Autore: Cristian Magnani
IL PAGURO
Abito a poche centinaia di metri dal mare, non così vicino da vederlo però comunque abbastanza vicino da sentire la sirena del faro muggire in lontananza quando c’è nebbia ed abbastanza vicino da sentire nell’aria, l’odore del mare e delle alghe dopo le mareggiate, uscendo di casa. Se sei un subacqueo ti sembrerà una situazione invidiabile ma non lo è: non lo è perché il mio è un mare senza immersioni, o quasi.
Questo mare è l’alto Adriatico, un ininterrotto sabbione che ti obbliga a fare miglia e miglia prima di trovare un fondale sufficientemente profondo per immergersi e anche allora non c’è nulla da vedere. Non ci sono cigliate, sassi, tane.. niente, solo sabbia. Poi c’è il Paguro. il nome non gli rende giustizia: dovrebbe chiamarsi Rubis o Andrea Doria o Titanic, qualcosa di evocativo, qualcosa che renda l’idea dell’importanza e del fascino che il paguro ha avuto ed ha tuttora per chi abita in Romagna. Il Paguro è stato per quasi trent’anni l’unica immersione della zona, quella che ti permetteva di immergerti vicino a casa evitando le lunghe trasferte alle Tremiti o all’Argentario. Quando ero bambino sentivo i grandi dire “andiamo al paguro” e mi immaginavo questi semidei che si immergevano a profondità abissali tra i resti, infestati di di murene e squali, di un galeone perduto sul fondo del mare. Poi sono cresciuto e dopo qualche peripezia ho capito quale era la mia strada e sono tornato alla subacquea…. ed al paguro.
La prima volta che ci sono stato è stata indimenticabile. Era settembre e l’acqua aveva già quel colore autunnale che il sole non riesce più a scaldare, verde scuro e torbida, parecchio torbida. Non era molto invitante. Poi mi sono tuffato: passati i primi metri l’acqua diventava più limpida e lasciava filtrare una luce ovattata. La visibilità era scarsa, sufficiente a vedere le strutture arrugginite e contorte ma non tanto da farsi un’idea d’insieme. Era quello il paguro, e mi piaceva.
C’erano pesci ovunque, un sacco di pesci. Giravi attorno una paratia e vedevi branzini enormi, ti infilavi in una stanza e ti trovavi a tu per tu con un branco di corvine. C’erano orate, saraghi e boghe cosi fameliche che potevi prenderle a mani nude se le attiravi vicino offrendo loro una cozza schiacciata. Quella sera, tornando a casa, mi resi conto che il Paguro non era il galeone dei miei ricordi ma era un relitto affascinante e tutto da esplorare. Non vedevo l’ora di tornarci e cominciai a prenotare uscite su uscite, ma mi resi presto conto che basta poco perché l’immersione, programmata con cura e prenotata da tempo, salti. Il relitto è a 12 miglia da terra e basta una sciroccata sostenuta per alzare l’onda corta e rabbiosa dell’Adriatico. In questi casi è meglio rinunciare poiché anche il mezzo più veloce impiega quasi un’ora per raggiungere il relitto e trovarsi in balia del mare così fuori dalla costa non è salutare.
Maltempo a parte, l’immersione sul Paguro è adatta a tutti: la struttura sommersa si presta ad esplorazioni a più livelli, in base al proprio livello d’esperienza. Gli open possono esplorare la zona più alta del relitto, ricchissima di pesce stanziale, spingendosi fino alla stanza delle corvine e girellare sulla parte superiore degli alloggi e fra i tralicci più superficiali. I subacquei più esperti potranno esplorare le parti più basse, fino ai 33 metri del fondo nell’area dell’esplosione, anche se questa parte, ad essere sinceri, è quasi perennemente avvolta in una nube di sospensione. Ecco, la visibilità, croce ( e delizia) delle immersioni sul Paguro: quest’area risente degli apporti idrici del Po e spesso la visibilità non è delle migliori, tuttavia in alcuni periodi dell’anno, generalmente nel pieno dell’estate quando minore è l’immissione di acqua dolce, capita di trovare acque dalla limpidezza straordinaria. Ecco allora che il paguro cambia volto: nell’acqua azzurra e limpidissima si riesce a vedere il relitto nel suo insieme ed è un’esperienza davvero splendida.
Il Paguro è così, non si concede al primo appuntamento. Puoi rimanere deluso al primo approccio ma se avrai la costanza di tornare, questo posto saprà stupirti e regalarti incontri preziosi: branchi di corvine che nuotano placide in acqua libera, gronghi enormi che ti vengono incontro senza timore, astici mostruosi ( l’anno scorso, durante una notturna, ne ho visto uno lungo quasi 1 metro, ma non vi dico certo dove!), nudibranchi rarissimi e tanto, tantissimo pesce.
Una piattaforma self-elevating, simile al Paguro
UN PO’ DI STORIA
La piattaforma Paguro rappresenta la storia stessa delle perforazioni metanifere in Adriatico. L’AGIP, a causa degli alti costi di noleggio delle piattaforme, decise di produrne due in proprio, su licenza USA. le prime due piattaforme self-elevating, cioè in grado di spostarsi in verticale sulla loro stessa struttura, si chiamavano Perro Negro e Paguro. Quest’ultimo prese il mare da Porto Corsini nel 1963 e svolse il proprio compito fino al Settembre 1965 quando, durante la perforazione di un giacimento 12 miglia al largo della costa, la trivella intaccò un secondo giacimento ed il gas ad altissima pressione causò una tremenda esplosione, nella quale persero la vita 3 persone. La potenza della deflagrazione fu tale da scavare pozzo di 10 metri sul fondo marino, fondere parte delle strutture e proiettare in aria lingue di fuoco così alte che si potevano vedere, anche di giorno, dalla spiaggia di Cesenatico, ad oltre 12 miglia, così come mi ha raccontato un sub che nel 65 era solo un bambino. Il pozzo bruciò per tre mesi, finchè non si riuscì a cementare il condotto. Da allora il silenzio del mare lo ha avvolto, coprendolo di una vita brulicante, così ricca da meritare nel 95 l’istituzione della zona di tutela biologica.
Oggi l’area è gestita dall’Associazione Paguro di Ravenna ( http://www.associazionepaguro.org ) che ne regola le immersioni pubblicando, ogni anno , un calendario delle date prenotate dai diving e dalle associazioni della zona.
Ulteriori letture per chi volesse saperne di più
PAGURO, IMMAGINI DA UN RELITTO Ed. Calderini, Bologna
Sul relitto della piattaforma “Paguro” Ed. La Mandragora, Imola
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