fregia di un solitario elemento d’arredo. Architettura della natura, Roca Partida, la roccia spezzata in due, si erge drammatica e selvaggia dalla superficie. Si staglia verso il cielo, bianca come la neve. Il guano di sule e gabbiani la ricopre completamente. Una roccia in mezzo al mare, in the middle of the nowhere, in mezzo al nulla. Soltera, altera, isolata, grandiosa.
Si perizia la base inabissata. E lì lo spazio si fa mondo, mondo sommerso, esplosione di vita, incontaminata, primordiale, affollata. Muri di carangidi, tonni, bonito e liutianidi, e in mezzo squali, tanti, di tutte le specie, che percorrono liberi e spavaldi la traiettoria circolare. Circumnavigano il vulcano sottomarino, in lungo e in largo. Squali galápagos si arrampicano sulla vetta del pinnacolo, squali punta plateada nuotano indisturbati e dall’alto sembrano aerei con le luci di posizione accese. Squali martello si fanno beffe degli attoniti subacquei che li cercano in profondità. Appaiono invece in alto, a dieci metri o anche meno dalla superficie. E’ l’unico posto al mondo dove si potrebbero vedere in snorkeling. Le diverse specie si mischiano, vanno in gruppo, tutte insieme, senza pregiudizi di razza, in un plateale esempio di integrazione multietnica. Senza competizione né prevaricazione, col rispetto dovuto ai grandi predatori in cima alla catena alimentare, si fiancheggiano in uno scambio di mutuo soccorso. E nel bel mezzo di questa variegata comunità, una famiglia di squali martello insegna l’arte del nuoto ad un piccolo appena nato, che si contorce come una trottola in preda ad un divertimento convulso e sfrenato.
I sub vanno a yo-yo, sotto e sopra, esattamente quello che non si dovrebbe fare. Salgono a nove metri per osservare l’assembramento di squali pinna bianca adagiati l’uno sopra l’altro negli anfratti della parete rocciosa, per poi ridiscendere in picchiata a trenta metri di profondità perché intercettano la traiettoria di squali pinna argentea nel blu, per risalire di nuovo a tutta velocità di venti metri ad osservare squali galápagos e seta che si attestano flemmaticamente a poca distanza dalla superficie. La guida chiama, conta, rimprovera, rimbrotta, stigmatizza. E’ consapevole della sua responsabilità, é attenta e vigile. Spiega che il rischio di MDD é concreto e questo comportamento può solo favorirlo, ma i subacquei nicchiano e non resistono. Roca Partida é come le montagne russe, un’eccitante e incosciente altalena. L’unica consapevolezza é la percezione che un luogo come questo non ricapiterà nella vita. Ci si fa trascinare, sopra e sotto, controcorrente, incuranti del termoclino, per goderne fino all’ultima bolla d’azoto. E si perde il controllo.
La sera sul ponte, ancora increduli della malia che la Roca ha fatto a tutti, ci si stende ad ascoltare l’infrangersi delle onde in questo luogo senza approdo. Una sula dalle zampe rosse plana sulla balaustra della poppa. Si piazza lì, tranquilla, ad osservare le facce sognanti e stralunate degli strani visitatori della sua terra emersa.
L’ultimo giorno si rientra a San Benedicto per il sorprendente ed inaspettato colpo di scena finale. L’equipaggio ha voluto riservare per ultimo il sito chiamato la Caldera in una climax ascendente mozzafiato.
Sì, perché alla Caldera accade l’inverosimile.
E’ la più grande stazione di pulizia dell’oceano, il luogo di ritrovo delle mante giganti del Pacifico di cinque metri di apertura alare, con le remore marmoree piazzate sulla livrea luccicante. Sono sette-otto in contemporanea, volteggiano maestosamente con la grazia dell’Étoile dell’Opéra di Paris, incomparabili ed ineffabili. Circondano i subacquei, sfiorandoli, provocandoli, avvolgendoli in circolo. E’ uno spettacolo che incanta, come a teatro. E’ un film d’essai in bianco e nero, come al cinema. E’ un documentario del National Geographic. E si spartiscono la scena con gruppi di delfini tursiopi del Pacifico, possenti, potenti. Giocano con le bolle, le rincorrono. Ci si infilano, sbarazzini, sbruffoni. Fanno rapide e repentine puntate ad osservare i volti coperti degli stravaganti palombari e scorgono occhi umidi dietro il vetro delle maschere. Una delfina in posizione supina si lascia abbrancare dalla pinna di un delfino che le si adagia sopra e la bacia ritmicamente sul collo. E’ immobile e accondiscendente, asseconda il rito del corteggiamento, per concedersi nell’accoppiamento al maschio che ha saputo scaldarla con dolci preliminari.
La natura va in scena, in un luogo del mondo sconosciuto, ricco di segreti insondabili.
L’ultimo colpo d’occhio é un giro con il gommone, ad ammirare gli archi naturali delle rocce modellate dal vento e dalle onde. Uno squalo martello fa capolino in superficie, timido e curioso al tempo stesso. E’ l’ultimo saluto di questo remoto e strabiliante angolo del pianeta prima di affrontare la traversata di ritorno verso la terraferma. Qualcuno, munito di coperte e cuscini, si prepara il giaciglio per la notte sul ponte. Sballottato dalle alte onde dell’oceano, guarda in alto, guarda le stelle. Improvvisamente una si stacca, precipita e lascia dietro di sé una scia luminosa che incendia il cielo. E’ un attimo, ma sembra non finire mai. Un attimo di eternità, lungo abbastanza da dare il tempo di esprimere un desiderio, già sapendo che, anche se si esaudirà, non potrà mai superare l’appagamento che Socorro ha appena generosamente donato.
Parte III
La mente e il cuore
Il commiato é doloroso. I discorsi dell’ultima cena sono imbarazzati, stentati. E’ il conto che il cuore presenta alla mente.
Perché é difficile esprimere a parole quello che si é provato, quello che si sente dentro. Parlano gli abbracci, parlano le lacrime, parlano i silenzi. L’avvolgenza dei messicani dell’equipaggio, la stretta di mano del capitano, gli sguardi umidi dei compagni di viaggio. E’ l’emozione assoluta che non sa esprimersi, che blocca la mente e sblocca il cuore, gonfio di commozione.
L’isola che non c’é, così discreta e schiva, riservata e modesta, ha toccato il cuore degli uomini e ci si é insediata. Adesso c’é e resta lì.
Per sempre.
È assolutamente vietata la riproduzione, anche
parziale, del testo e delle immagini presenti in questo articolo senza il consenso dell’autore.