Autore: PierLuigi Da Rolt
C’erano una volta il profondimetro, l’orologio e le tabelle.
Un tempo, ad onor del vero nemmeno tanti anni fa, gli unici strumenti con i quali era possibile programmare e gestire le immersioni erano il profondimetro, l’orologio e le tabelle di decompressione. I subacquei, con questo sistema, effettuavano immersioni dal profilo rigidamente quadro ed erano costretti a rispettare scrupolosamente tempi e profondità, il momento dello stacco dal fondo coincideva inesorabilmente con quello di inizio della risalita e la possibilità di soffermarsi ad osservare qualcosa sul fondo aumentando pertanto il tempo di permanenza, o durante la fase appunto di risalita, non era assolutamente contemplata nei canoni delle immersioni di allora.
Ecco quindi, che un’azienda, la SOS, immise sul mercato uno strumento in grado di fornire al subacqueo, in tempo reale e cioè durante il corso dell’immersione, dei dati relativi alla saturazione dei tessuti ed a eventuali tappe di decompressione da rispettare.
Il decompressimetro, così venne chiamato, funzionava con un sistema relativamente semplice: al suo interno si trovava una bolla contenente aria, questa era poi divisa in due compartimenti da una membrana permeabile all’azoto, una delle due sezioni era sensibile alla pressione ambiente, mentre l’altra era isolata.
All’aumentare della profondità e quindi al conseguente innalzamento della pressione ambiente, l’azoto attraversava la membrana trasferendosi nel compartimento isolato, occupandone il volume e quindi aumentandone la pressione interna. Ovviamente lo stesso processo si verificava inversamente durante la risalita.
Le variazioni pressorie che si creavano all’interno del compartimento isolato, andavano a sollecitare un congegno meccanico che, o attraverso una lancetta o delle piccole barre, dava al subacqueo le indicazioni relative alle eventuali tappe di decompressione.
Come si può intuire, il passaggio dell’azoto nella membrana altro non era che una simulazione di assorbimento in un tessuto dell’organismo umano.
I decompressimetri venivano prodotti in vari modelli, ma tutti erano di facile e intuitiva lettura.
I più semplici prevedevano un quadrante con una lancetta. Il quadrante era diviso in zone ben delimitate relative ognuna ad una quota di decompressione, tre metri, sei metri, nove metri e dodici metri. Quando la lancetta entrava ad esempio nella zona dei tre metri, significava che quella quota era il tetto dell’immersione, che il subacqueo era fuori curva di sicurezza e che avrebbe dovuto sostare, appunto a tre metri. Una volta giunto alla quota decompressiva, l’ago iniziava a spostarsi lentamente verso la zona zero, il subacqueo doveva attendere che l’ago la raggiungesse, quello era il via libera per accedere alla superficie.
Esistevano poi i decompressimetri cosiddetti “a barre” nei quali lo stato di saturazione e le conseguenti eventuali tappe di decompressione, venivano indicate da delle barre molto simili a quelle visualizzate nella grafica di certi computer odierni.
Questo sistema simulava naturalmente un unico tessuto ed era ritenuto ovviamente e giustamente, poco affidabile.
Comparvero allora dei decompressimetri che prevedevano la simulazione di quattro tessuti, per ognuno di essi vi era un membrana, che, ovviamente, variava di consistenza per rallentare il passaggio dell’azoto. Questo tipo di strumenti erano del tipo “a barre” e ne prevedeva appunto quattro, una per ogni tessuto simulato. Erano grossi e ingombranti ed ebbero poco successo.
Purtroppo i decompressimetri dimostrarono tutti i loro limiti e le vittime di MDD tra i loro utilizzatori furono parecchie, ma ciò non toglie che furono i primi veri e funzionanti tentativi di gestione in tempo reale dell’immersione così come la si intende oggi.
Successivamente i ritmi dello sviluppo nel settore elettronico divennero incalzanti, le aziende erano ormai lanciate nella ricerca di strumenti piccoli e che potessero dare informazioni più precise sul profilo di ogni immersione e fu nel 1984 che due italiani, Francesco Di Pisa e Mario Giuseppe Leonardi, studiarono e crearono uno dei
primi computer subacquei, una vera evoluzione per quegli anni.
La loro macchina era in grado di monitorare, oltre al profilo di immersione, anche i consumi di gas del subacqueo ed era in grado di riportare tutti i dati su personal computer, un sistema progenico delle moderne interfacce.
Insomma un vero precursore di quei fantastici strumenti che la moderna tecnologia mette a disposizione dei subacquei.
Il resto è storia dei giorni nostri. Macchine sempre più sofisticate e sempre più piccole, che riescono a gestire immersioni con gas diversi dall’aria atmosferica, o addirittura che rendono possibile il calcolo in tempo reale, in immersioni per le quali vengono usati più tipi di gas.
I moderni computer insomma, sono macchine meravigliose, che racchiudono nei loro software tutte le più recenti scoperte della fisiologia dell’immersione e che rendono l’attività subacquea ancora più sicura e facile.
Alcuni dei recenti computer presentati:
Suunto DX
Scubapro Galileo Luna
E’ assolutamente vietata la riproduzione, anche parziale, del testo e delle foto presenti in questo articolo, senza il consenso dell’autore.