Autore: Luana Aimar
All’interno delle grotte spesso si trovano
grandi quantità d’acqua che, proprio come in superficie, possono originare
fiumi, laghi o persino occupare interi tratti della cavità, anche a centinaia di
metri di profondità.
Questi fiumi e questi specchi d’acqua sotterranei, o
ipogei, possono sembrare tra i luoghi più inospitali del pianeta, e
probabilmente in parte lo sono. Per molti decenni si è pensato che essi fossero
completamente privi di vita, finchè a partire dalla prima metà dell’Ottocento
una serie di scoperte inattese ha dato il via a ricerche sistematiche che hanno
portato alla descrizione di migliaia di specie, distribuite in tutto il mondo,
adattate alla vita di questi ambienti. Infatti essi sono stati colonizzati nel
corso dei millenni da una fauna estremamente specializzata, definita dagli
addetti ai lavori “stigobia”; tale termine deriva da Stige, il fiume sotterraneo
che nella mitologia greca separava il mondo dei vivi da quello dei morti.
Gli
organismi stigobi attuali derivano da antenati che originariamente vivevano
nelle acque epigee, cioè alla luce del sole. Nella maggior parte dei casi essi
oggi non hanno più parenti prossimi nel mondo esterno – che possono essere
scomparsi ad esempio per improvvisi cambiamenti climatici o per vicissitudini
evolutive – ed in quanto tali vengono considerati dei veri e propri fossili
viventi, ossia dei rappresentanti ancora in vita di gruppi animali scomparsi in
superficie anche da molte migliaia di anni.
Il mondo sotterraneo custodisce grandi quantità d’acqua: laghi, fiumi, pozze,
sifoni…possono sembrare tra gli ambienti più inospitali del pianeta, ma al loro
interno vive una fauna specializzatissima, senza eguali nel mondo (foto Corengia
D.)
Gli organismi stigobi hanno modificato il loro
aspetto e lo stile di vita per adattarsi alle caratteristiche ecologiche uniche
dei corsi d’acqua sotterranei. Infatti si tratta di ambienti completamente privi
di luce, molto isolati e con scarsissime quantità di cibo, ma al tempo stesso
anche caratterizzati da una notevole stabilità climatica e da un basso tasso di
predazione.
Un crostaceo stigobio del genere Niphargus: appare evidente che l’esemplare è
completamente depigmentato e privo di occhi (foto Turconi M.)
La caratteristica più peculiare degli organismi
stigobi è che presentano un metabolismo rallentato rispetto ai loro parenti che
vivono nel mondo esterno, e questo innesca una catena di conseguenze non meno
interessanti: gli animali in questione infatti consumano meno ossigeno e si
sviluppano più lentamente, ma vivono anche una vita in proporzione più lunga.
L’assenza di luce inoltre rende pressoché
inutile il senso della vista, e gli organismi stigobi presentano occhi molto
ridotti o completamente assenti. In compenso lo sviluppo oltre misura delle
appendici e di una fitta quantità di setole che ricoprono il corpo colma la
lacuna visiva e riveste un’importante funzione sensoriale e di orientamento.
Anche i colori perdono il loro significato in un mondo buio e senza vista; essi
risulterebbero anzi un inutile spreco di energia. Gli stigobi quindi sono nella
maggior parte dei casi bianchi e privi di pigmenti. Scompaiono completamente i
ritmi nictemerali (dovuti alla successione del giorno e della notte) e
stagionali che invece condizionano pesantemente la vita degli organismi che
vivono nelle acque epigee.
E’ difficile ricostruire quali siano state le
motivazioni che storicamente hanno spinto degli organismi di acque superficiali
a rifugiarsi nei corsi e nei laghi sotterranei; tuttavia una delle ipotesi più
accreditate delinea una serie di migrazioni dalle acque superficiali a quelle
sotterranee in corrispondenza degli eventi glaciali del Quaternario. In questo
ipotetico scenario dunque gli organismi si sarebbero inizialmente rifugiati
nelle acque ipogee alla ricerca di stabilità climatica, e da qui si sarebbero
irradiate, specializzandosi di conseguenza, fino ad occupare tutte le nicchie
ecologiche ancora libere.
Il gruppo animale che si è meglio adattato alla
vita nelle acque sotterranee è quello dei crostacei; esso si è anche rivelato il
più plastico, avendo dato origine ad oltre 2300 specie differenti note fino ad
ora, frutto di differenti strategie adattative. Nelle grotte delle nostre zone
sono piuttosto comuni i crostacei anfipodi del genere Niphargus e i crostacei
isopodi del genere Monolistra. I primi sono i corrispondenti stigobi dei
gamberetti delle acque epigee, i secondi invece sono dei lontani parenti
acquatici dei porcellini di terra. Entrambi i generi presentano subito a colpo
d’occhio le caratteristiche tipiche degli organismi stigobi: totalmente
depigmentati, privi di occhi e con un ritmo di vita “rallentato” rispetto a
quello dei corrispondenti organismi epigei. Prove di laboratorio hanno
dimostrato che esporre questi organismi alla luce è letteralmente letale, la
loro sopravvivenza è dunque legata al buio dell’ambiente in cui vivono.
Niphargus nel suo ambiente di vita: solitamente setaccia il limo del fondo
alla ricerca di batteri e microrganismi che costituiscono la sua dieta (foto
Marieni A.)
Un esemplare di Monolistra in versione ventrale. In primavera questi
crostacei si riproducono ed è possibile trovarne a centinaia, in accoppiamento,
nei corsi d’acqua sotterranei (foto Parenti S.)
I crostacei Monolistra sono lontani parenti dei “porcellini di terra” e, per
difendersi, sono in grado di ripiegarsi “a palla” formando una sfera perfetta
(foto Parenti S.)
Decisamente meno conosciute sono invece le
planarie stigobie, che vivono sotto i sassi dei rivoli e delle pozze. Raramente
più lunghe di un centimetro, hanno un corpo oblungo e piatto. Il loro studio e
la loro determinazione sono molto problematici e possono essere fatti soltanto
in laboratorio da esperti del settore. Basti dire che per la determinazione di
un esemplare campionato in una pozza d’acqua di una grotta in Pian del Tivano (CO)
è stato necessario eseguire lo studio istologico dei tessuti dell’apparato
copulatore!
Inoltre, molto comuni in corrispondenza di
tutti gli specchi d’acqua fermi, anche a grande profondità, sono i collemboli.
Si tratta di organismi molto plastici da un punto di vista adattativo, tanto che
hanno colonizzato gli ambienti più disparati sopra e sotto la superficie del
terreno. Generalmente sono lunghi meno di un millimetro, ma hanno la tendenza a
raggrupparsi a decine sulla superficie dell’acqua, abitudine che li fa apparire
decisamente più visibili. Sono dotati di una furca che li rende persino in grado
di saltare.
Comunque non bisogna farsi l’idea che le acque sotterranee siano colonizzate
soltanto da piccoli invertebrati molto specializzati. Nel mondo ad esempio
esistono anche pesci e anfibi legati alla vita delle acque sotterranee. In
Italia il più caratteristico è senza dubbio il proteo (Proteus anguinus), un
anfibio di 30 cm di lunghezza al massimo, dal corpo anguilliforme e di colore
biancastro. Esso è caratterizzato da muso allungato con occhi molto ridotti
ricoperti dalla cute, pinna caudale ben sviluppata, arti anteriori con tre dita
e posteriori con due.
Nella penisola italiana il proteo è diffuso in una limitata area del carso della
Venezia Giulia orientale, ma oltre confine si può trovare in tutta l’area
carsica compresa tra il Montenegro, l’Istria e la Slovenia. Tra gli animali
viventi, quelli più strettamente imparentati con lui appartengono al genere
Necturus e vivono nei corsi d’acqua epigei dell’America settentrionale. Hanno
colore scuro ed occhi ben sviluppati e probabilmente, per aspetto e stile di
vita, potrebbero essere molto somiglianti all’antico antenato da cui si è
originato il proteo attuale.
Le planarie sono incontri piuttosto rari nelle acque del mondo sotterraneo:
anche per questo disponiamo di pochissime informazioni su di loro. Gli animali
che vivono nel mondo sotterraneo costituiscono ancora oggi una frontiera
dell’ignoto (foto Ferrario A.)
Il proteo predilige i corsi d’acqua stagnanti o
dove la corrente è ferma; occasionalmente può anche spostarsi sul suolo umido
delle grotte arrivando a percorrere anche qualche centinaio di metri alla
ricerca di cibo, o per spostarsi da una pozza all’altra.
La maturità sessuale viene raggiunta all’età di circa dieci/dodici anni. Il
maschio difende dagli individui dello stesso sesso un territorio di circa 80 cm
di diametro; la fecondazione è preceduta da una sorta di danza nuziale. Dopo un
paio di giorni, e per la durata temporale di circa un mese, la femmina depone
fino a 70 uova e le attacca una alla volta alle rocce e ai sassi del fondo, in
posizione riparata e protetta. La madre e talvolta anche il padre comunque
vegliano su di esse per i successivi tre mesi. Alla schiusa le larve misurano
circa 2 cm e si nutrono di protisti, batteri e sostanze organiche che trovano
nel limo del fondo. Si accrescono per tutta la durata della vita, ma molto
lentamente: a due/tre anni raggiungono 10cm di lunghezza, a sei/otto anni circa
20 cm. Gli adulti invece si nutrono di piccoli invertebrati che vivono in questo
stesso ambiente o che vengono trasportati dalle piene all’interno della grotta.
La resistenza al digiuno dei protei comunque è straordinaria: nel corso della
vita infatti spesso trascorrono interi mesi senza nutrirsi, occasionalmente
anche qualche anno. Ed è documentato il caso di un esemplare in cattività che
non ha assunto cibo per ben 8 anni! La taglia massima viene raggiunta al termine
della vita, che si aggira mediamente intorno ai trent’anni.
Piccolissimi collemboli si riuniscono in gruppo in una pozza d’acqua
tranquilla, nel buio più totale. La vista e i colori in questo ambiente sono
assolutamente privi di significato (foto Ferrario A.)
Tutti gli organismi stigobi, anche se in misura
differente, sono considerati entità rare e vulnerabili ed alcune specie sono
seriamente minacciate d’estinzione. In alcuni casi le motivazioni sono da
ricercare nel limitato areale di diffusione, nella necessità di particolari
condizioni ecologiche per la sopravvivenza o nel basso numero di individui che
costituiscono le popolazioni stesse. Tuttavia la principale minaccia per questa
fauna, affascinante ed unica nel suo genere, è rappresentata dall’inquinamento e
dall’alterazione del loro stesso ambiente di vita. Le acque sotterranee infatti
sono estremamente vulnerabili e troppo spesso in esse vengono immesse sostanze
di scarico o materiali inerti che possono provocare danni anche irreversibili
all’ecosistema.
Per contro non ci è ancora dato di sapere e
valutare il ruolo svolto dalle faune stigobie nel mantenimento del loro stesso
habitat, e non dobbiamo dimenticare che le acque sotterranee costituiscono quasi
l’80% delle acque dolci disponibili al mondo, fondamentali anche per la nostra
stessa sopravvivenza.
In fondo siamo legati a questi organismi più di
quello che potrebbe sembrare…
Un proteo fugge disturbato dalla presenza dello speleologo che lo immortala
rapidamente con uno scatto. Fotografie e filmati sono l’unico modo per portare
alla luce del sole la testimonianza dell’esistenza di queste rare creature, la
cui esistenza potrebbe essere legata alla nostra più di quanto ci potremmo
aspettare… (foto Zucca P.)
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Fantastico articolo!