sembra cibo ed odora come cibo, ecco perché le tartarughe sono attirate dai rifiuti plastici
Uno studio pubblicato lo scorso 9 marzo sulla rivista scientifica Current Biology, messo a punto da un’equipe di ricercatori americani dell’Università della Florida, sembra introdurre un ulteriore elemento di conoscenza rispetto ai “meccanismi sensoriali” di alcune specie marine che si trovano a contatto con inquinamento da plastica. Una delle ipotesi più accreditate fino ad oggi, assumeva essere la somiglianza di taluni oggetti ad altre forme di vita (ad esempio le buste di plastica trasparente alle meduse) ad indurre – ad esempio le tartarughe – ad interagire con il rifiuto alla deriva, spesso ingerendolo. Stando invece agli esiti di questa nuova ricerca, pare che anche l’odore emesso dai detriti in plastica possa attirare le tartarughe, esattamente come accade ai predatori attratti dagli odori delle prede.
L’impatto della biofouling dei rifiuti di plastica sulle specie marine
La questione può ricondursi ad un altro fenomeno già noto in ambito biologico, il biofouling, ovvero quel fenomeno che interessa gli oggetti sommersi, in breve tempo colonizzati, sulla loro superficie, da microorganismi, alghe, piante e piccoli animali. Quello che appare come un processo del tutto naturale ed inevitabile, risulta spesso, per gli esseri umani, una fastidiosa controindicazione – pensate alle chiglie delle imbarcazioni, puntualmente esposte a concrezioni – e talvolta problematico anche per l’ambiente stesso, come quando per effetto del biofouling sopra le carene, specie invasive e predatorie possono essere trasportate da un luogo all’altro, giungendo a mettere a rischio le popolazioni animali e vegetali autoctone (vi ricordate l’alga killer, la caulerpa taxifolia? Tra i diversi fattori considerati causa del suo arrivo, c’era il fouling di qualche imbarcazione).
Nuove ricerche: l’odore dei rifiuti di plastica attira gli animali marini
Sembra, dunque, che le tartarughe rispondano agli odori emanati dagli oggetti in plastica esposti ad un certo biofouling, nello stesso modo in cui rispondono agli odori emanati dalle loro prede. L’osservazione è stata condotta su 15 giovani esemplari di Caretta caretta, posti singolarmente in ambiente neutro privo di stimoli esterni, soprattutto olfattivi. Successivamente, all’interno di tale ambiente sono stati immessi attraverso un condotto degli agenti odoranti riconducibili ad elementi diversi (plastica pulita; cibo; acqua deionizzata; bottiglie in plastica precedentemente immerse per cinque settimane in mare). I ricercatori hanno notato che le tartarughe reagivano all’odore del cibo ed a quello degli oggetti in plastica concrezionati attivando lo stesso cambiamento nel loro comportamento, e nel medesimo tempo, ovvero tirando fuori le narici dall’acqua nel tentativo di testare meglio gli odori, come sono solite fare quando sono in cerca di cibo.
Il ruolo del gas di solfuro di dimetile nell’attrazione dell’odore dei rifiuti di plastica
Ma di che tipo di odore si tratta? Secondo gli scienziati potrebbe trattarsi della prevalenza del gas dimetil-solfuro, un prodotto di scarto dei composti solforosi rilasciati dal fitoplancton e da molte alghe bentoniche negli oceani, responsabile a sua volta di importanti dinamiche anche a livello climatico. Inoltre, i detriti di plastica forniscono un substrato per altri organismi come briozoi, idrozoi e piccoli crostacei, alcuni dei quali potrebbero a loro volta produrre composti organici volatili molto attraenti per le tartarughe.
I rifiuti di plastica forniscono un substrato per composti organici attraenti
Questo dato, dunque, potrebbe spiegare in maniera più convincente perché le tartarughe (ma anche i cetacei, o gli uccelli) risultino così fatalmente attratte da oggetti in plastica sommersi o galleggianti che non hanno affatto le sembianze di cibo, anche da grandi distanze.
Opinione dell’esperto: l’impatto dei rifiuti di plastica sulle specie marine, un resoconto di prima mano
Abbiamo chiesto a Carmelo Isgrò, fondatore del MuMa di Milazzo e membro del Museo della Fauna dell’Università di Messina, un parere rispetto a questo studio, anche in base alla sua esperienza di biologo in prima linea nei – purtroppo – numerosi ritrovamenti di capodogli (Siso il più “famoso”, oggi esposto al MuMa) e tartarughe avvenuti negli ultimi tempi lungo la costa tirrenica siciliana.
“Questa teoria è certamente plausibile – commenta Carmelo – sebbene per quanto abbia potuto osservare, il maggior fattore di rischio per le tartarughe è rappresentato dalla ingestione di attrezzi da pesca, come i palangari (o palamitare)”.
È infatti molto frequente che le tartarughe, attratte dalle esche, ingeriscano parte del “brazzolo”, puntualmente poi tagliato dai pescatori, che quasi mai intervengono per liberare l’animale. A quel punto, nel tentativo disperato di sbarazzarsi della trappola, la tartaruga lentamente ingerisce tutta la lenza, provocandosi ovvi blocchi intestinali, con produzione di gas nelle viscere, e la conseguente impossibilità di immergersi nuovamente: restare in superficie significa morire in breve tempo di inedia.
Inquinamento e le sue conseguenze sulle tartarughe
Anche l’inquinamento, però, gioca la sua parte: “negli stomaci delle tartarughe spiaggiate ritroviamo per lo più molti tappi di bottiglia”, conferma Carmelo – “ma anche buste ed altri piccoli oggetti schiacciati ed ingoiati. Particolarmente eclatante è stato il caso di un giovane capodoglio di circa 7 anni ritrovato l’anno scorso vicino Cefalù con lo stomaco totalmente ostruito da diversi chilogrammi di plastica, al punto tale, probabilmente, da non riuscire più a nutrirsi”. Un triste computo, che determina ogni anno la perdita di circa 10 mila esemplari di tartarughe, vittime di “catture accidentali” ed ingestione di plastica, e per questo dichiarate in via di estinzione.
Credits photo: Carmelo Isgrò, Mauro Galeano.