Un’intervista di Chiara Belli al nostro collaboratore Andrea Murdock Alpini
Ricordate quei cilindri di cartone dove si appoggia l’occhio e una volta puntati verso il Sole si creano mille diverse immagini? I pezzetti di vetro colorati al loro interno, grazie a una serie di specchi, man mano che si ruota il cilindro, ridanno figure geometriche cangianti talvolta sinuose talvolta spigolose.
Andrea Murdock Alpini, subacqueo, fondatore di Phy Diving Equipment e istruttore tecnico con un curriculum di tutto rispetto, ormai ben conosciuto nella comunità delle meraviglie sommerse, è così, come una di quelle figure, cangiante a seconda di cosa gli chiedi o di quello che ti racconta.
Rifiuta le etichette che definiscono esattamente una funzione, infatti non gli piace essere definito unicamente come “storico” o come “esploratore” ma nemmeno solo “scrittore” o “giornalista”: Andrea è tutto questo e molto di più.
Pronti a iniziare il viaggio? Puntate il caleidoscopio verso la luce e cominciate a scoprirne le geometrie.
Andrea, dimmi tre aggettivi che ti descrivono.
Riflessivo, solitario, creativo.
La riflessione è importante per le decisioni giuste da prendere sia sul lavoro che con le persone. Sul lavoro, viste le immersioni cui mi dedico, una riflessione accurata comporta una programmazione accurata, studiata nei dettagli. Mi piace prepararmi leggendo e studiando il luogo che visiterò per poi avere uno sguardo d’insieme sul cosa e sul come, oltre che sul dove sarò io. La preparazione dell’immersione dal punto di vista logistico e tecnico deve essere al pari della conoscenza della storia e degli eventi o dell’ambiente in cui mi immergerò.
Riflettendo in maniera a me più congeniale trovo che sia la necessità di conciliare la solitudine interiore con l’ambiente esterno che mi spinge a scrivere quel che provo mentre lo faccio. Saper stare da soli, saper gestire le proprie emozioni aiuta molto anche a stare meglio in mezzo alla folla. Riflessione e solitudine sono due degli elementi che in maniera del tutto naturale contribuiscono alla mia creatività.
La creatività a cui mi riferisco non è l’invenzione o la visione, quanto più la capacità di unire i differenti aspetti del mio essere e del mio fare, in ciascun progetto: creatività progettuale così la definirei, che non è affatto da confondersi con l’immaginare cose irrealizzabili.
Ogni mio progetto ha uno scopo ben preciso, soprattutto non dimentico mai la mia prima finalità: “portare” qualcosa ad altri per condividerne una storia, un’emozione.
E proprio di creatività si tratta quando parliamo di PHY Diving: raccontami di questa tua ulteriore avventura.
PHY Diving è il mio brand di subacquea tecnica. L’idea nasce come progetto per lo sviluppo di nuove tecnologie subacquee. Attingendo dalle necessità che si manifestano durante spedizioni e avventure subacquee. Ho voluto raccogliere il testimone per affrontare in modo diverso tutti gli aspetti tecnici e logistici di un’immersione o di un’esplorazione.
PHY Diving è un luogo dove si studiano nuovi materiali e tecnologie per la subacquea, possono essere materiali meno ingombranti o voluminosi, più durevoli o facilmente trasportabili. Particolare attenzione la dedichiamo sempre al confort termico e alla praticità di trasporto. Studiamo delle attrezzature o dell’abbigliamento tecnico che sia confortevole, leggero e in grado di avere ottime prestazioni nell’isolamento dal freddo.
Lo scopo di PHY Diving è anche quello di lavorare al 100% con il Made in Italy: tutta la filiera produttiva è in Italia, e quando necessario importiamo le materie prime dall’estero sempre di prima qualità, ma riprogettate e lavorate solamente sul nostro territorio.
Andrea Murdock Alpini, Cosa consigli a chi volesse intraprendere la subacquea?
Prima di un consiglio porrei una domanda: perché vuoi andare lì?
L’importante è porsi la domanda e capire se la risposta sia giustificata, poco conta che la motivazione sia la curiosità del neofita di vedere sotto cosa c’è sotto la superficie o lo spirito del sommozzatore tecnico che cerca qualcosa di ancora a lui inesplorato. La domanda è l’incipit da qui parte il percorso, breve o lungo che sia, la risposta è il percorso che conduce un subacqueo a conoscersi attraverso le tecniche che farà proprie o agli ambienti che visiterà.
“Condividere una storia”, questa tua caratteristica la conosce bene chi ti segue sui canali social e legge i tuoi scritti: parlami del tuo libro Deep Blue. Hai messo molto della tua riflessività e creatività in queste pagine, mi ha colpito una frase che hai scritto: “Conoscere sé stessi è davvero difficile, ma è la più grande ricchezza che si possa avere: una cima decompressiva, a volte, può essere un’eccellente chiave interpretativa.”
La subacquea oltre al divertimento e alla scoperta, per me è uno “strumento” per conoscere meglio sé stessi attraverso un ambiente o un relitto, una grotta, una miniera o attraverso il rapporto che si instaura con compagni di avventura. La subacquea è un aggregatore di differenti aspetti quali la storia di eventi e di uomini, l’esplorazione, la natura, la letteratura, la tecnica.
Quando mi immergo su relitto penso sempre che il tempo trascorso lungo la cima decompressiva rappresenti l’acme, il momento più intimo in cui si è davvero con sé stessi mentre si deve rispettare la pianificazione decompressiva, sempre con una componetene di fervida “logica creatività”.
In quelle ore si è soli con sé stessi avvolti in una sorta di “vuoto” ricolmo di tutti gli elementi che lo rendono unicamente denso come fosse uno spazio vuoto. Bisogna ricercare l’equilibrio ponderando tutti i vari stati d’animo che in quel mentre ti attraversano. Se si traspone tutto ciò nelle situazioni della vita reale, possiamo definirlo come una pratica quasi ascetica di compiere delle scelte, farle proprie e capirne i punti di forza e debolezza.
C’è un’altra tua frase che ha lasciato il segno in me, e credo anche in tanti altri che come me sono appassionati di relitti: “Gli incontri che pensi impossibili, con una donna o con un amico o un relitto a volte ti stravolgono”. Perché impossibili? E in che cosa ti hanno stravolto?
Le mie parole si rifanno al pensiero di Robert Somol, teorico dell’architettura che ho tanto amato durante gli anni universitari, che dice: “La macchina da cucire e l’ombrello possono incontrarsi e produrre un effetto specifico e intenzionale.”
Ovvero esiste la possibilità che due elementi, che apparentemente tra loro non hanno nulla in comune, possano incontrarsi e scatenare un incidente “creativo”, originatore di una nuova realtà dai risultati inaspettati. Dipanare e dare un senso a questa matassa è nostro compito, con il tempo e la conoscenza riusciamo a sciogliere i nodi e tutto si fa più chiaro. È come la differenza di tempo che separa l’impatto con una persona con la sua conoscenza, lo stesso avviene quando ti imbatti con un relitto, non è detto che tu lo comprenda. Così decidi di tornare e rimmergendoti capisci che da quel primo incontro qualcosa è cambiato.
Fondamentale nei questi rapporti umani o con i luoghi è la consapevolezza, bisogna ammettere di non capire per poter procedere e comprendere. Lasciandosi sorprendere, a cuore e mente aperta, talvolta si trova finalmente la chiave interpretativa di ciò che si sta cercando, allora si entra in una nuova dimensione, è come attraversare lo Stargate, ti porta al di là.
Come lo dichiari il tuo amore a un relitto?
Ti rispondo invertendo il concetto: è il relitto che si dichiara a me. Un relitto lo conosci man mano, immersione dopo immersione, prima una parte poi l’altra, ma è sempre lui che ti accoglie e si lascia esplorare. Mi piace pensarla un po’ come gli alpinisti quando, di fronte a una vetta non raggiunta, riconoscono che sia stata la montagna a non volerli perché non vi erano le condizioni adatte. Il relitto sviluppa con il suo avventore un rapporto simile: è lui che guida la relazione e ti impone di non andare oltre, di sviluppare un pensiero laterale o di lasciare la maestra.
Io torno su un relitto perché voglio conoscermi di più e voglio far conoscere la sua storia a chi resta in superficie. Non è una mera questione di orgoglio personale o il raggiungimento di un risultato fine a sé stesso. È lo spirito di conoscenza che mi muove.
Mi viene quasi naturale allora chiederti: quale relitto ti ha causato le maggiori “pene d’amore”? Perché?
Più di una volta mi è capitato di programmare immersioni avanzate dentro i relitti e poi di spingermi ancora un po’ oltre. Qualche volta mi sono incastrato, e sembra strano ma per tornare indietro dovevo comunque andare avanti. Forse alla fine non ho trovato quello che cercavo quindi un po’ di delusione c’è stata, lo ammetto, ma se non mi fossi spinto fino a quel punto non l’avrei mai saputo.
C’è un relitto che potresti definire il tuo colpo di fulmine?
L’HMSH Britannic.
Impossibile non subire il fascino di questa strepitosa nave, che è anche un relitto. Di questo transatlantico mi ha emozionato fortemente la sua storia: la sua conversione da lussuosa nave di classe olimpica a nave ospedale. È ancora viva in me l’eccitazione di quando ho visto l’elegante linea curva dello specchio di poppa con al di sotto le tre enormi eliche. L’impatto motivo più bello e indelebile che abbia mai avuto sotto la superficie del mare. Due giorni dopo mi sono immerso a prua e qui i miei occhi sono stati colmati dalla bellezza inaudita delle possenti marre dell’ancora che fuoriesce dolcemente dall’occhio di cubia, sulla murata di sinistra.
Tuttavia non posso non dimenticare le forti emozioni che ho provato quando, un sei mesi più tardi mi sono immerso sul relitto della Motonave Viminale, conosciuta come il Titanic italiano. Un transatlantico dalla bellissima manifattura che ha stile e classe unica. Vedere la Viminale sott’acqua ti fa capire quanto fosse veramente imponente mentre ancora navigava, e se l’HMHS Britannic porta con sé il riflesso della sua gemella (l’RMS Titanic), il relitto della Motonave Viminale è davvero il simbolo de “Il sogno italiano” come mi piace definirla, un Titanic tutto nostrano.
Ma non di soli relitti “vive” il subacqueo Murdock, vero? Ho di recente letto le tue imprese in grotta nella verde Slovenia e nella nera miniera germanica. Vuoi raccontarmi qualcosa?
Ho intrapreso l’avventura verso le grotte in Slovenia nel giugno 2020, appena si è potuto tornare a muoversi. È stata soprattutto una voglia di ritrovare armonia attraverso immersioni avanzate in solitaria. Ho scelto luoghi selvaggi e incontaminati e semplici, in cui vorrei tornare insieme ad amici per condividere nuovamente quelle emozioni e per poterle raccontare di nuovo, ma in modo diverso.
Durante l’estate scorsa sono poi partito all’avventura, on the road, per dedicarmi alla documentazione della miniera di Felicitas, nel Nord della Germania. Ho condiviso l’esperienza insieme ad un mio allievo che vive a Francoforte ma anche con un amico subacqueo che come si suole dire ha davvero “pelo sullo stomaco”. La mia idea di raccontare la Miniera in quel modo nasce dalla volontà di voler tramandare la storia di uomini che hanno picconato la roccia, lavorato al buio, sofferto la fatica tra un sorso di gin e l’altro, volevo dare un senso sociale a quei luoghi costruiti dall’uomo e dimenticati dall’uomo. Esplorarla per tutta la sua estensione trasversale (oltre 1,3km) mi ha dato al possibilità di approfondire anche la parte delle tecniche di progressione, pianificare immersioni nel senso più puro del concetto, aprire una fessura nella tenebra per tornare alla luce.
Cosa c’è nel futuro di Andrea Murdock Alpini?
Restano in cantiere immersioni e avventure nel Nord Europa e oltre Oceano, ma data la situazione attuale che persiste da un anno e ne durerà almeno un altro, ho deciso di rimandarle. Quindi, al momento, ho in programma progetti di prossimità. Voglio valorizzare il territorio.
Tornerò sulla Viminale, e non solo per una questione affettiva. Voglio conoscerla ancora meglio e poterla raccontare ancora in modo che emerga un nuovo modo di immergersi.
Voglio scrivere nuove pagine con storie di grotte e miniere per dare risalto alla componente umana e sociale, bisogna ripensare ai luoghi di prossimità come elementi fondanti del territorio che necessitano un nuovo ruolo, trasformarli da luoghi dimenticati in elementi di valore, così che possano lasciare una traccia nel futuro.
Voglio raccontare storie che vadano sempre un po’ più in là della mera immersione fine a sé stessa.
Non solo profondità, quindi, ma tutte le sfumature possibili della creatività, proprio come le immagini di un caleidoscopio.
Fotografie di Andrea Murdock Alpini