Autori: Davide Corengia, Valeria Nava
Foto: Davide Corengia
Tutto cominciò con un messaggio letto sul forum di Poverosub. Sector, l’autore del topic, scriveva di essersi immerso sui resti di un comballo nell’alto Lario. Incuriosito, (i relitti sono la mia passione) ho cercato informazioni su questa particolare imbarcazione e più ne conoscevo i particolari e la storia più la voglia d’immergermi cresceva.
Il comballo era una barca di grandi dimensioni che veniva usata per il trasporto di merci sul lago. Poteva raggiungere fino i venticinque metri di lunghezza per cinque e mezzo di larghezza, con una portata di circa sessanta tonnellate. Possedeva uno scafo piatto, caratterizzato da linee filanti, fianchi rotondi e un grande slancio di prua e poppa. Il movimento avveniva grazie ad una grossa vela rettangolare e la rotta veniva mantenuta per mezzo di un enorme timone laterale posto a dritta.
L’imbarcazione protagonista della nostra immersione stava trasportando un carico di grosse pietre quando sfortunatamente incontrò una tempesta che la costrinse a cercare rifugio in uno specchio d’acqua riparato dai venti dietro la punta di Piona. Qualcosa tuttavia non andò per il verso giusto, probabilmente il carico si spostò improvvisamente sfondando il lato sinistro e permettendo all’acqua d’entrare, causandone l’affondamento in pochi minuti. Dei due uomini dell’equipaggio sembra che solo uno si salvò riuscendo a raggiungere la riva. Appare quasi una tragica coincidenza il fatto che l’incidente avvenne di fronte al celebre Monastero di Piona, costruito attorno al nucleo dell’Abbazia di San Nicolò, considerato il protettore dei naviganti.
Dopo questa ricerca d’informazioni finalmente il giorno dell’immersione. Ottenuti i permessi per entrare nell’area del Monastero con le auto per portare le attrezzature il più vicino possibile al punto d’ingresso, abbiamo subito organizzato un tuffo tra amici. Le condizioni erano ideali, un caldo pomeriggio d’inizio primavera ed il lago calmo ci avrebbero permesso una buona luminosità anche sul fondo.
Abbiamo iniziato la nostra discesa lentamente, seguendo la leggera pendenza del fondo; davanti a noi c’era solo un’enorme distesa di fango mentre qua e là le alghe creavano grosse macchie verde scuro. La profondità aumentava gradualmente fino a quando, raggiunti i ventisette metri, una zona pianeggiante indicava l’area dove iniziare a cercare. Ci guardavamo l’un l’altro come a chiederci: "…lo troveremo?”, quando un’ombra in lontananza ha attirato i nostri sguardi ed i fasci di luce delle nostre lampade.
Trovato! Il grosso timone si riconosceva perfettamente, ancora maestoso nonostante i decenni passati sott’acqua, alcune reti coprivano la poppa lasciandone però intravedere i contorni.
Poco più avanti una fila di pietre; il pesante carico era ancora lì, a formare una linea che collegava la poppa alla prua. Lo scafo era praticamente sommerso dal fango, solo alcune zone affioravano compreso ciò che resta dell’albero, che sembra sia stato spezzato di netto, forse addirittura dal vento durante la tempesta. Incredibile il fatto che il legno abbia resistito così a lungo, persino il colore e le venature erano ancora riconoscibili. L’assenza di pesci però rendeva l’atmosfera strana, come se noi fossimo di troppo… un’ultima occhiata e quindi ci siamo allontanati lasciando il comballo al suo riposo.
Siamo tornati così verso il punto d’uscita, la temperatura dell’acqua (6° gradi) cominciava a farsi sentire ed un ultimo pensiero ricordava quel tragico giorno, che sembrava quasi di aver rivissuto tra i resti del vecchio relitto.
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