Riassunto delle puntate precedenti: dopo 38 anni di onorata attività subacquea praticata in più o meno tutti i mari del Globo, ho pensato di cimentarmi nel racconto di quelle che sono divenute le mie preferite usando dome metro di valutazione il “feeling”. Cominciando dalla più “adrenalinica” sperimentata alle Galapagos (ho pianto alla notizia del crollo dell’arco di Darwin, sono serio) sono arrivato alla più ricca in termini di biodiversità saltando dalla parte opposta del Mondo e, passando per il Sulawesi, sono atterrato in Raja Ampat.
Questa puntata mi riavvicina a casa per l’immersione più profonda.
IL CLUB DEI CENTO
Sulla metà degli anni ’80 eravamo (incredibile a dirsi) molto pochi a frequentare Sharm El Sheikh.
C’era ancora un solo hotel a quell’epoca: il Marina… qualcuno forse lo ricorda; io però facevo parte di quello sparuto gruppo di “accampati” (nel vero senso della parola) che inseguiva il pionieristico sogno di sviluppare proprio là il turismo subacqueo. Per questo, tutti i giorni, andavamo in ricognizione, tutti i santi giorni ci tuffavamo più e più volte in esplorazione (se vi sovviene qualsiasi altro parol…one che serva a dare un tono ben venga. La realtà é che si andava a tentativi, e quanti!) di quel mare incredibile per individuare gli spot migliori da proporre ai subacquei che volevamo convincere a darci fiducia.
Eravamo in pochi, ci si conosceva tutti e, vuoi per l’età vuoi per… le affinità elettive (follia e, diciamo, “disinvoltura”) si andava d’accordo e ci consideravamo tutti amici così, a fine giornata, ci trovavamo attorno ad una shisha per scambiarci storie, esperienze e soprattutto “mire” dei siti visitati durante la giornata.
Ci immergevamo utilizzando le “tabelle” e un profondimetro a lancetta, esclusivamente in aria (mono o bibo). L’elio era una chimera, il trimix per immersioni sportive la grande novità degli anni ’90. (Si, giurassico).
Quelli “avanti” (e anche più danarosi) sfoggiavano già il primo “computer subacqueo” della storia, quello a “polmone”: un “cipollone” pieno d’aria. Un po’ più scientificamente: una membrana di ceramica porosa simulava i tessuti ed era collegata ad un tubo (di Bourdon) tramite il quale il gas “assorbito” veniva misurato da una lancetta, che indicava le tappe di decompressione su un quadrante.
Lo so, è praticamente come spiegare ad un millennial che lo smartphone è figlio dell’abaco …base 2 (??!!)
Se non avete almeno 60 anni non avete capito mezza parola… Come dicevo Giurassico! Antico!!
Io invece ricordo ancora perfettamente lo stupore di noi tutti quando si presentò “quello del Decobrain”: by Divetronic si direbbe oggi. Quello si fu il primo vero computer elettronico della storia: tutti lo guardavamo come venisse dallo spazio e (a mio parere solo per invidia. Poiché si sosteneva consentisse addirittura immersioni multilivello!! Addirittura!!) qualcuno dubitava dell’affidabilità.
Tornando a noi: ci si spostava a Nord e a Sud, anche
ascoltando i consigli dei pescatori (sì in quegli anni c’erano i pescatori a
Sharm!). Un giorno arrivammo a Dahab. Si parlava di un Blue Hole raggiungibile
da riva e volevamo verificare. Fu una meravigliosa scoperta! Affrontammo la
novità con cautela per imparare a conoscere questo “buco blu”, poi divenimmo
sempre più spavaldi. Fin da subito fummo irresistibilmente attratti da una luce
che filtrava da un arco spettacolare, a circa 50/55 metri di profondità: “bucava”
il buio come qualcosa di sovrannaturale. Era strano ma terribilmente seducente: invece
di andare incontro al buio più fitto, più si scendeva e più ci si avvicinava alla
luce. Potevamo evitare di attraversare quell’arco per ritrovarci poi in mare
aperto a risalire nel blu? Domanda retorica.
Ma il Blue Hole era peggio di una tentazione del diavolo. La domanda che ci accomunava
tutti era: “fin dove scende? Ci sarà pure il fondo, no?” Ovviamente (devo dirlo?!?) decidemmo di
scoprirlo….
Iniziammo così ad alzare l’asticella (anche se in questo caso bisognerebbe dire
“abbassare”) e, un’immersione dopo l’altra, scendevamo sempre un po’ di più:
-60, -70, – 80 …. Ma sembrava davvero non esserci fondo.
Come ho detto ci si immergeva in aria e sapevamo bene che la
narcosi da azoto era in agguato. Ne conoscevamo gli effetti ed eravamo
preparati ad affrontarla. O almeno ne eravamo convinti.
Così come sei convinto di tante altre cose a 25 anni, tipo….. di non avere
limiti.
Gli effetti della narcosi si palesavano eccome! Io mi ero inventato un trucco
per tentare di dominarla: quando verso i – 65 metri cominciavo a percepire una
certa ebrezza, mi concentravo sul profondimetro e sul mio computer “a polmone”,
ripetendo, come un mantra e con ossessione le tabelle per la deco successiva. Ha
funzionato ma da subito ho detto a tutti: NON FATELO!
Terzo giorno di immersioni al Blue Hole, in testa ormai
c’era solo il fondo del buco da trovare!
Ormai era un tarlo, un’ossessione. Con Bruno, il mio fidatissimo buddy
di sempre, decidemmo che bisognava trovarlo quel fondo, a qualsiasi costo (non
dite niente… 25 anni). Quella mattina ci organizzammo con uno Zodiac in
superficie per poter calare le altalene per le soste della deco. Ad ogni altalena/sosta avevamo messo una
bombola con doppio erogatore.
Bibo sulle spalle iniziammo a scendere, veloci, sempre più veloci . – 60 mt.,
tutto bene, -70 mt. tutto bene, – 80 tutto (abbastanza) bene. Inizio il
mantra/tabella per tenermi attivo con la testa.
Dai Bruno che la narcosi ci fa un baffo (…non dite niente sempre 25
anni), – 90 l’ebrezza “sballa” e grazie a Dio il manometro era saldo al braccio.
L’unico stacco degli occhi era, per un attimo, per trovare questo maledetto
fondo. Non me ne accorsi quasi ma, fra assetto negativo che spingeva giù veloce e narcosi ormai galoppante, guardai
il profondimetro e lessi – 102!
Con un ultimo barlume di lucentezza pensai:“ Brunoooo (censura), qui non ne
usciamo più!”. Bruno, al mio fianco, capì al volo il mio sguardo e ci fermammo
in sincrono. Iniziammo la risalita. Avevamo stabilito che, qualsiasi profondità
avessimo raggiunto, saremmo poi risaliti più velocemente fino a -65, dove la
narcosi si sarebbe attenuata, poi molto lentamente fino alla prima sosta di
decompressione.
Alla base del piano di rientro c’era un ragionamento primordiale ma, in realtà,
l’ignoranza del tempo lasciò ampio spazio all’improvvisazione e soprattutto
alla fortuna! Solo grazie a quello portammo la pelle a casa. Qualche altro
“spirito affine” seguì il nostro esempio e superò i -100 mt e, in breve, nacque
il “Club dei Cento”.
Purtroppo però, lo spirito di emulazione prese anche chi non aveva l’esperienza e l’organizzazione sufficienti per affrontare queste sfide estreme. Chiudemmo il “Club dei Cento” prima che altri si spingessero oltre i propri limiti senza altrettanta fortuna.
A 40 anni di distanza l’emozione mi prende ancora al ricordo ma, con la consapevolezza di oggi e le conoscenze che abbiamo raggiunto anche in questo campo, anche avessi di nuovo 25 anni, non lo rifarei.
Voi non fatelo, date retta allo zio.