Autore: PierLuigi Da Rolt
Considerazioni “didattiche”
Cos’è la didattica? Cosa sono i corsi?
In tutti gli ambiti queste due cose altro non sono che il sistema più sbrigativo per accedere ed imparare le esperienze di altri.
E nel mondo subacqueo?
In questo splendido e variegato ambiente forse ancor di più che in altre realtà, il fattore didattico è sentito, rispettato e contestato. Certamente c’è una spiegazione in questo rapporto di amore/odio che i subacquei hanno nei confronti della didattica in generale. La spiegazione sta nel fatto che la subacquea, come molte altre attività, è come una scalinata tutta in salita, ci si può fermare su ogni scalino senza voler ulteriormente progredire nella “scalata”, come si può avanzare, salire ancora ed ancora. Insomma la subacquea è un’attività in continua evoluzione e, per chi ha voglia di imparare, una miniera inesauribile.
Ecco chiarito, forse, il perché i corsi sono differenziati e proposti a vari livelli di addestramento.
Certo, esiste il subacqueo che sfrutta il proprio brevetto solamente una volta all’anno, durante le vacanze estive, sicuramente, per costui, la progressione didattica e l’imparare tecniche più raffinate d’immersione non avrà senso. Ma esiste un’ampia percentuale di membri della comunità subacquea cha aspira ad un continuo miglioramento ed all’accrescimento della conoscenza.
Agli inizi.
Agli inizi erano le didattiche cosiddette federali. Italianissime, durissime, sia come programmi formativi che come durata dei corsi, attività dunque da “veri uomini”. Non era raro all’epoca, iniziare un corso in un gruppo di allievi molto nutrito e terminarlo in “quattro gatti”. La cosa era selettiva già a bordo vasca, non vi era spazio per coloro che prendevano la cosa alla leggera, l’impegno era costante e continuo. Per non parlare poi delle lezioni di teoria, non esistevano supporti didattici, i poveri allievi dovevano cercare di capire le nozioni di fisica con poche formule scritte ad una lavagna da poveri istruttori che facevano del loro meglio per farsi comprendere.
Poi esisteva una grande lacuna, almeno nella federale con la quale lo scrivente ha iniziato la sua attività di “bombolaro” ufficialmente: l’addestramento alle immersioni vere e proprie, cioè quelle svolte al di fuori del bacino delimitato.
Dagli scritti del grande maestro Duilio Marcante, se si legge tra le righe, si capisce la filosofia di quegli anni: io ti insegno come fare, ma poi, per l’esperienza ed il provarlo in immersione, ti arrangi.
Certo non era il massimo, ma i subacquei usciti da quella scuola erano senza dubbio ottimi subacquei e, soprattutto, gente che sapeva cavarsela quasi in ogni situazione.
Ma qual era in rischio vero e proprio di quel sistema? Semplice, trovarsi, a termine corsi e senza la minima esperienza di immersioni, ad immergersi in laghi e luoghi alquanto difficile, a quote proibitive (allora nessun limite di profondità era imposto). Spesso veniva violata la quota massima che oggi è universalmente riconosciuta per le immersioni sportive, i fatidici quaranta metri ed i “fuori curva” si sprecavano, rispettando le tappe decompressive dettate dalle obsolete tabelle della US NAVY, le uniche disponibili a quel tempo.
Il ricordo di una prima immersione in una delle più famose grotte del nord Italia, dove, a meno quaranta metri, su un terrazzino che delimitava la condotta che scendeva ad oltre cento metri, chi scrive venne lasciato solo dai due compagni che scesero a fare la loro “punta esplorativa” ogni tanto compare ancora nei sogni. Alle proteste di fine immersione, il commento degli “esperti” fu: “ma non hai il brevetto? Allora sei un sommozzatore a queste cose dovrai abituarti”.
Con l’andare del tempo questo sistema volle le sue vittime e, purtroppo, ce ne furono molte.
E poi?
E poi arrivarono gli Americani. Anche nella vecchia Europa approdarono le grandi didattiche cosiddette “commerciali”. Criticate, fortemente criticate dai federali, era inevitabile, essi non erano più i sacri portatori del verbo, avevano perso il monopolio.
Era impensabile, allora, che un istruttore percepisse denaro per svolgere la sua attività, era scandaloso che un corso si potesse svolgere con cinque o sei lezioni in piscina e che poi l’allievo fosse portato in mare a fare immersioni “vere”. E il nuoto subacqueo a rana? E la preparazione atletica? E le apnee? Dove finivano questi sacri capisaldi della subacquea?
Semplice venivano accantonati, l’allievo fin dalla prima lezione in bacino delimitato veniva dotato si SCUBA e la gestione di quello doveva imparare, com’era giusto che fosse.
Effettivamente le didattiche d’oltre oceano, dettero una svolta decisiva all’addestramento subacqueo. In primis la PADI introdusse un sistema di addestramento estremamente semplificato, sia per allievi che per istruttori, al quale potevano accedere tutti, indistintamente.
Fu un bene, il popolo dei sub crebbe numericamente, le aziende del settore prolificarono e si vide la nascita di nuove ditte. Anche la tecnologia ne trasse apporto, vennero studiati nuovi materiali, fecero la loro comparsa prodotti più evoluti ed affidabili. Il mercato subacqueo si espanse e creò ricchezza e lavoro. Non solo, anche i diving nacquero come i funghi, nuove figure professionali si affacciarono alla ribalta, i subacquei “professionisti” non erano più i soli commerciali, esistevano gli istruttori e le guide.
In poche parole l’avvento delle nuove didattiche portò dei benefici a tutti.
Il rovescio della medaglia.
Si sa che, al giorno d’oggi, le distanze si sono accorciate. Prendere un aereo e volare in luoghi lontani nella nostra era è la cosa più facile del mondo.
Questo a fatto sì che sia avvenuta una vera e propria esplosione di centri di immersioni in luoghi di villeggiatura lontani ed esotici, che danno la possibilità di immergersi nei mari più belli e pieni di vita del mondo.
Quasi tutti i diving sorgono in località turistiche importanti e l’indotto dei loro corsi è costituito, per la quasi totalità, dai “vacanzieri”.
Ed ecco il guaio.
In quei posti, incredibilmente belli ed esotici, le vacanze solitamente durano poco. I tour operator offrono pacchetti “tutto incluso” di 6 o 7 giorni. Come fare quindi a conciliare una vacanza, la voglia di riposarsi e vedere il mondo, con un corso subacqueo? Semplice, basta adattare il corso subacqueo.
Ecco quindi la nascita dei corsi “tropicali” così definiti da chi scrive?
La legge del “tutto e subito” quindi fa la sua comparsa anche nel mondo della didattica subacquea. Lezioni di teoria fatiscenti, una o due ore in piscina (non me ne vogliano gli istruttori “tropicali” ma non conosco bene gli standard dei loro corsi, quindi, probabilmente, i numeri non corrispondono a quanto effettivamente applicato) e poi via in acqua ad ammirare i fondali pieni di vita e di colori, incantati da questo mondo che, finalmente, ha aperto il proprio sipario.
E’ un male tutto questo? Forse no, forse ha il vantaggio di aver avvicinato all’attività subacquea milioni di persone, forse ha il vantaggio di aver mostrato e svelato il mondo sommerso ad una miriade di gente che probabilmente mai avrebbero pensato di avvicinarsi all’immersione.
Ma…… purtroppo c’è un ma, il ma è dato dalla mente dell’uomo. Senza cadere in discorsi prettamente filosofici, è proprio il neo brevettato che crea i problemi. Il brevetto “tropicale”, almeno per convinzione del sottoscritto, deve rimanere fine a se stesso o, perlomeno, essere utilizzato negli stessi ambienti e con le stesse caratteristiche di immersione nei quali è stato conseguito.
Ma purtroppo la certificazione abilita, cioè riconosce un certo addestramento del subacqueo, ma lo fa solo con limiti di quota, non con ambiente e condizioni di immersione.
E qui entra il ballo la mente umana. I brevettati “tropicali” a questo punto posso essere divisi in due categorie:
coloro che credono che il loro addestramento vacanziero abbia dato i suoi frutti anche per immersioni in ambienti sicuramente più austeri che non quelli frequentati, che credono di aver acquisito tutte le tecniche per svolgere delle immersioni godibili e sicure in qualsiasi condizione;
coloro invece che, molto spesso ad onor del vero su consiglio del proprio istruttore “vacanziero”, una volta arrivati in patria contattano un istruttore per completare il proprio addestramento e potersi ritenere quindi dei subacquei “fatti”.
A giudizio dello scrivente, come può essere intuibile, questi ultimi hanno compreso appieno lo spirito con il quale è stato rilasciato il brevetto “tropicale”, una semplice conoscenza superficiale, corredata da delle splendide immersioni magari accompagnati per manina, alla scoperta di un mondo meraviglioso ed affascinante.
Ma un subacqueo per ritenersi completo, deve essere in grado di svolgere la propria attività, naturalmente nei limiti del proprio brevetto, in qualsiasi ambiente e, soprattutto, in modo autonomo.
Filosofie.
E per concludere come non affrontare un argomento così in auge?
Le filosofie subacquee, quanto se ne parla e se ne discute ormai in ogni luogo.
La più discussa? Forse la più amata ed odiata? Sicuramente DIR con i suoi sistemi integralisti e totalitari.
Non è intenzione dello scrivente aprire una diatriba su DIR si o DIR no, ma le “filosofie” subacquee non esistono solo ed esclusivamente su DIR.
Per filosofia subacquea si può benissimo intendere: la configurazione octopus, perché si e perché no, computer subacqueo perché si e perché no, l’utilizzo di vari assetti in immersione, i vari e complessi sistemi decompressivi e tanto altro ancora.
Quindi tutto può essere considerato filosofia ed ogni didattica ha la propria.
Ogni allievo imparerà ciò che gli è stato insegnato, compresa la filosofia didattica, ma una cosa assolutamente non potrà acquisire forse mai dai semplici sistemi didattici: la mentalità da subacqueo.
Questa forma mentis la imparerà con la propria esperienza e, soprattutto, con la guida di un buon istruttore. Creare un bravo subacqueo, completo, attento alla sicurezza, competente e autonomo, questa è la vera “opera d’arte” di un buon istruttore.
Belluno 1 aprile 2006.
PierLuigi Da Rolt. (Old Shark)
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