Autore: Silvano Protasoni
Doveva essere una cosetta facile ma in Mar Rosso il “facile” non è così scontato, soprattutto le brevi trasferte.
Alle sette del mattino e sotto una pioggia torrenziale e una specie di autobus con una decina di posti a sedere ci prelevò al Ghazala Garden di Sharm El Sheick, destinazione Dahab.
Fare un centinaio di chilometri in pieno Sinai sotto un grande temporale dava brividi di freddo e una sensazione di estremo disagio; le ceste con le attrezzature subacquee malamente legate sul tetto del pulmino erano state preparate in tutta fretta la sera prima a bordo del Nadreen, avevamo buttato dentro mute bagnate e calzari puzzolenti con la speranza di poterli quantomeno scaldare al sole, illusione.
Il nostro autista giocava con l’impianto di riscaldamento alternandone l’accensione con dei freddissimi sbuffi di aria condizionata in un vano tentativo di spannamento dei vetri, impresa non riuscita e accompagnata da una serie infinita di nostre imprecazioni, passavamo da trenta gradi a diciassette e viceversa ogni cinque minuti. Il tergicristallo rotto e spelacchiato dava appena l’impressione di pulire i vetri, in realtà serviva solo a buttare acqua a destra e a sinistra.
Finalmente capimmo come funzionavano gli Wadi, antichi letti di vecchi fiumi, quel martedì erano carichi d’acqua e sacchetti di cellophane e ruggendo, correvano a valle impetuosi con la loro piena color caffelatte. Sulle montagne si vedevano le cascate e, più o meno tutto finiva in strada.
La famosa “quasi unica” duna di sabbia del Sinai ci passò davanti senza farsi vedere; nel senso che anche quella sabbia, solitamente bianca, era diventata di un bel marrone scuro sotto l’acqua scrosciante.
I posti di polizia erano semideserti e da una garitta una mano guantata di bianco non lavato da almeno un paio di mesi faceva segno di passare ai pochi mezzi che rallentavano timidamente. Ci facemmo un’idea sui temporali nel deserto: a nostro parere non erano tanto ben visti, incutevano paura freddo e disagio, una cosa che agli Egiziani piaceva poco.
I pochi contenti erano i dromedari che abitualmente trasportavano turisti da dove finisce la strada asfaltata su a nord fino al Canyon e al Blue Hole, niente clienti e quindi una rinfrescante siesta sotto la pioggia battente, belli freschi e spidocchiati.
Il pulmino avrebbe dovuto parcheggiare proprio di fronte a quel grazioso ponticello di legno che divide in due il villaggio, ma quel giorno sotto il ponticello scorreva una massa d’acqua e fango impressionante: “Nulla di male, andiamo sino dove possiamo arrivare e poi trasbordiamo tutto quanto sui Renegade” oddio, chiamarli così era un vero eufemismo, di “Renegade” restava solo una scritta sbiadita sul cofano di mezzi che chiamammo subito Puzzles; a bordo un misto di almeno sei o sette marche d’auto diverse, tanto misto che anche le gomme erano di marca, misura e larghezza del battistrada assolutamente Egizie, facevano un rumore assordante e davano l’idea di essere sempre sgonfie.
Ovviamente bombole e attrezzature, coperte da falsi tappeti Kilim, furono trasbordate sui pick-up, erano dei mezzi Toyota davanti e Chevrolet dietro che, partiti a razzo lasciavano solo una scia di fumo azzurro dal tipico odore di metanolo che di solito si sente forte solo in tre città: Mosca, Shanghai e Nuova Delhi.
A quel tempo per arrivare al Blue Hole non c’era il bypass, bisognava per forza passare tra quei due sassi tenendo conto di almeno tre cose: larghezza del mezzo con gli specchietti ripiegati, lunghezza del mezzo perché il passaggio era un po’ in curva e… rollio provocato dagli occupanti che spostandosi a destra e a manca per vedere “se ci si passa”, provocava delle inevitabili toccatine sulla roccia. Toccatine che ornavano i tetti delle jeep di graffi e gibolli e, toccatine che lasciavano vernici colorate sui due massi teatro di “tanto arduo” passaggio.
Come tutti sanno alla fine della strada cominciano le lapidi, lapidi di subacquei deceduti nel Blue Hole, lapidi che vanno lette dopo l’immersione.
Oggi si chiama anche lui, come altri mille in Egitto, Cafè Fanar ma a quei tempi il bar in questione non aveva nome; ci si sedeva a bere un the, a fumarne una, ad accarezzare con un certo timore una decina di gatti malati e spelacchiati, a fare il briefing, a preparare le attrezzature ed a vestirsi ma quel giorno sotto quell’acqua pioveva di più dentro che fuori quindi meglio fare il tutto sotto la pioggia che dal cielo non portava giù niente piuttosto che sotto il liquido, che, color mattone sporco e condito da “cose” che da anni e anni giacevano sui tetti dei bar di Dahab scendeva sotto forma di gocce oleose e scurastre sulle teste degli avventori.
The Bell è un buco, un buco dalla forma di “buco della serratura” che ha la sua parte tonda verso terra. Un buco nel reef che scende in verticale offrendo comunque più soluzioni d’uscita; The Bell è aperto verso il mare, entra luce e, volendo si può uscire anche prima di un grazioso archetto posto intorno ai “trenta”. Fuori c’è un bel paretone che “spara” giù nel blu. Si resta a trenta,trentacinque, parete a destra ci si avvia risalendo sino a sette otto metri verso la sella del Blue Hole, il giro turistico classico insomma, l’entrata degli Open come dicono le guide. L’altra entrata, o anche uscita è sessanta metri più sotto, un bellissimo grande arco.
Già scendendo nel The Bell notarono una cosa strana, strana da vedere e da sentire: in pieno temporale i lampi schiarivano l’acqua con dei colpi di luce fantastici che arrivavano a grande profondità e poi, dopo qualche secondo, il cupo rumore dei tuoni scuoteva anche la gente sott’acqua. Roba da laghetti alpini.
Si vide il giallo di un rebreather una trentina di metri più giù, in parete appunto. Il tipo, attaccato ad una cima che probabilmente usciva dall’arco a meno sessanta, stava lanciando un pedagno rosso, cosa non facile da farsi respirando da un circuito chiuso ma sicuramente il sub in questione sapeva il fatto suo e poi non era solo, si intravvedevano appena anche tre bombole da 15 litri sulle spalle di un altro subacqueo che, sicuramente in Trimix, stava una decina di metri più sotto.
Il Blue Hole da sempre era meta di subacquei tech che arrivavano un po’ da tutto il mondo; molti bravi e preparati, gli altri spesso rimanevano lì, scritti sulle lapidi. Il gruppo arrivato dall’Italia era lì per un giro turistico, un’immersione esplorativa, una ricognizione ed un po’ di allenamento alla salinità diversa del Mar Rosso ma la guida Tarek, ben sapeva che lo scopo della loro presenza in Egitto era un altro.
Tarek era ed è uno di quelli tosti, valutatore, istruttore e guida subacquea ma, soprattutto uno di quegli Egiziani che conoscono il Mar Rosso sott’acqua meglio di chiunque altro; Tarek sapeva alla perfezione tutto ciò che era successo sott’acqua e fuor d’acqua dal 1966 ad allora; dal tempo della guerra dei sei giorni sino all’arrivo di Cousteau in acque egiziane e poi ancora tutto quanto accadde molto prima dell’arrivo dei primissimi visitatori stranieri. Visto fuor d’acqua nel suo metro e sessanta di altezza e con un fisico tendente al grassottello Tarek non dava assolutamente l’impressione di essere un vero bravo subacqueo. Si ha la stessa impressione quando si osserva una lontra muoversi sulla riva, si muove male a volte anche goffamente; ma in acqua grazia e plasticità ne fanno uno splendido esempio di pura e perfetta acquaticità.
Visto fuor d’acqua Tarek si faceva sempre precedere da uno splendido sorriso che metteva tutti di buon umore.
Ora, davanti a quel gruppo di sub Italiani c’era il Mar Rosso e l’inizio di un’avventura che sarebbe rimasta nella storia.
Tutto era cominciato in Svezia, ovvero su una secca situata a circa cinque miglia al largo della città di Oskarshamn; questa secca un bel po’ di anni dopo la fine della seconda guerra mondiale vide la fine di una bella nave da carico, la Brikton.
Costruita dai cantieri Robert Thompson & Sons nel 1917 per tale Signor Arthur Capel di Newport nel Monmouthshire – 3.872 Grt.
La bella nave era nata col nome di Capelcastle ed aveva servito in guerra, poi rimessa a nuovo e riverniciata fu ribattezzata col nome di Csarda e andò egregiamente per mare come nave da carico e trasporto in Atlantico, solo negli ultimi anni della sua gloriosa vita fu nuovamente rimessa a nuovo e chiamata Brikton il suo ultimo nome, Brikton con i suoi quattro bighi (due a prua e due a poppa) mandarono ancora su e giù per le grandi stive tonnellate e tonnellate di merci; poi una notte le basse acque della secca di Furo se la presero per sempre .
La fortuna vuole che di questa nave Capelcastle ovvero Csarda ovvero Brikton esistano molte fotografie ed anche i piani di costruzione recuperati dal sottoscritto negli archivi dei cantieri Robert Thompson & Sons, mentre esiste una sola fotografia di un’altra nave, perfetta gemella e costruita insieme alla Brikton.
Si tratta dell’unica foto che mostra la nave in navigazione (ad onor del vero ne esiste un’altra fatta in cantiere durante la costruzione)
Questa foto fu fatta in tempo di guerra durante una delle tre missioni che ne precedettero l’affondamento, una foto dove si nota distintamente dietro l’albero di prua l’imponente castello di comando del THISTLEGORM, la stupenda nave gemella.
Monaco, Monte Carlo
Tutti sanno che il museo oceanografico della città monegasca è uno dei più belli del mondo, per noi italiani e subacquei il non andarci è quasi un sacrilegio, un non conoscere la storia che per chi ama il mare è quasi un controsenso.
Il museo è praticamente una vetrina che Jacques Yes Cousteau volle fortemente ed ebbe anche – oltre ad una bravura immensa – la fortuna sfacciata di trovare nel Principato tutti i fondi necessari per coronare il suo sogno: andare per mare, andare sott’acqua e scoprire cose meravigliose; il nostro sogno, il sogno di ogni subacqueo rec o tek che dir si voglia.
Insieme a Cousteau crebbero degli eccellenti subacquei come Albert Falco, Josè Ruiz, Serge Foulon, Bernard Delemotte, Michel Deloire, Jean Paul Badssaget o il matto Canoa Kientzy e moltissimi altri, subacquei e scienziati, una meraviglia di gente.
Chi visita il museo, ed è appassionato di relitti, non può non notare le centinaia di “pezzi” che il Comandante volle per arricchire le sale ma anche, e soprattutto, per fare scuola, per portare sotto i mari anche i semplici visitatori, i bambini e gli anziani, ….chiunque volesse vedere.
In una sala del museo c’è anche una stazione radio con tanto di manichino marconista e manichino di marinaio semplice addetto
alle comunicazioni con la plancia di Comando, la sala radio era spesso messa in un punto alto della nave, a mezza nave davanti al fumaiolo.
Molti degli strumenti radio portati da Cousteau a Monaco erano strumenti di bordo del Thistlegorm, strumenti radio provenienti da una parte di nave che non c’è più ma che ci fu fino ad un istante prima della grande esplosione che la affondò squarciandone il ventre dal fumaiolo verso poppa.
Il relitto così come si presentò agli uomini della Calypso e come si presenta oggi, è privo di almeno tre piani del castello di mezza nave; forse spazzati via dal violentissimo fall-out dell’esplosione, forse coperti e schiacciati dalla pesantissima copertura della stiva che come una grande saracinesca strappata alle sue guide, si è ribaltata in aria ed è caduta pesantemente verso prua ma ….sotto quella enorme “cler” ribaltata verso prua, non c’è alcuna traccia dei tre piani di quel castello. Neppure la folata della stessa esplosione che si diresse verso poppa poté portar via qualcosa di quel castello e neppure un grosso incendio dopo l’esplosione avrebbe potuto farlo poiché la nave affondò repentinamente. Dove ha recuperato quei pezzi della stazione radio il Comandante Cousteau? Dove sono finiti quei tre piani del castello del Thistlegorm portandosi via chissà quali altri reperti?
Noi a 27 48 800 nord, 33 55 250 est ci stavamo andando di gran fretta e di cose da “verificare” ne avevamo davvero tante. Con noi un gran bel team con Tarek che il relitto lo conosceva dal “subito dopo” Cousteau e con un pimpantissimo Renè Haon un marinaio della Calypso.
Terminate le sedute di allenamento a Dahab, facemmo ritorno in città per convocare un po’ di gente in albergo. Il Ghazala andava benissimo come posto, c’era un sacco di viavai e nessuno faceva di certo caso a un gruppo di gente il cui parlare a voce alta, bere qualcosa a qualsiasi ora del giorno, vestire con cose che –se non in vacanza – nessuno indosserebbe, la diceva lunga sulla provenienza e attività del gruppetto: “Subacquei Italiani” la più assoluta normalità per Sharm.
La scelta della barca fu abbastanza importante, non potevamo certo permetterci di fare avanti e indietro e quindi ci serviva una barca da crociera, con bordo tutto, con un equipaggio più che discreto e capace di non chiacchierare troppo, con caratteristiche di stabilità marine quantomeno decenti rispetto a terribili legni egiziani (di qualsiasi dimensione siano rollano e beccheggiano peggio di un guscio di noce) e con un minimo di velocità di crociera che ci potesse consentire di allungarci qua o la in caso di tempo cattivo.
Ancora una volta Tarek tirò fuori il coniglio dal cilindro e trovò ovviamente tutti d’accordo, parlando di barche serie, in entrambi i golfi ce n’era solo una che andava bene per noi, era in acciaio e navigava ancora discretamente bene la bella Lady Crissy, il gioiello di Eddy Elias. Non potendoci permettere il sicuro tam tam di chiacchiere del porto e dovendo mantenere un certo riserbo decidemmo di lasciare la barca in rada per fare molto discretamente avanti e indietro con un vecchio zodiac con a bordo le classiche ceste e borse da sub, un bel po’ di valige, la scorta di cibi very italians per la cambusa e facendo in modo che le attrezzature un po’ più tek tipo i bibo rebs e quant’altro fossero ben miscelate con le più turistiche ed ovvie patacche tipo una grande cesta piena di maschere, snorkels, torcettine usa e getta, un discreto numero di paia di pinne con scarpetta e una decina d’immancabili giubbini gialli da snorkelista con una bella scritta blu PIZZA HUT. Cenammo a bordo non senza fare bel baccano e poi sotto il silenzio di una stupenda stellata d’aprile cominciammo a parlare di cose serie, del nostro programma, dei cenni storici a nostra diposizione e soprattutto del cosa fare e quando farlo – è noto che il relitto del Thistlegorm è una meta frequentatissima, mettersi a gironzolare la sotto, fuori dalle consuete rotte di guide e sub avrebbe sicuramente attratto l’attenzione dei comandanti più sgamati ma anche d’istruttori e guide che del relitto conoscono ogni singolo particolare; cercare di “fregarli” era pressoché inutile.
Alle tre del mattino arrivò a bordo anche il “fortunato”… io l’ho imparato a mie spese, se fai un qualcosa di speciale e intrigante e non ti porti dietro il “fortunato” rischi di girare a vuoto. Mi portai dietro un “fortunato” in Normandia sui relitti del D-Day e tutto andò a meraviglia, direi proprio “un gran culo!” guai a non portarsene uno anche per quest’occasione (per dir la verità era un “rinforzo” giacché tutti conoscevamo la fortuna sfacciata di Tarek…). A fine immersione bastava dirgli : “Che peccato, oggi niente squali” per sentirsi rispondere: “Non vorrei sbagliarmi ma,.Metti giù la testa , non è tanto grosso ma quello che hai sotto le pinne mi sembra proprio un grigio!!!”Mitico Tarek) Il nostro “fortunato” non era subacqueo qualunque, era un lacustre d.o.c. con una passione sfrenata per il “ferro”, cresciuto sul Lago Maggiore non amava particolarmente l’acqua salata ma dopo una mia telefonatina con un accenno sull’argomento arrivo giù come un fulmine e mettendo piede a bordo disse: “Se sapevo che faceva così caldo restavo a casa” Gualtiero Ongetta era dei nostri. Avevamo dunque con noi un fortunato del pesce ed un fortunato del ferro, ….io con Alessandra che mi diceva ogni due per tre :”keep you fingers crossed Darling” che cacchio volere di più se non il “pezzo mancante del Thistlegorm?”
E’ davvero incredibile pensare a quanta e quale attrezzatura aveva a disposizione il Comandante Cousteau, si parla di mini sommergibili a uno o due posti, robetta da tre quattrocento metri, dei noti sommergibili umidi, veloci e molto manovrabili con a bordo quattro bombole per un’autonomia subacquea incredibile in pochi metri d’acqua, ma anche di camera iperbarica, gabbie antisqualo, un osservatorio sommerso sulla prua della Calypso, un pallone aerostatico per le “viste dall’alto” laboratori scientifici, una gru idraulica da tre tonnellate a poppa e, scusate se è poco, una equipe di sub unici al mondo. Noi dalla nostra avevamo un po’ più di tecnologia e di software ma, entusiasmo da vendere a parte, . quasi nulla in confronto.
Si decise di arrivarci sopra con un “classico” degli abbordaggi: alle 10 del mattino, facendo spostare non meno di sei altre barche più piccole, seguendo come sempre con estrema curiosità ogni assurda manovra di comandanti fai da te (non che il nostro fosse meglio) ma la legge del più grande che dice al più piccolo “spostati” sul Thistelegorm funzionava a meraviglia, gran pranzo a base di lasagne al pesto (fatte dal sottoscritto) e coscette di pollo croccanti e pepatissime fatte dal cuoco, pucciatina pomeridiana in assoluto assetto da sollevatori di melma e torce da 8500 watt e pennica, così per due giorni e così tanto per fare capire a tutti, i nostri intenti più che turistici. Al pomeriggio del terzo giorno , non senza tirarci addosso le bestemmie di tutto il parco navi presente, decidemmo di spostarci un cento duecento metri più a nord con la scusa del troppo casino, troppo baccano, troppi gas di scarico e un troppo infimamente basso il rapporto prezzo qualità offerto dal nostro tour operator. Ci ancorammo ad una distanza per cui chiunque ci vedesse o tentasse di curiosare si sarebbe sentito dire dal primo vicino: “Sono quei casinari della Lady Crissy, per fortuna si son messi più lontani”. Detto fatto preparammo con meticolosità certosina ogni attrezzatura e mettemmo giù un piano operativo per un’indimenticabile notturna, la prima di una lunga serie.
“La notte porta consigli” e, sentirselo dire da Tarek era davvero tutto un programma. Il punto più alto della Lady Crissy fu scelto come osservatorio ed andava benissimo, ci mettemmo sopra, proprio sul tetto, una vecchia poltrona di pelle resa “girevole” da un fenomeno di meccanico di bordo, un tavolino sul quale appoggiare un binocolo e, perché no? Una stupenda bottiglia di porto che con il suo dolce era in amabilissima sintonia col salato che ti resta in bocca e sulla pelle in quei posti lì.
Fu guardando lontano verso nord ovest che ci venne l’idea, anzi, come al solito l’idea venne a Giorgio, uno dei nostri specializzato in riprese subacquee, lontano verso nord ovest si vedevano le uniche luci fisse su quello splendido mare, luci di una piattaforma estrattiva che qualche volta arrivando a Thistlegorm si vede anche a occhio nudo. “Dobbiamo segnare il campo” disse Giorgio “”e dobbiamo farlo bene in modo che chi sta di vedetta abbia piena consapevolezza di dove sta il relitto, gli annessi e connessi e di dove si vedono muovere le torce in profondità; chi sta di vedetta può fare una mappa e controllare volta per volta le zone già viste o meno…” Ci sembrò un’ottima idea e Gualtiero mentre ascoltava aveva già preparato dodici strobo da piazzare così: una strobo rossa di superficie sulla estrema prua della nave ed una identica a poppa, due strobo gialle a segnare le murate di dritta e di sinistra della nave in corrispondenza della rottura dell’esplosione, una strobo bianca sulla locomotiva che dopo l’esplosione era finita a sinistra della nave ed un’altra sempre bianca sull’altra locomotiva, meno conosciuta, che giace anch’essa nella sabbia a dritta della nave; ad ogni strobo di superficie ne corrispondeva una di identico colore sul fondo alla fine della cima; lunghezze delle cime ben calcolate sei moschettoni per agganciarle e uno splendido Roberto che in meno di cinque minuti piazzava il tutto. Toglierle a fine immersione era un gioco da ragazzi. Dal posto di vedetta si aveva ora l’esatta posizione della nave, il suo ingombro, e la posizione delle due locomotive che ci sarebbe servita per studiare l’effetto del fall-out sulle strutture in coperta; con il mare che pareva olio sembrava quasi di essere su una pista di atterraggio sotto si sarebbero visti chiaramente i vari spostamenti seguendo gli aloni delle torce subacquee. Un primo, gran bel lavoro.
Fra le altre cose eravamo anche ancorati nel posto giusto a circa centoventi metri dalla prua della nave ma il nostro comandante ci stupì con l’espediente della catena lunga: la catena dell’ancora lasciata volutamente molto più lunga del necessario (normalmente è cinque volte il fondo) poteva essere recuperata. La Lady Crissy poteva quindi allungarsi dal relitto almeno di un altro centinaio di metri….”you never know”come dicono gli Inglesi. Anche Renè era assolutamente d’accordo sulla posizione della nave, si limitò a dirci “anche il Comandante si era messo più o meno qui” e questo suo primo ricordo ci rese tutti quanti contenti, di buon umore; noi no ma uno come Cousteau sapeva perfettamente come e dove ancorarsi.
Per quella prima notte l’idea era di buttarsi in acqua ognuno per conto suo e fare una prima grossolana esplorazione seguendo ognuno una rotta di bussola di venticinque gradi diversa, avremmo così coperto una vasta area, le istruzioni erano chiare: pedagnare qualsiasi cosa strana, a me lo aveva insegnato mio nonno quando mi portava a funghi, lui aveva una sua teoria che recitava così: “Se vedi un fungo che sembra un sasso non lo raccogliere perché è sicuramente un sasso ma se vedi un sasso che sembra un fungo prendilo, potrebbe essere un fungo” spesso le forme più strane sul fondo non sono altro che coralli ma….non si sa mai. E invece…..ci buttammo in acqua tutti insieme e girovagammo neanche tanto sempre tutti insieme, la colpa era del padrone di casa, eravamo tutti pronti a saltare dalla plancetta di poppa quando Tarek ci disse: “speriamo di non incontrare il padrone di casa, è un vecchio tigre di quattro metri”; lui lo disse sorridendo e si tuffò a gav sgonfio, noi lo seguimmo in gruppo come dei bravi OWD a torce spianate, alla faccia del padrone di casa; ….Tarek l’egiziano…..che burlone. Una cosa difficile, barbosa ed anche molto fastidiosa era l’andare a una cert’ora a tirare su le strobo con le relative cimette e galleggianti ma lo si doveva fare per forza….ovviamente si tirò la buschetta e, sempre ovviamente toccò a uno a caso, mentre tutti già pregustavamo una nanna cullati dal maroso,….Tarek! Potrei giurare di aver sentito più d’uno sussurrare: “Gli sta bene! Lui e il suo tigre del cazzo, di notte”; io non lo dissi ma lo pensai di sicuro.
Il giorno dopo, durante l’orda turistica decidemmo di fare una cosa saggia suggerita da Gualtiero: andare sul relitto a verificare come si fosse potuta staccare dalla nave quella grande porzione di coperta, vedere se c’erano evidenti segni di strappo dalla strutture o altre cose da fotografare, annotare e poi discutere. La parte in questione era quella nascosta dalla saracinesca ribaltata, infilarsi sotto e cercare qualcosa dopo oltre sessanta anni dall’affondamento non era così facile ma neppure impossibile, ci dividemmo in due squadre da tre e chi da dritta (più facile) chi da sinistra con una bocca d’entrata non più grande che sessanta centimetri x quaranta siamo entrati laddove con tutta probabilità nessuno era stato prima, c’era da crederci se si pensa che a un certo punto il gav, per quanto completamente sgonfio non passava, ma c’era da crederci perché lì sotto non c’erano altro che rottami di putrelle contorte, cavi elettrici in abbondanza, una sospensione pazzesca e, insomma ” fuori tutti” si ritorna nel tardo pomeriggio solo in tre e “alla francese” cioè solo con bombola sottobraccio e pinne facili da togliere. Questa operazione toccò a Gualtiero, Roberto e Walter (caro, carissimo Walter sempre nel mio cuore) Per fortuna alle quattro se ne andò anche l’ultima barca e quindi potemmo assistere agevolmente i tre compagni – data l’esperienza non ne avevano assolutamente bisogno e di fatto poi si fecero anche altre cose (Tarek andò a ri-piazzare le strobo, Giorgio ed Io a fare qualche ripresina e gli altri a cazzeggiare in zone del relitto solitamente off-limits per i turisti.
Il briefing della sera diede buoni frutti, viste le fotografate almeno sei putrelle ad H in ferro che venivano su dritte dalla stiva, rotte e letteralmente deformate come se fossero state strappate dall’alto, due in particolare portavano ancora segni ben evidenti e propri di uno stress da esplosione i bordi non apparivano taglienti ma quasi come fusi, come se fossero stati tagliati con un cannello. Gualtiero, il più esperto di roba bellica non aveva dubbi: ” visto il danno ed il tipo di esplosione sta roba è volata via in un batter d’occhio” ma noi tutti speravamo che fosse anche ammarata da qualche parte “sta roba” del volume di una discreta casetta. Uno studio ben fatto su nave Brikton mi diceva che la struttura poteva essere fatta così: travi ad H verticali per tutto il perimetro, lamierone rivettate davanti e sui fianchi, tetto di grossa lamiera spesso almeno il triplo di quella delle pareti, tutto rivettato e leggermente a spiovere verso dritta e manca, oblò sul davanti e sui fianchi, parte verso poppa con porte d’entrata e finestrature in legno, specie di perline. Su quel tipo di navi lì ci si aspettava che ogni male venisse da prua (per primi i marosi) o dall’alto o dai fianchi (il lato debole esposto ai tiri) ma quasi mai da poppa dove se arrivavano bordate erano in direzione delle eliche ma non certo così alte e poi okkio…il Thistlegorm a poppa possiede anche un signor cannone a difendere la nave.
La seconda notte la facemmo “giusta”; guai a nominare il padrone di casa e giù ognuno per la sua bussola pronti a pedagnare qualsiasi cosa fosse vista come “strana” e con un tempo di fondo imposto dal sottoscritto di soli trenta minuti. Risultato zero cose, zero di zero. A conti fatti la porzione di campo esplorata era piuttosto grande e confesso che la delusione fu feroce. Qualcuno si azzardò a dire: ” sì ma tonni e carangidi così grossi non li avevo mai visti” e la risposta molto CORALE fu un lancio di cuscini e un grande affanculo che sembrava di essere in zona boys al Meazza, non eravamo lì per i pesci. L’idea di usare un metaldetector, (che avevamo) fu subito scartata e la motivazione era più che semplice: dopo l’esplosione in quella zona e tutto intorno alla nave sono letteralmente piovuti pezzi di metallo e schegge di ogni genere, il metaldetector avrebbe fatto bip bip ogni venti centimetri salvo poi trovare un bullone o chissà quale pezzo di insignificante dimensione. Noi cercavamo una roba grande, una roba che non affonda nella sabbia neanche dopo cent’anni. Metaldetector rimesso nella sua borsa e mai più usato.
Forza e costanza, quello che cercavamo non poteva essere scomparso ed eravamo certi che anche il Comandante Cousteau se ne stava forse da qualche parte a dire: ” acqua, acqua…..fuochino”
Domani vediamo…..
“E poi?” non c’è nulla di peggio che alzarsi il mattino e, prima del caffè, prima della sigaretta, prima di lavare i denti e soprattutto prima di aver connesso in maniera decente il cervello,…sentirsi dire un “E poi?” riferito ad una discussione della sera prima, riguardante il programma della giornata – ovviamente molto intenso perché nessuno voleva perder tempo – insomma come se “poi” ci fosse qualcos’altro da fare se per caso anche la terza notte di ricerca fosse andata a vuoto. “Poi sto cazzo!” era la risposta più ovvia.
Evidente, molto evidente il nervosismo della squadra che per quella terza notte sul Thistlegorm avrebbe avuto da cercare sott’acqua fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo minuto prima di una non breve deco per cui sotto la lunga chiglia della Lady Crissy mettemmo giù cime a dodici , nove, 6 e 3 metri con un più che abbondante grappolo di bombole e anche ossigeno a gogo (ognuno si sarebbe dovuto organizzare la propria deco comemegliocacchio preferisse) mandammo giù anche un bel po’ di strobo a varie altezze insomma sotto la Lady c’erano alberi di natale che si vedevano da non meno di 60 metri, neverlost per i più ciucci nell’uso della bussola e gommone gironzolante per gli scemi cronici. Non ci fu bisogno né dell’uno né dell’altro….e “per fortuna” dissi io, i più pirla del gruppo non aveva meno di 3000 immersioni (nota: Tarek 12,000!! Non male direi per un “botolotto” Egiziano, seguito a ruota dalle 10.000 di Vittorio eccetera)
La tattica di ricerca in solo dive più o meno la stessa ma su un campo questa volta a sinistra della Lady ( verso ovest per intenderci) Questa seconda ricerca mi fece capire una cosa che non conoscevo e che non era riportata sulle carte nautiche che avevo comprato: la nave era affondata più o meno in mezzo a una baia (si era ancorata a ridosso probabilmente per evitare colpi di mare e comunque mai e poi mai il suo Comandante avrebbe navigato di notte) Reef a dritta, reef a sinistra e reef lontano davanti alla prua, per andare verso Suez in sicurezza il Thistlegorm avrebbe dovuto mettere prua verso sud e, fuori da questa specie di baia, virare a dritta e riprendere una rotta 180° per dirigersi verso il canale. La baia aveva un fondale direi tipico e cioè laddove giaceva il relitto 34 metri circa di profondità che andando a dritta o andando a sinistra o andando dritto davanti alla prua, tendeva a diminuire, poco ma diminuiva. Ovvio se si pensa che davanti alla nave, a dritta e a sinistra c’erano dei grossi reefs” se invece si seguiva una rotta che come direzione andava da prua a poppa, si sarebbe notato che mano a mano ci si allontanava dalla poppa la profondità aumentava – per intenderci: 50 metri dietro la poppa del Thistlegorm il fondo era già 40 metri e degradava abbastanza costantemente, ma questa ultima scoperta la feci giorni dopo.
Il calzare di Mike: intanto devo dire chi era Mike. Guida Scozzese (guai a dire Inglese) già in forza al Waterland di Christian Calusa, poi in forza a Werner Lau, ex Waterland e poi forse anche Al Sea Soul ( sempre di Christian e Jeko) ma non sono sicuro di quest’ultimo impiego, sta di fatto che il mitico Mike era ed è stata in assoluto la guida più naif di tutto il Sinai orientale, non si contano gli aneddoti sul suo modo di interagire con Sharm, con gli Sharmesi, con gli equipaggi, con i Clienti and…last but not least…con tutto ciò che stava sopra e sott’acqua. Un vero fenomeno, spesso incompreso ma INCREDIBILMENTE DIVERTENTE, ve ne racconto tre: usava fare i briefing con una grande lavagna, pennarelli colorati e quant’altro ma la cosa più buffa è che riusciva a fare credere ai clienti che sotto quel sasso c’era la murena e che dietro quel pinnacolo ci fosse la tartaruga e che, se non si faceva casino, a inizio immersione avrebbe SICURAMENTE incontrato uno squalo!! Ebbene mai e poi mai successe una sola di queste cose ma vi assicuro che Mike riusciva a dare una spiegazione a tutto: “per forza non hai visto lo squalo! Ti sei tuffato dalla barca facendo un sacco di rumore!” e così via. La seconda è questa: sempre, dico sempre, quando Mike portava i clienti a fare Lighthouse dormiva. Si, dormiva sott’acqua…si metteva in assetto, ginocchia piegate, pollici sotto gli spallacci e via una dormitina di non meno di 55 minuti… spesso lo prendeva un filino di corrente che lo portava un po’ fuori rotta ma guai ad andarlo a svegliare, guai! Compariva magicamente a fine immersione per i tre minuti canonici e poi in barca con aria sorniona diceva: “allora ragazzi oggi dovete stupirmi, ditemi cosa avete visto che io non sappia” e tutti giù a raccontare, e Mike che faceva si con la testa con un bourbon in una mano e una Marlboro tra le dita.” Mike is Mike” diceva il comandante al quale lui regolarmente scroccava bourbon e sigarette … by the way. Quel giorno quando Mike perse il calzare (nota bene il calzare, non la pinna) io c’ero. Lui stava insegnando ad una neoguida giapponese come mettere le cime sul relitto (una specie di esame per le neoguide sul Thistelegorm) ebbene c’era mare e la coppia non senza una trentina di bestemmioni del Comandante si tuffò, as usual, dal pulpito di prua con la prima cima in mano,…mare e corrente, insomma per farla breve non solo mancarono clamorosamente il relitto ma, a un certo punto li vedemmo entrambi sbracciarsi lassù, a nord ovest e ben lontano dalla prua del relitto, ma….molto ben lontano. Rientrati in barca per cambiare le bombole e riprovarci (fu inutile perché nel frattempo ALTRA guida fece il lavoro) Mike disse nel suo pessimo slang angloscottish: “mi hanno rubato il calzare!” minacciosissimo verso l’equipaggio e, da buon scozzese d.o.c. incazzatissimo per la perdita di: calzare Mares bluette con riga bianca, (l’altro era nero e di altra marca) lampo completamente rotta ed inesistente (lui ci metteva la spilla da balia) buco colossale in corrispondenza dell’alluce non dovuto all’usura ma voluto dal proprietario in quanto il calzare in questione era due numeri meno del suo 46 di piede. “Mike is Mike” L’ultima di Mike ve la racconto brevemente in quanto mi auguro abbiate capito di che tipo si trattasse: cena d’addio al Fanar (quando si mangiava bene perché c’era l’Alfredo ) lui si innamora perdutamente della moglie di un cliente owd Italiano e cosa ti combina? Dopo cena porta il cliente a fare una notturna, si fa pagare quattro volte il prezzo giusto e lo riporta in albergo, insomma tutto ok. La mattina dopo Mike – che quel giorno era off – si presenta casualmente in albergo e il tizio gli corre incontro per salutarlo perchè aveva l’aereo il pomeriggio, e Mike “come l’aereo? Ieri sera non mi avevi detto che partivi!! Sciagurato! Non puoi volare con il nofly eccetera eccetera” Mandò, sapendo che si sarebbe trattenuto non meno di cinque o sei ore, il cliente all’aeroporto a fare un vano tentativo di cambio del biglietto dell’aereo, gli trombò la moglie che non parlava minimamente lo scozzese ma che ci stava alla grande e penso anche che prima di uscire dalla camera tirò su con nonchalance anche quelle tre o quattro monetine che restano sempre, ed in ogni albergo del mondo, sul tavolino di fianco alle valigie. Mike is Mike….Il cliente partì cornutissimo e col nofly evaffanculo!
Il calzare di Mike lo trovò Roberto e, chissà perché invece di lasciarlo a marcire dov’era da sei anni lo portò a bordo. Io ebbi una crisi di pianto e raccontai a tutti la storia di quel calzare.
“Mike! Ovunque tu sia nel mondo lo devi sapere perché ora lo sto scrivendo: non te lo hanno rubato il tuo puzzolentissimo calzare! Ce l’ho io, Silvano, a casa” . Chiedo scusa ma non potevo non scriverla sta cosa, magari anche Mike legge o scrive sul forum.
Tornando a noi e calzare a parte anche la terza notturna non diede alcun risultato se non il ritrovamento, pedagnato a dovere, di qualche grosso pezzo di lamiera e di una ruota di camion che giaceva probabilmente a poppavia e che fu lanciata lontano dal fall out. Abbiamo lasciato tutto al suo posto e risalendo in barca dicemmo al comandante di rimontare sulla catena dell’ancora di altri 100 metri. Davanti al Thistlegorm a quasi 360 gradi per un raggio di non meno di 120 metri, nulla, solo rottami, piccoli rottami ma della nostra porzione di castello neppure l’ombra. Per i prossimi due giorni avremmo esplorato la porzione di fondo più lontana dalla prua della nave ma anche la fisica a questo punto giocava contro di noi: come sarebbe potuta finire una porzione di nave così grande e pesante così lontano dalla nave? Good question ma nonostante tutto noi dovevamo cercarla e trovarla. Su le boe e le strobo e tutti a nanna, per dire la verità non tutti tutti.
Io, Walter e Gualtiero restammo in plancia tutta la notte, con molti dubbi ma con una volontà d’acciaio.
E la notte portò il consiglio giusto; avevamo ancora pochi giorni di tempo, dovevamo intensificare al massimo la ricerca e, fra le altre cose, dovevamo anche farlo in sicurezza perché Roberto durante la sua ultima solo dive notturna, – lui era il sub più ad est del gruppo – aveva intravisto il “padrone di casa” e stando alla sua descrizione era anche bello grosso. Un nuovo breve briefing con tutta la brigata mi fece decidere che a questo punto era forse meglio giocare a carte scoperte, senza pensare ai turisti, ai comandanti delle barche vicine o quant’altro, non potevamo permetterci di perdere prezioso tempo per cui i nuovi orari per i tuffi diurni furono stabiliti: ore 6 (in piena luce) la prima squadra con il compito di recuperare le strobo, ore 12 una seconda squadra, ore 17 la terza (con il compito di ri piazzare il campo luminoso delle boe e strobo, ore 22 la notturna in gruppi da tre sub dei quali uno armato di manganello anti squalo (proprio quello inventato da Albert Falco un sub di Cousteau un bastone di 4 cm di diametro lungo 80 cm sulla cui sommità erano stati infissi dei piccoli chiodini sporgenti e appuntiti, noi tutti si sperava funzionassero davvero come strumento da usare per deviare il muso dell’animale quel tanto che bastasse a non farsi assaggiare; la funzione dei chiodini era solo quella di fare buona presa sulla pelle del pesce in modo che il bastone non potesse scivolare e, dato lo spessore della pellaccia, pur senza minimamente ferirlo) Eravamo tutti d’accordo ma vedevo Vittorio (Vittorio Biagioni, 10.000 immersioni in carriera, stupendo subacqueo Spezino) che stava come al solito in un angolo, scrollare la testa, così a fine riunione gli chiesi come mai non fosse d’accordo,…la sua risposta mi stupì: “Non è che non sono d’accordo Silvano, scrollavo la testa perché ho capito che al di là dell’impresa e, al di la dal trovare qualcosa, vedo nei vostri occhi un’altra cosa: una immensa voglia di stare in acqua il più possibile, e un po’ mi girano le palle perché capita anche a me che sono il più anziano del gruppo,… scrollavo la testa perché il nostro andare sott’acqua è proprio un gran bel vizio… non cerchiamo chissà quale tesoro, andiamo in acqua “nel” tesoro”
Vittorio ovviamente aveva perfettamente ragione, era il mare che ci tirava dentro.
La mattina alle sei era l’ora giusta e quel mattacchione di Tarek lo sapeva bene che era l’ora giusta, ecco perché lui di notte si tuffava senza alcun timore, semplicemente perché non era l’ora giusta…elementare, ma bisognava saperlo che il “padrone di casa” lo squalo tigre adora mangiare il mattino presto ed era per questo che appena si faceva un po’ di luce gironzolava una cinquantina di metri davanti alla prua del Thistelegorm in attesa che qualche segnale lo attirasse vicino al cibo; da buongustaio il tigre mangia un po’ di tutto per cui tutti i rifiuti gettati – senza volere ovviamente – dalla barche il giorno prima, qualche bel carangide o tonno che gli passasse a tiro di mascella e perché no? Magari anche una bella tartaruga il cui guscio si sarebbe frantumato come una nocciolina americana sotto l’azione delle sue mascelle e di quei denti disegnati apposta per macinare anche il più duro e grosso dei carapaci. La nave era un turbinio di pesce la mattina presto, tutti quanti attratti dal cibo, magari anche solo per brucare qualche alghetta tirata a nudo dal passaggio dell’orda di sub, o di altre miriadi di cose sollevatesi dal fondo melmoso per il passaggio di una marea di pinne, se a ciò si aggiungono tutti gli oggetti, commestibili o non, che piovono giù dalle barche si può capire il perché di quel bel banchettare la mattina presto, non capita così spesso in Mar Rosso non vi pare?
Qui mi devo correggere visti i recenti avvenimenti – longimanus ecc. – accaduti a Sharm: penso proprio che invece capiti spesso.
E, infatti, lo salutammo, da lontano ma lo salutammo quel bel grosso e grasso tigre (forse una femmina) che di noi subacquei non ne aveva voglia proprio e quindi se ne stava dignitosamente a distanza di sicurezza, insomma si faceva i fatti suoi fin verso le otto del mattino e poi, con l’avvicinarsi dell’orda e del ronzio delle eliche, spariva in chissà quale posto. Stando a Tarek erano più di vent’anni che lo conosceva, se ne parlava al Pirates già da tempo immemorabile, poi se ne parlò sulla terrazza del Camel e poi ancora forse in qualche nuovo baretto ma,….questa è un’altra storia, roba da figli della shamandura.
Le ricerche, esaurita senza alcun esito positivo, la parte più a nord del Thistlegorm, si concentrarono a dritta e a sinistra del relitto, avremmo lasciato la Lady Crissy la dov’era e ormai senza alcun ritegno le squadre si sarebbero concentrate su una porzione di fondo rettangolare di un centinaio di metri di lunghezza (più o meno la lunghezza della nave ) per 200 metri ad est del relitto ed un’altra di pari dimensione ad ovest. Questo era il calcolo fatto da Gualtiero che trovava tutti d’accordo, per la prima volta sarebbe sceso con noi in acqua anche Renè uno degli uomini di Cousteau ai tempi del ritrovamento del Thistlegorm. La curiosità dei comandanti, degli equipaggi, di istruttori guide e clienti delle altre barche fu tenuta a bada da una vera e propria invenzione del sottoscritto: “la Lady Crissy ha perso l’ancora!” La stiamo cercando disperatamente!” Povero Eddy Elias, chissà le maledizioni che mi ha mandato!!! Dire di aver perso l’ancora era come confessare la propria immensa incompetenza di marinaio, una cosa assolutamente imperdonabile ed indicibile, tanto indicibile che sapevo perfettamente che ogni marinaio, ogni guida o istruttore e probabilmente anche ogni beduino cammelliere da Suez ad Aqaba e da Ras Mohammed fino ai confini col Sudan (compresa la costa dell’Arabia Saudita) ne avrebbe riso e parlato per anni e anni, forse per sempre. Avevamo dunque due bei rettangoloni di fondo da esplorare, 40,000 metri quadri, quattro ettari di sabbia e coralli con dentro, forse, il nostro gran bel pezzo di nave mancante. A questo punto fu chiaro che l’esplosione avrebbe potuto mandare in qualsiasi direzione la porzione di castello, ammesso che, AMMESSO CHE non si fosse molto più semplicemente disintegrata in piccoli ed insignificanti pezzi sparsi qua e là ma……….c’era Cousteau, lui aveva trovato cose che stavano all’interno di questa porzione di nave e quindi fu logico pensare che non si era affatto disintegrata quella fetta di nave mancante. Bisognava trovarla. Il campo di ricerca fu delimitato dal geometra di bordo (Il mio amico Adolfo) con delle fettucce di stoffa colorata dovevamo stare dentro il rettangolo e marcare con un filo di diverso colore la fetta già esplorata, una specie di ricerca cui gli archeologi sono più avvezzi, ma anche noi sapevamo più o meno bene cosa fare. Mettere bene gli occhi su qualsiasi oggetto di medie grandi dimensioni non era una cosa facile da fare, sulla sabbia c’erano davvero un sacco di protuberanze che andavano viste da vicino, toccate sollevate e soppesate prima di lasciarle dov’erano perché non erano di certo un pezzo del Thistlegorm; i coralli si attaccano a qualsiasi cosa, alle conchiglie morte a pezzi di legno ad altri coralli e così via sino a formare piccoli pinnacoli o semplici agglomerati destinati nel tempo a diventare quella meraviglia di habitat che non finirà mai di stupirci, “forme di ogni tipo” avrà pensato Giorgio guardando meglio e da vicino uno sgabello di ferro, uno sgabello di ferro montato su una piastra girevole che non lasciava dubbi sulla sua provenienza e collocazione a bordo della nave; o stava in plancia o stava in sala radio, lassù in alto dentro quel pezzo di nave che noi cercavamo, Non male anche la murena gigante che ci abitava e che ha posato per non meno di una decina di foto e videoriprese. Eravamo vicini alla nostra meta e concentrammo tutte le ricerche in quella zona, un centinaio di metri a est del relitto e più o meno a poppavia, il luogo dell’esplosione, andammo a letto stanchi ma con la sensazione di sentire il Comandante Cousteau dire finalmente: “fuochino”.
Due lunghi giorni per setacciare la porzione di fondo ma solo una pistola a tamburo trovata – guarda caso – da Gualtiero e un grosso boccaporto a due manovelle con tutta la sua cornice e parti di lamiera divelto probabilmente dal ponte inferiore, tutto questo ad est del relitto ma, essendoci finita addirittura una delle due locomotive anche la parte ovest non doveva, non poteva essere tralasciata. Tre squadre a est e una sola ad ovest tanto per non lasciare nulla al caso: Era evidente che l’esplosione avesse tirato ad aprire verso dritta e manca, e quasi nulla se non piccolissimi frammenti di metallo erano finiti a proravia e a poppa della nave; l’aver trovato lo sgabello ci dava grande entusiasmo ma arrivare a sera senza aver visto nient’altro ci stava portando inesorabilmente verso l’ultimo giorno del nostro piacevolissimo vivere insieme al Thistlegorm e così fu.
L’ultima sera avevamo deciso di lasciare i segnali, le cimette con le boe e le strobo così dal ponte della Lady Crissy bastava un’occhiata per vedere e capire quanto lavoro avessimo fatto e in quale splendido pezzo di mare.
Se ci fossimo guardati un po’ tutti negli occhi quella mattina avremmo scoperto che ognuno, nessuno escluso era deluso e un po’ di tristezza ce l’avevamo addosso davvero. Il Comandante Cousteau aveva inesorabilmente finito di darci consigli e quel “fuochino” era rimasto tale, niente di niente se non un bellissimo mare, tantissimo pesce, l’ormai noto “padrone di casa” e tutti i giorni, ma andava bene così, l’orda di visitatori che nel bene o nel male quel dannato pezzo di ferro lo tenevano in vita più di qualsiasi altro relitto al mondo e con tutte le ragioni del mondo potevano davvero dire “che meraviglia di nave!” Decidemmo anche di prendercela davvero con comodo e verso le otto qualcuno disse: “Raga, dobbiamo andare ancora a tirare su le cimette e le strobo, fra un po’ arrivano i turisti” e il buon Walter: “quello che resta delle strobo perché una ce l’hanno già ciulata!” La strobo messa a poppa del Thistlegorm era sparita, di certo qualche pescatore o magari qualche barca da crociera se l’era presa, le altre si vedevano tutte di fianco alle loro boette anche se non lampeggiavano più perché senza energia.
“andiamo Gualtiero!” dissi, “andiamo noi due e lasciamo dormire l’egiziano (Tarek)” tutti quanti stavano riordinando l’attrezzatura e facendo asciugare delle puzzo lentissime mute nessuno aveva voglia di anadre a pendere cime e strobo, la colazione era quasi pronta e poi ci eravamo anche detti che l’ultima l’avremmo fatta tutti insieme fino all’ultimo bar a Jolanda sulla via del ritorno.
Intanto che recuperavamo le cimette e le strobo partendo da prua verso poppa io a dritta e Gualtiero a sinistra ci lasciavamo portare dalla corrente giù a mezza nave e poi a poppa, ci eravamo dati appuntamento sul cannone per poi risalire verso prua passando dalla stive, ormai le conoscevamo tanto bene che non ci servivano proprio le torce, davano solo fastidio a tanto di quel pesce che è davvero raro vedere a bordo quando gira l’orda. Arrivati a poppa trovammo l’ultima cimetta, quella dalla quale era stata rubata la strobo e la boetta di superficie, andava via dritta verso poppa ed era ben tesa dalla corrente, io e Gualtiero avevamo ancora 160 bar nei bibo potevamo certo permetterci un ‘ultima puntatina verso il blu. Un’occhiatina alla bussola e via, a “ranzo fondo” spinti da una corrente allegra davvero.
Il fondale oltre la poppa scendeva mica male prendemmo i quaranta appena partiti e poi 45, 50, 55, e 68 metri per un bel pianoro; smanettavamo nella corrente ma l’occhio (io l’ho sempre detto che ci vuole l’occhio) del mio amico fortunello ebbe un guizzo ed io, che guardavo altrove mi sentii strattonare di brutto. Vi assicuro che non fu per nulla facile e neppure divertente per il sosttoscritto che non aveva capito nulla girare di 180 gradi e puntare leggermente ad ovest, la corrente martellava ma Gualtiero che mi stava davanti ruzzava come non pochi. Ancora dieci metri e poi la vidi anch’io. La parte di nave mancante era lì davanti ai nostri occhi, un bel bestione di lamiere più meno contorte alte almeno 5 metri, si vedevano le finestrature e dietro ai cardini di un portello di ferro, era piantata un po’ sbilenca nella sabbia ma senza dubbio era il pezzo di castello volato via.
Probabilmente era davvero volato verso l’alto e ricadendo in mare (unica spiegazione che noi tutti del team sappiamo dare) una bolla d’aria tra quello che restava delle pareti e il tetto la aveva tenuta a galla per un po’ quel tanto che bastò alla corrente per trascinarla a poppavia della nave prima che anche questa grande porzione del Thistelgorm affondasse e, come la sua nave, si ponesse in un quasi perfetto assetto. Dentro non c’era proprio niente di niente, tantomeno i pavimenti di almeno due ponti ma la gioia fu grande.
Il comandante Cousteau aveva molto probabilmente trovato per prima cosa questo pezzo di nave e solo un bel po’ più avanti quella meraviglia di relitto con tutta la sua storia nelle stive. Unica differenza tra noi e lui: lui non aveva nessuno che gli diceva “fuochino”.
Ci lasciammo trascinar via dalla corrente e in deco lanciammo il nostro rosso pedagnetto, se non quelli della Lady Crissy l’avrebbero visto ben più di una barca che si avvicinava al relitto. Non eravamo per nulla preoccupati e messa fuori la testa trovammo proprio la Lady Crissy vicino a noi. Walter un po’ arrabbiato per la preoccupazione e Tarek come al solito sorridente che aveva detto a tutti, ovviamente, che forse il “padrone di casa” ci aveva fatti scappare. La notizia fu presa da tutti come un sollievo e confesso che oltre alle mie vidi parecchie lacrime sulle facce di quei bravi bravissimi compagni d’immersione.
Finimmo a Jolanda verso sera e ne facemmo una davvero indimenticabile tra cessi tubi e piastrelle, arrivati in porto io e Vittorio andammo di corsa a comunicare in capitaneria le esatte coordinate del “resto” così lo chiamammo; ORO BLU era un’altra cosa, era tutto quello che avevamo visto prima, quella si è stata una meraviglia.
Le do anche a voi le coordinate così se vi verrà voglia potrete chiedere alle guide di portarvi a vedere IL RESTO, 27 48 720 nord e ……niente, ci ho ripensato andatevelo un po’ a cercare và…
Ogni riferimento a cose o persone o fatti è assolutamente vero, solo il racconto è frutto della mia pura immaginazione.
Dedicato al mio amico Walter Mariani, grande uomo e splendido subacqueo che ha lasciato la vita nelle acque del lago di Garda il 23 ottobre 2010.
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