Prima puntata
La valigia contiene magliette, costumi e una felpa leggera. Le basse latitudini, si sa, evocano sole e calore e due settimane di piogge intense quotidiane, cielo grigio e sprazzi di sole solo fugaci deluderebbero le aspettative di ogni turista. Invece l’esplorazione dei relitti dell’atollo di Chuuk equivale alla visita di un museo e di un cimitero di guerra e, dopo i primi giorni di aspettative meteorologiche inattese, siamo stati carpiti dalla storia dell’atollo nella II Guerra Mondiale e siamo entrati in sintonia con l’ambiente e con il clima, tollerando anche fradice navigazioni sotto tormente tropicali. Solo gli squarci di sereno della sera ci hanno regalato tramonti dai cieli incandescenti gialli, rosa e rosso infuocato (Fig. 1).
Chuuk (che significa montagna) è l’antico nome che riprese l’atollo di Truk (così nominato dai giapponesi negli anni ‘20) al momento della costituzione della Federazione di Stati della Micronesia.
L’atollo è noto tra i subacquei come uno dei siti più famosi al mondo per l’esplorazione di relitti. Durante la II Guerra Mondiale, Truk era la più importante base giapponese dopo il Giappone stesso, un avamposto nel Pacifico, del cui controllo rappresentava un punto strategicamente cruciale. Costituiva inoltre un punto di raccordo con le zone del Southern Resources Area (alcune isole del Pacifico del sud), assegnate all’Impero giapponese dalla Società delle Nazioni alla fine della Prima Guerra Mondiale, fondamentali per l’approvvigionamento di materie prime. Per gli americani Truk era quindi un obiettivo essenziale di conquista e la ragione per cui fu organizzata una formidabile azione di guerra, passata alla storia con il nome di Operazione Hailstone, in cui le isole della laguna furono bombardate per due giorni da un’imponente flotta di 500 aerei decollati da cinque portaerei della 58° Task Force, che includeva anche sette corazzate, sottomarini e altre navi.
Al sorvolo di un B24 Liberator americano erano seguite due settimane di calma, che erano bastate ai giapponesi per ritenersi sicuri di non subire alcun attacco e che li avevano fatti trovare del tutto impreparati al bombardamento aereo iniziato all’alba del 7 febbraio 1944.
Il bombardamento fu condotto con una strategia precisa, in modo da colpire prima la flotta aerea, che si era alzata precipitosamente e inutilmente in volo, poi le piste di decollo, i cantieri navali e le postazioni di comunicazione a terra e infine il maggior numero di navi ancorate nelle acque dell’atollo. Furono distrutte oltre 50 navi a fronte di modeste perdite americane. Gli aerei americani colpiti riuscirono infatti a portarsi oltre la barriera corallina e i piloti a essere salvati dai loro connazionali.
Finito il bombardamento, l’atollo fu abbandonato; abitanti chuukesi e giapponesi superstiti restarono senza vettovagliamenti per un anno e molti morirono di fame. L’ostilità già esistente tra le due popolazioni, tra cui pur esistono strette parentele, radicatasi negli anni di dominazione giapponese, si rinforzò in quel periodo, anche perché i giapponesi, ancora armati dopo l’Operazione Hailstone, si impadronivano dello scarso cibo coltivato dagli oriundi.
La gente di queste isole, taciturna, riservata, gentile con i turisti, ha pelle scura, corporatura tozza, tratti del viso orientaleggianti, ma alquanto diversi tra loro. Tutti hanno occhi a mandorla; qualcuno ricorda i personaggi di Gauguin, altri quelli dei fumetti giapponesi in virtù dell’acconciatura dei capelli raccolti in uno chignon alla sommità del capo. La comunità locale è unita dall’identità culturale, che si esprime nella lingua, un idioma diverso da quelli parlati nelle altre isole del Pacifico, e deriva dalla storia dell’atollo, dominio prima delle Indie orientali spagnole, poi dell’Impero coloniale tedesco e infine dell’Impero giapponese.
Queste isole, localizzate in mezzo al Pacifico (7° 27′ 14 di latitudine nord, 151° 48′ 18 di longitudine est), apparentemente prive di interesse per il mondo, in realtà, oltre a rappresentare un paradiso per i subacquei e una risorsa importante per i chuukesi, rivestono un forte valore simbolico per i giapponesi come lutto di guerra e riposo eterno per 4000 di loro e per gli americani come sito storico della campagna del Pacifico e rivalsa verso l’attacco di Pearl Harbor. L’Operazione Hailstone fu più distruttiva dell’attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, dove i giapponesi avevano lanciato 350 aerei che avevano affondato 21 navi e ucciso 2500 soldati americani.
L’evento bellico svoltosi a Chuuk turbò fortemente l’ambiente marino sia per le esplosioni di bombe e siluri, sia per la liberazione nell’acqua degli elementi chimici degli inneschi e del carburante che è tuttora fonte di inquinamento per il persistente stillicidio (documentato nel 2007 dalla petroliera Hoyu Maru). Ma la natura, più forte, si è ripresa tutto: il corallo è cresciuto sui relitti, la fauna marina ha inglobato e avvinghiato le lamiere, sovvertendo l’aspetto delle navi, le micidiali armi, addobbate da coralli di tutti i colori, da gorgonie e da spugne, sono state ingentilite e rese quasi irriconoscibili, pesciolini colorati nuotano tra le lamiere e la catena alimentare continua il suo corso indifferente allo scenario di fondo e irriverente della tragedia avvenuta. Se da un lato l’esistenza dei relitti è protetta dalla ricrescita del corallo, dall’altro essa è precaria, minacciata dalla pesca con esplosivi che impedisce la crescita del corallo (come sulla Fugikawa Maru) e da onde e tempeste che, attraverso un più veloce scambio di ossigeno, favoriscono una maggiore ossidazione. Giapponesi, americani e Stati della Micronesia si stanno attivando per un’azione congiunta per evitare ulteriori danni all’ecosistema visto il carburante ancora contenuto nelle petroliere affondate (Sankisan Maru e Hoyo Maru) e per salvare un patrimonio storico importante e una risorsa vitale per un paese così povero come lo è Chuuk.
Carcasse di auto gettate lungo la riva del mare
Basta fare un giro per Weno, l’isola principale, per capire quanto siano arretrate le condizioni di vita degli abitanti. La spazzatura è sparsa ovunque ed esiste anche una notevole difficoltà di smaltimento delle automobili: le numerose carcasse vengono abbandonate sul bordo della strada spesso a ridosso di spiagge o a lambire l’acqua. I relitti moderni vengono così ad affiancarsi a quelli della II Guerra Mondiale in un desolante spettacolo di storia e degrado. Residui bellici si possono trovare lungo l’unica strada dell’isola: per lo più si tratta di bunker, la cui massiccia costruzione in cemento armato ha impedito il cedimento al tempo. Queste strutture tuttavia non hanno la solennità di reperti storici, perché sorgono tra misere casupole e rifiuti abbandonati, neglette da ogni circuito turistico e dai locali stessi. Un cannone isolato molto grosso (Fig. 3) che doveva avere una portata tale da difendere l’isola da attacchi dal mare, si trova accanto a un piccolo villaggio sul percorso che porta al vecchio faro giapponese, punto elevato da cui si apprezza la conformazione dell’atollo e la posizione centrale dei due principali insediamenti giapponesi: Weno, dove si trova anche il centro diving, e Tonoas, dove erano situate le più importanti strutture giapponesi.
Le altre isole dell’atollo sono ancora più povere e mancano di elettricità.
Data la grande povertà, sembra incredibile che possa essersi sviluppato un centro diving così organizzato ed efficiente, in grado di gestire fino a 80 subacquei al giorno.
Fu il ritrovamento dei relitti da parte di un nativo, Kimiuo Aisek, testimone oculare del bombardamento, a dare l’impulso a una tale macchina commerciale. Nel 1969 Cousteau fece alcune riprese (Lagoon of lost ships) divulgando la conoscenza della laguna; nel maggio 1976 un numero di National Geographic fu dedicato all’atollo e successivamente l’esplorazione metodica e la messa in sicurezza dei relitti lanciò l’industria subacquea. Il resort (Blue Lagoon) e il centro diving (Blue Lagoon Diving Center) sono le più grosse strutture turistiche dell’isola.
Le guide del diving, undici in tutto, non sono giovanissime, hanno grande competenza e sono molto attente alla sicurezza.
E’ spettacolare la loro capacità di individuare la posizione dei relitti basandosi unicamente su riferimenti a terra senza alcuna strumentazione elettronica. In mezzo al mare, giunti in prossimità del luogo in cui si trova un relitto, si rizzano in piedi a prua della barca e segnalano al conducente la direzione verso cui dirigersi. Quando scorgono il pedagno posto sott’acqua (non c’è infatti alcuna segnalazione in superficie) si tuffano tenendo in mano una cima che fanno passare intorno al pedagno sommerso e che riportano in superficie dove viene legata alla barca. Il tutto si svolge a una velocità sbalorditiva.
La nostra guida era Hanser, dolce, intelligente, veloce, riservato, in grado di capire al volo le necessità dei suoi clienti e le loro esigenze, compiacente in modo dignitoso. In acqua, sempre attento a valutare rischi e consumi, porta con sé una bombola di riserva (evidentemente è capitato che qualche subacqueo sia rimasto senz’aria). E’ un uomo tuttofare, in grado di riparare motori, attrezzatura subacquea e di rimediare a ogni problema. E’ riuscito perfino ad aprire sott’acqua la bombola di EAN50 di Attilio, di cui si era perduto il rubinetto, agendo con un moschettone e un elastico sul perno del rubinetto stesso (un vero professionista!).
Le oltre 50 navi affondate durante l’Operazione Hailstone erano soprattutto navi da carico e passeggeri, poiché le due grandi corazzate giapponesi presenti nell’atollo erano state rimosse poco tempo prima dell’attacco e spostate a Palau.
Le navi sono affondate a velocità diverse: alcune lentamente si sono adagiate sul fondo in posizione di navigazione (Kensho Maru, San Francisco Maru, Hoyo Maru): sono quelle in cui le strutture come argani e verricelli, cime ancora in tensione, catene di ancore e corrimano sono più facilmente riconoscibili. Altre si sono coricate su un fianco (Kiyozumi Maru, Heian Maru, Rio de Janeiro) e si nuota quindi lungo i ponti disposti verticalmente. Altre si sono capovolte del tutto come la Youbae Maru (= bel tramonto), la cui chiglia, ben distinguibile, sembra indicare una strada sott’acqua. Alcune sono state in parte distrutte e ne rimangono solo la prua o la poppa (Aikoku Maru). Altre hanno grandi squarci (Gosei Maru, Kiyozumi Maru), esiti dell’esplosione di una bomba o di un siluro. Qualcuna è collassata e non è più visitabile all’interno (Aikoku Maru, Hoki Maru).
Gli alberi si ergono maestosi dai relitti e talvolta arrivano così vicino alla superficie (Hoki Maru, Sankisan Maru) che, grazie alla luce intensa, sono stati colonizzati da una fauna vivace di gorgonie di molti colori, corallo di fuoco, alcionari, spugne tra cui si annidano pesci vetro. Le eliche spiccano contro lo sfondo blu del mare (Rio de Janeiro) oppure poggiano sul fondo del mare immerse parzialmente nella sabbia ed è mia convinzione che, comunque esse siano poste, porti fortuna toccarle e quindi sono sempre andata a cercare un contatto diretto con una pala (Fig. 7).
Le lamiere sono corrose e la ruggine rossa, che ricopre gran parte delle fiancate, in alcuni punti è particolarmente esposta e sembra costituire cibo dei pesci, che si dispongono perpendicolarmente -si direbbe- per mangiarla (Gosei Maru) e che invece probabilmente si nutrono di piccole formazioni di corallo cresciute tra le asperità della superficie.
I buchi che si aprono qua e là nelle lamiere permettono di stimarne lo spessore, che è talvolta sottile come cartavelina (Gosei Maru).
In altri punti i relitti sono stati ricoperti dalle formazioni coralline tanto che non si distingue più la forma della nave dalla roccia intorno con cui forma un continuum (Kiyozumi Maru).
Continua…
Testo di Cristiana Rollino
Fotografie di Attilio Eusebio e Cristiana Rollino