Autore: Gigi Casati
La speleologia subacquea è un’attività che contempla l’esplorazione di cavità naturali allagate. Ritengo necessaria una breve descrizione di queste per far comprendere l’ambiente in cui lo speleosub si trova. Queste cavità infatti possono essere di differenti dimensioni : larghe o molto strette, con acqua limpida o, come spesso accade, con visibilità ridotta a pochi centimetri. In comune hanno sempre la più completa oscurità che viene interrotta solo dalle torce e dai faretti che lo speleosub porta fissati sul casco. E’ un’attività che se praticata senza le dovute conoscenze tecnico pratiche e dei propri limiti si può rivelare pericolosa per molteplici ragioni : si procede sott’acqua e già questa non è una situazione di normalità ; ci si trova in una grotta ( ambiente che ad alcuni da sintomi di claustrofobia ) costretti a seguire perciò un percorso obbligato nel quale si nascondono insidie di molti tipi.
Le insidie costituite dalla morfologia della grotta sono ad esempio strettoie difficili da superare all’andata ma forse ancora più difficili al ritorno, frane instabili che possono ostruire il passaggio, correnti inaspettate capaci di aspirare lo speleosub, gas tossici al di la dei sifoni. I problemi non si fermano qui ma possono essere dovuti anche ai materiali usati : erogatori d’aria che vanno in erogazione continua, lampade che si bruciano, il filo d’Arianna unico accessorio che ci permette di ritrovare l’uscita, che se, usato nella maniera sbagliata può essere perso, in cui ci si può impigliare o che si può rompere con le logiche conseguenze. E’ triste pensare che l’evoluzione tecnico pratica ha fatto passi da gigante verso la sicurezza in questi ultimi anni riflettendo soprattutto sulla morte di speleosub che essendo di un circolo ristretto spesso sono amici. Un’altra gamma di incidenti può essere attribuita a naturali motivi fisiologici derivati dalla permanenza in acque fredde, dalle profondità raggiunte, dalla disidratazione, dall’affanno dovuto allo sforzo. Non mancano nella casistica gli incidenti di tipo psicologico : stress, sopravvalutazione dei propri limiti, paura e panico. Tuttavia la speleologia subacquea è un’attività che ha il grande fascino dell’avventura poiché spesso ci si spinge dove nessuno è mai andato, si conoscono e vedono cose e luoghi che pochi o forse anche nessuno vedrà. In questi ambienti si mettono continuamente alla prova le proprie capacità fisiche e psichiche. Non bisogna comunque pensare che questa sia solo un’avventura fine a se stessa poiché invece ne possono derivare conoscenze uniche in vari campi fra cui la geologia, l’idrologia, l’archeologia, la biologia ecc. Uno dei fattori che qualificano l’immersione speleosubacquea è che la si compie da soli almeno per due motivi : il primo è determinato dall’ambiente in cui ci si trova : sarebbe impossibile infatti portare aiuto ad un compagno in difficoltà, perché a causa della ridotta visibilità potremmo non vedere che é in una situazione di pericolo, ( più persone sono nel sifone minore è la visibilità ), perché le norme di autonomia nel consumo dell’aria utilizzate prevedono sicurezza solo per uno speleosub e non ci sarebbe aria sufficiente per rientrare in due, perché si potrebbe venire coinvolti nell’incidente dell’amico che se si trovasse in una situazione di panico sarebbe impossibile da controllare, oppure in caso non si riuscisse ad aiutarlo ci potrebbero nascere al momento dei pericolosi rimorsi col rischio di perdere la testa e soccombere a propria volta, perché se in una strettoia si rimane incastrati i compagni che seguono non solo non possono aiutare ma restano bloccati dietro ed essendo sott’acqua non possono sopravvivere oltre l’autonomia delle proprie bombole che a seconda delle dimensioni e della profondità varia da pochi minuti a qualche decina di minuti. A seguito di analisi di incidenti causati da questi ed altri inconvenienti si è soliti pensare fra gli speleosub che ” uno speleosub = un morto, due speleosub = due morti “. Il secondo motivo è che, considerata la pericolosità della situazione nel complesso e della progressione, occorre che lo speleosub sia da solo per poter avere la massima concentrazione sulla grotta che lo circonda, sulle operazioni che deve fare, sul materiale che sta usando e sulle sensazioni che lo pervadono. La presenza di chiunque altro lo distrarrebbe e ciò potrebbe essere un elemento di pericolo. Spesso in compagnia di amici durante la pratica della subacquea per non dimostrare di essere inferiori si continua l’immersione anche se si vorrebbe smettere e questo porta ad una situazione di pericolo che se viene sommata ad un qualsiasi altro problema può sfociare in un dramma. La solitudine permette allo speleosub di concentrarsi, controllare il proprio respiro che deve essere sempre tranquillo, seguire il fluire delle emozioni, della curiosità, delle perplessità, della paura che via via si alternano mentre procede e ad un minimo problema può decidere di ritornare senza dover renderne conto ad altri.
Il presupposto che si deve essere soli diventa dunque una necessità ed un’abitudine per chi riesce a sopportarla, che favorisce la consapevolezza di come si possa contare solo sulle proprie capacità, la consapevolezza della propria autodeterminazione. Essa comincia fin dal momento in cui si prepara il materiale per l’esplorazione: dalla più semplice verifica che tutta l’attrezzatura sia in ordine e funzionante, alla preparazione delle bombole cariche d’aria nel caso più semplice, cariche di miscela nel caso più complesso di immersioni a grande profondità. Soprattutto la preparazione delle miscele è un’operazione delicata e specifica autogestita dallo speleosub. Nessuno meglio di lui, in quel momento, è consapevole degli obiettivi che vuole perseguire, di come gestire l’allestimento particolare del proprio materiale. Qualcuno forse, con esperienza pari alla sua , potrà consigliare soluzioni e scelte, ma alla fine, la decisione ultima è di chi si immerge.
La responsabilità della vita, la propria, è un’azione che si decide nella solitudine della coscienza. Si avvicina il momento dell’immersione : si fanno gli ultimi controlli, le ultime analisi sul proprio stato di salute sulle condizioni ambientali esterne ; ormai si è decisi ed anche se il piccolo tarlo della paura dall’ignoto rosicchia da qualche parte del nostro intimo, lo si caccia in un angoletto buio, in fondo in fondo. Quando si è pronti, rivestiti di tutto punto, con le attrezzature giuste al posto giusto, si guarda ancora una volta lo specchio d’acqua che fra un attimo ci nasconderà alla vista di tutti, e si parte. A questo punto la giusta paura che ci permette di non sottovalutare i minimi particolari, si ritrae per attivare durante la progressione il controllo vigile delle situazioni : si sceglie dove va fissato il filo d’Arianna, si osserva la forma dell’ambiente, si controlla la distanza che va aumentando separandoci dall’uscita, le profondità che si raggiungono, l’aria che via via si consuma. La solitudine è veramente nella sensazione che possiamo contare solo ed esclusivamente su di noi , sulle nostre capacità per quello che veramente siamo senza alcuna possibilità di menzogna. Il mondo esterno è psicologicamente lontano anni luce da noi, perché la comunicazione con esso è completamente negata. Nell’avanzamento però, la curiosità per cio che ci appare, il controllo continuo del funzionamento del materiale e la sottile percezione di tante emozioni che ci pervadono, circondano e bloccano l’onda della solitudine che filtra dentro di noi. Quando finalmente la decisione di ritornare subentra, sia per motivi contingenti esterni, sia talvolta perché il fluire dei nostri stessi pensieri lo impone, allora la sensazione di solitudine si ingrandisce a macchia d’olio. Il ritorno sembra più lungo del cammino dell’andata, perché non si è più concentrati nella ricerca del passaggio migliore, nella ricerca dell’ignoto; ci si chiede ora il perché ci si spinge cosi lontano, o ad elevate profondità, in ambienti sempre più ostili dove il minimo inconveniente può costare la vita. Nei pressi dell’uscita poi o durante la decompressione, il desiderio di riemergere fra i volti degli amici che ci attendono ignari, diventa impellente; la coscienza di dover essere soli, privi di comunicazione per un certo tempo, trasforma questo medesimo tempo in un intervallo infinito. Gli ostacoli dell’andata sono ormai superati, i problemi in buona parte sono gia stati affrontati e risolti, la percezione di sè stessi diventa anche bisogno di comunicare ma la comunicazione almeno per il momento è negata. Fino a che non si riemergerà dall’acqua, ancora niente è sicuro, nemmeno che, una buona volta fuori, si potrà, sorridendo, raccontare qualcosa a coloro che curiosi ci aspettano ma che per il momento, non sanno proprio niente delle situazioni e pensieri che ci stanno
trascorrendo intorno. Fortunatamente il termine dell’immersione pone fine a buona parte di quella solitaria consapevolezza, che era andata maturando ed ingigantendo fin dal momento in cui si era deciso di compiere l’esplorazione. Dal momento della riemersione, specie nelle immersioni ad alte profondità o a lunghe permanenze che sono ancora sperimentali, si resta concentrati per diverse ore fino a quando si è sicuri che tutto è andato bene. Rimane la fetta di solitudine che fa parte del nostro profondo inaccessibile, quella fetta di sensazioni che non siamo in grado o forse gelosamente non vogliamo scoprire agli altri. Per me, Luigi Casati, in particolare, un ‘esperienza terribile di solitudine si è determinata a seguito di un incidente che mi è capitato agli inizi della mia attività di speleosub ( 1987 ) .
Con alcuni amici eravamo andati in Francia per cercare di continuare l’esplorazione di una sorgente che scende fino 50m. di profondità, verticalmente, con un pozzo e poi continua orizzontale per circa 20m.: il percorso conosciuto si ferma davanti ad una strettoia. Io parto per secondo dopo circa 20′ dal primo che era e lo è ancora il mio maestro ( oltre ad avermi insegnato le tecniche mi ha aiutato a maturare psicologicamente: componente principale dell’immersione spelesubacquea ). Ci incontriamo nel pozzo che scende nel nero illuminato dalle nostre torce, un saluto e lui continua a salire mentre io a scendere. Raggiungo la fine del filo d’ Arianna steso dal mio amico che si ferma a circa due metri dalla strettoia ad una profondità di 53m.; guardo la strettoia e decido di avvicinarmi per vedere se è possibile passarla. La visibilità di circa 5m fino a quel momento, mi inganna e io commetto l’errore di staccarmi dal filo in questi due metri. Osservo la strettoia penso che sia possibile superarla, mi giro per risalire e mi si presenta una sgradita sorpresa: la visibilità, a causa delle bolle che staccano l’argilla dal soffitto e del movimento delle pinne che smuove l’argilla dal fondo si è ridotta a pochi centimetri. La paura, per la durata di qualche atto respiratorio, si impossessa di me ma la ragione dice che devo calmarmi, respirare il meno possibile per aumentare la breve autonomia concessa dal tipo di bombole da me utilizzato in quell’immersione ( una respirazione incontrollata in pochi minuti terminerebbe l’aria delle bombole ) e anche per poter reagire nel miglior modo possibile con lucidità. Mi sento solo perché nessuno può aiutarmi. Non è facile essere consapevoli di poter morire e cercare di non pensarci. In questi momenti penso all’amico che è risalito e che non vedendomi arrivare potrebbe tornare a cercarmi ma so che non è possibile sia per problemi legati all’immersione ( saturazione ) sia perché quando se ne rendesse conto per me sarebbe troppo tardi. Non si può urlare perché qui nessuno ti può sentire. Allora penso all’errore da me commesso che in teoria conoscevo, e mentre cerco il filo che mi permette di risalire alla superficie mi impiglio in pezzi di filo vecchi e rotti lasciati da altri speleosub; oltre al dover cercare il filo devo pure liberarmi da questi altri.
Mentre la somma di questi problemi complica il mio stato d’animo che con il passare dei minuti vede la pressione dell’aria diminuire sui manometri,vado perdendo la concentrazione e la paura si impossessa dei miei pensieri. Dopo oltre dieci minuti di questa tortura mentale, trovo il filo che mi permette di risalire alle tappe di decompressione: mi restano solo un paio di minuti di autonomia. Durante la decompressione, in attesa del momento di uscire, i miei pensieri erano fissi sul momento appena trascorso, sull’essere andato vicino alla morte per una sciocchezza e di aver evitato per poco di essere da lei catturato, nella solitudine di quei momenti e in un ambiente per me bellissimo ma severo con chi non rispetta le regole. All’uscita dall’immersione non ho parlato con nessuno del mio incidente ho preferito riflettere. Solo dopo qualche tempo mi sono confidato con la mia compagna ed in seguito con gli amici. Nel mio intimo sono stato male per almeno tre giorni pensando in continuazione a quei momenti dove, da solo ti metti in situazioni drammatiche e solo le devi risolvere, alla morte che in quel momento mi stavo rassegnando ad accettare consciamente da solo perché comunque alla fine, quando si muore, si è soli. Questa esperienza ha cambiato molto il modo di agire e di pensare. Mi sono capitati altri incidenti ma non più così traumatici. Nel 1992 ho dovuto cercare un amico disperso sott’acqua in una grotta,: dopo aver effettuato una prima ricognizione, la sera, non appena saputa la notizia l’ho trovato nell’acqua senza vita. ( aveva terminata l’aria nelle bombole probabilmente per un errore di sottovalutazione dell’ambiente ) La notte mi è servita per concentrarmi sul da farsi, considerate le difficili condizioni in cui dovevo operare. Il giorno seguente ho effettuato tre immersioni per poter spogliarlo dell’attrezzatura e permettergli di passare la strettoia iniziale del sifone, legargli le braccia aderenti al corpo già indurito, trasportarlo legato dietro di me nel meandro stretto e tortuoso fino
all’esterno. Le sensazioni peggiori le ho avute fuori dall’acqua quando da solo mi concentravo sulle azioni da compiere poi in acqua perché, da solo lo avevo visto e quindi solo io sapevo cosa fosse meglio fare. In acqua la concentrazione era sul lavoro e non sull’amico morto. E’ stato un momento in cui la solitudine si è trasformata in angoscia: La solitudine dell’azione infatti, si contrapponeva a quella di un amico che da solo aveva affrontato la morte ed il cui agire solitario era ormai diventato eterno. Al momento consueto della riemersione io, il soccorritore, avrei potuto ancora comunicare ed interrompere la mia solitudine, l’altro sarebbe stato solo il soggetto della solitudine di chi lo aveva atteso fuori e non aveva potuto accorgersi che il dialogo stava finendo per sempre.
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