Seconda puntata
Le potenti armi di cui erano dotate le navi sono spesso appena riconoscibili. Tanto è minaccioso il possente cannone sulla collina di Weno quanto sembrano inoffensive le armi che si vedono sott’acqua. Solo nei relitti più profondi, dove la luce è meno intensa, l’armamentario militare è facilmente riconoscibile, benché il limo, che ricopre ogni cosa sia all’esterno sia all’interno dei relitti, abbia smussato ogni angolo e una coltre monocroma ammanti ogni oggetto. In profondità si possono distinguere chiaramente una doppia mitragliatrice antiaerea, cannoni antiaerei (Aikoku Maru), il cannone di prua con la sua base girevole sul San Francisco Maru e le dotazioni militari nelle stive delle navi da trasporto: bombe, mine (Goisei Maru), camion (San Francisco Maru, Nippo Maru e Hoki Maru), trattori (Hoki Maru), veicoli, chassis di camion (Nippo Maru), un periscopio (Heian Maru) e perfino dei carrarmati (Nippo Maru e San Francisco Maru).
L’individuazione dei carrarmati non è immediata e quando infine si riesce a riconoscerli sembra di vedere carrarmati-giocattolo fatti di Lego: in particolare quello sulla coperta del San Francisco Maru sembra un carrarmato piccolo e innocuo, così in contrasto con la sua precedente vita.
Nuotare tra le lamiere del relitto non è sempre agevole e il compito della guida è anche quello di individuare un percorso che, rispettando i margini di sicurezza di immersione relativi a tempo e profondità, permetta l’osservazione sia dei ponti sia delle stive. Hanser ci conduceva nella penetrazione delle stive seguendo percorsi tortuosi, che zigzagavano tra camion, trattori, reti metalliche, eliche di ricambio (Hoki Maru), munizioni sparse (Sankisan Maru), caricatori di mitragliatori (Sankisan Maru), maschere antigas (Nippo Maru). Talvolta ci faceva passare da una stiva all’altra o penetrare nelle sale macchine, dove si nuota paralleli alle passerelle (Kensho Maru) o sospesi davanti a pannelli elettrici (Ohyo Maru) e caldaie (Kensho Maru) in quegli spazi che erano rumorosi e caldissimi, come ci trasmettono le immagini dei film, e che ora il silenzio assoluto rende surreali.
E’ stata emozionante l’identificazione in una stiva di uno Zero, il piccolo aereo da combattimento monoposto usato dai giapponesi anche nelle missioni suicide, e delle eliche e del relativo asse di un siluro sganciato dagli aerei (Avenger torpedo bomber) (Gosei Maru).
In altri relitti Hanser ci ha fatto iniziare la visita dal ponte di coperta (Nippo Maru), dove sono ancora presenti gli invertitori (che abbiamo provato a manovrare e ci sono sembrati ancora funzionanti), il telegrafo e la bussola.
Talvolta ci ha fatto seguire il percorso della bomba e penetrare nel relitto attraverso il varco aperto nelle lamiere dall’esplosione (Kyiozumi Maru), che sembra ormai l’atrio di una casa accogliente addobbato da coralli molli, fruste di corallo, gorgonie e spugne. Ma gli aspetti naturalistici contrastano con la freddezza delle lamiere talvolta staccate, che possono essere taglienti come lame.
Sparsi intorno ai relitti si possono incontrare altri reperti interessanti, come una bomba piantata per metà nel fondo del mare e inesplosa.
Spesso nelle navi ci sono oggetti di vita quotidiani: un fornellino a gas, alcune brocche, bicchieri, teiere con la marca incisa (un tenero fiorellino – Heian Maru – Fig. 7), tazze da tè, suppellettili, bottiglie (un’intera parete del Rio de Janeiro è occupata da casse di sakè, flaconi di medicinali (Sankisan Maru). Nella stiva della Kyiozumi Maru sono rimaste appese delle biciclette.
I corpi dei marinai deceduti all’interno delle navi sono stati per lo più estratti e cremati per la credenza buddhista che lo spirito non possa raggiungere il Nirvana se il corpo non è stato cremato. Tuttavia, in diversi relitti rimangono resti umani, che sono stati posti in ordine dalle guide: femori e un cranio hanno la loro tomba nel Shinkoku Maru.
Il sottomarino I-169, benché non affondato in occasione dell’Operazione Hailstone ma pochi mesi dopo, ha un valore storico particolare, perché aveva partecipato all’attacco a Pearl Harbor. Per questa ragione abbiamo voluto assolutamente andare a visitarlo. Il sottomarino si immerse rapidamente per sfuggire a un’incursione aerea americana, ma durante l’immersione un portello fu dimenticato aperto. L’allagamento eccessivo impedì la successiva riemersione. Il tentativo di salvare l’equipaggio rimasto intrappolato fallì e i superstiti morirono per accumulo di anidride carbonica. Solo successivamente i cadaveri furono evacuati. Nel sottomarino non si può penetrare. L’elica è contro la sabbia e la prua è stata fatta esplodere dagli americani. Se ne nota però bene la struttura e si può vedere un portello aperto: chissà se è quello che fu dimenticato nell’immersione rapida?
Anche la visita degli aerei è molto interessante. Betty Bomber è un aereo bombardiere. Si può penetrare nella carlinga e uscire da due aperture laterali, forse i portelli. Uno dei motori giace a una certa distanza dal relitto principale. Anche qui i pesci sono disposti in quella curiosa posizione verticale e sembrano mangiare le lamiere delle ali, che sono spoglie da coralli.
L’Emily Flying Boat è invece un idrovolante quadrimotore che fu colpito mentre rientrava a Truk trasportando degli ufficiali da Palau. I motori e le loro eliche sono ben visibili. Non si può penetrare nella carlinga, ma è ben evidente il muso dell’aereo, con i finestrini originali, che sembrano fatti di plastica e sono diventati biancastri. Fioriture di coralli molli molto vivaci esistono in più punti. Curioso è anche l’aspetto del galleggiante separato dai resti dell’aereo.
I compagni di immersione provenivano da varie parti del mondo: erano giapponesi, americani, francesi, australiani. Con loro abbiamo condiviso i turbolenti viaggi in barca: le tempeste tropicali, molto intense in alcuni giorni, creavano onde sufficienti a far battere violentemente la barca, con il suo carico di bombole e uomini, sul mare e, poiché non erano disponibili maniglie a cui aggrapparsi per restare in piedi, ridendo commentavamo che: “Nessuno ha avuto problemi di salute nelle immersioni, ma qualcuno è tornato a casa con una vertebra schiacciata.” Talvolta poi, la pioggia era così violenta che non si poteva guardare verso il mare ed eravamo costretti e tenere la testa china verso il fondo della barca per non essere accecati dagli schizzi e dalle grosse gocce d’acqua di pioggia e ci lanciavamo occhiate che significavano: “Ecco la nostra vacanza tropicale da sogno!”
Un inglese di Aberdeen, che lavora come pilota ad Abu Dabi e che quindi pensavamo fosse molto tecnologico, era il più incredulo nell’osservare come venivano individuati i relitti dalle guide. “Unbelievable, incredible!” diceva ogni giorno.
Un australiano, che abita a nord di Brisbane, invece ci diede ragguagli sugli animali tropicali e ci spiegò che quegli animali saltellanti che vedevo nel prato del resort alla sera e credevo essere innocenti rane erano invece dei velenosi rospi, in grado di uccidere anche dei cani. Erano stati importati dal Brasile per uccidere topi e scarafaggi nelle piantagioni di canna da zucchero e in breve tempo si sono moltiplicati a dismisura, tanto da costituire ormai un problema ambientale per l’Australia. Immaginavo quindi una lotta tra i velenosi rospi e i velocissimi grossi granchi, che uscivano a caccia dalle loro tane dai grandi buchi intorno alle palme nei pressi della riva. Saranno più veloci le chele o i salti dei rospi? Lo scheletro chitinoso dei granchi li renderà immuni al veleno? Potranno i granchi mangiare i rospi? A giudicare da quanto più numerosi erano i rospi direi che questi erano padroni del territorio, cosa che una ricerca sul tema ha confermato.
Non tutti i residenti del resort erano subacquei. Mentre mi beavo di un raro momento di bel tempo, in cui mi rendevo conto di come, malgrado il clima, la luce intensa delle basse latitudini ci avesse avvolti e avesse esercitato un benefico effetto sull’umore, come se si fosse accesa una lampadina dentro di me, incontrai una ragazza sulla spiaggia. Con le domande di prammatica appresi che era del Bangladesh e aveva studiato in US come dentista. Avviammo un’interessante discussione sullo stato di salute dei denti dei nativi (alcuni sono sdentati completamente e quasi tutti hanno i denti giallastri) e Joy-Joy mi rivelò, mentre con i piedi disegnava un grande fiore sulla sabbia di cui lei era il pistillo,: “E’ il betel nut (noce di areca) che masticano che rende i denti così. E’ anche cancerogeno per la mucosa orale.” Caspita! Ora capivo anche perché le guide hanno la fastidiosa abitudine di sputare, specialmente prima di rispondere a una domanda.
Joy-Joy mi spiegò che sarebbe andata ad abitare in paese con suo marito, un ardito smilzo giovanottino americano che conobbe in un centro di volontariato in Africa. Curiosa ragazza! Vive per la curiosità dei denti e per fare volontariato e sembra così serena sul suo futuro! “Ma come vivrete qui se opererete come volontari?” chiesi ingenuamente, sentendomi un po’ intimidita dalla mia volgare situazione di turista edonista. “L’associazione di volontariato a cui apparteniamo ci fornisce cibo e alloggio” mi rispose sempre sorridendo. Tornammo a parlare dei nativi. E’ evidente che la loro situazione dentaria, tanto appariscente che era stata la prima cosa che avevo notato delle guide, dev’essere ben conosciuta dal mondo scientifico se è stata attivata una missione dedicata al problema. Così venni a parlare delle cure che Joy-Joy avrebbe offerto in una piccola clinica dentistica equipaggiata dagli americani (estrazioni e cure maggiori) e delle otturazioni in oro molto frequenti tra i locali e a lei del tutto sconosciute. Non credevo ai miei occhi osservando l’entusiasmo di Joy-Joy quando arrivammo a intenderci: “Gold crowns! I’m looking forward to seeing one” disse battendo le mani. “Basta che tu vada a prendere un caffè al bar e ne vedrai molte!“ le risposi.
Arrivato il marito, la conversazione dentaria si esaurì, ma prima di andar via, Joy-Joy mi rivolse l’invito relativo alle guide: “Please, tell them that I’m here and I will work free!” quasi supplicandomi. “Sure, I will”.
Così, appena ebbi l’occasione, ne parlai ad Hanser, anch’io contenta di fare una buona azione, pur dovendo superare l’imbarazzo di entrare in una sfera molto privata, che riguardava non solo la salute ma anche l’immagine di se stessi. Attilio mi guardava perplesso, ma io procedevo come un panzer, perché sapevo che l’obiettivo era davvero utile. Ed è stato utile davvero, perché, alla nostra partenza, Hanser mi ha comunicato di aver preso l’appuntamento dalla dentista.
Non ho ottenuto invece lo stesso successo con la ragazza del bar, che pur si teneva il ghiaccio in bocca per il mal di denti. Si capiva bene che sfuggiva dall’affrontare la realtà e a nulla valse dirle che i denti le sarebbero stati utili anche da vecchia.
Ma la nostra visita dell’atollo non si limitò agli aspetti subacquei. Avevamo la curiosità di vedere altre isole, alcune delle quali hanno un aspetto affascinante per la loro posizione isolata nell’atollo, distante dalle isole principali, come le due minuscole Funamu e Jeep Island (Fig. 9), dove sono state costruite due piccolissime abitazioni che possono alloggiare i turisti desiderosi di assoluto isolamento.
Gli isolotti sono rotondi e mancano di sabbia. La spiaggia è costituita da coralli grossolanamente frammentati, su cui è opportuno camminare con i calzari. Ce ne sono di vari colori: rossastri, marroni e perfino blu, oltre a quelli bianchi.
Si può nuotare intorno agli isolotti, alla cui riva si avvicinano piccoli squali pinna nera. Anche noi ne abbiamo potuti vedere cinque, di cui uno era un cucciolo.
Anche su questi isolotti, benché molto curati dai proprietari, si accumulano rifiuti, soprattutto di plastica. In un’accurata perlustrazione di Funamu, il cui periplo si compie in 5 minuti, seguiti da uno dei ragazzi che dormono sull’isola, abbiamo raccolto la spazzatura sparsa per terra. I ragazzi all’inizio ci guardavano meravigliati, un po’ incerti se volessimo scherzare, ma poi, vedendo le nostre intenzioni serie, si sono dotati di un grande sacco e ci hanno aiutato a mettere da parte la plastica che deturpava l’incanto dell’isola. Purtroppo un’opera di bonifica è impensabile se manca nell’isola principale e nei suoi abitanti la cultura della pulizia del territorio.
La raccolta della plastica pareva aver colpito anche Hanser, che ci aveva condotti lì, e che pensò di offrirci in regalo alcune conchiglie. Quando gli spiegammo che è vietato portare conchiglie in Italia e ovunque e che le dogane sono assai severe su questo, ci guardò stupito: “Che male può esserci a portare via delle conchiglie?” Gli spiegammo che l’asportazione di corallo può contribuire a creare un’alterazione dell’ecosistema marino, ma lui rimase indifferente e incredulo. Benché la vita di Hanser sia sul mare e con il mare, egli è del tutto ignaro del tema della protezione degli ecosistemi e di quel vasto mondo scientifico che ruota intorno al problema. Questo aspetto mi rendeva Hanser ancora più simpatico nella sua semplicità di isolano.
L’ultima esperienza che merita un accenno fu osservare la preparazione di un funerale. Mentre eravamo sul pontile, arrivò un’ambulanza dall’ospedale, da cui fu scaricata una bara. Era morta la moglie del padrone del Diving, personaggio importante e amato. La bara fu deposta con cura in una delle barche ormeggiate nel porticciolo, che provengono da Tonoas, l’isola di fronte a Weno, in cui abita la maggior parte del personale del diving. La barca era stata pulita e vi era stato deposto un telone di plastica, con cui fu ricoperta la bara per ripararla dagli spruzzi del mare. Arrivarono poi parenti e amici che si imbarcarono su analoghe barche e il corteo funebre si diresse verso Tonoas.
Sui sobbalzi delle onde la defunta prendeva la via del mare per tornare a casa: molto romantico!Testo di Cristiana Rollino
Fotografie di Attilio Eusebio e Cristiana Rollino
BIBLIOGRAFIA