Autore: Francesca Chiesa
Se raccontassi di una crociera alle Maldive, sarebbe troppo facile. Salutare il sorgere del sole cullati da un mare da cartolina, con all’orizzonte, dai colori ancora incerti, un branco di delfini che con balzi di gioia e stridule risate benedice l’inizio di un nuovo giorno sarebbe l’inizio perfetto per un favola. E le Maldive, un insieme di piccoli atolli che a stento restano a galla, vi assicuro che lo sono.
No, non vi racconterò tutto questo. Mi sposto ad est, poco lontano: vi porto in Indonesia, nell’arcipelago delle isole chiamate Nusa Tenggara (Piccole Isole della Sonda). Lombok è la prescelta: minuta isola vulcanica dove si alternano spiagge di sabbia nera con spiagge di sappia bianca situata di fronte alla più ben nota isola di Bali, l’isola degli Dei.
Si parte per quello che sarà uno dei viaggi più lunghi affrontati fino ad ora. Nel primo pomeriggio partenza da Milano Malpensa, primo scalo a Dubai. È quasi mezzanotte, ma l’aeroporto è in piena attività. Milioni di passeggeri di tutte le nazionalità vagano, assonnati, in questo enorme shopping center che offre tutto quello di cui puoi aver bisogno e tutto quello di più inutile ci possa essere. Da borsette firmate a scatole extra size di cioccolatini made in UK. Forse veramente interessati o forse solo per occupare il tempo d’attesa fra un volo e l’altro una fiumana di persone dai diversi credo, si muove freneticamente trascinandosi distrattamente quel minimo di bagaglio a mano consentito dalle nuove norme vigenti.
E le confezioni di pistacchi? Non immaginerete mai la quantità di pistacchi che si possono trovare sugli scaffali dell’aeroporto di Dubai; sembra che gli Emirati siano uno dei maggiori produttori a livello mondiale di queste leccornie.
Prossimo scalo previsto: Jakarta. Disbrigate le formalità doganali una breve sosta e ci affidiamo alla Garuda Airline per l’ultimo step. Un piccolo aereo ci accoglie per trasportarci a Mataran, l’unica “città” di Lombok. Il caldo ci assale, l’umidità è pesante. Sono le nove di sera e ci aspettano ancora due ore di macchina per arrivare alla nostra baia. La prima ora file liscia, riesco anche ad appisolarmi; la testa cade e gli occhi si sono fatti pesanti. Sonnecchio. Sono distrutta. Ho lasciato l’Italia più di 24 ore fa. La strada è asfaltata e l’autista procede con una guida delicata fintanto che non si arriva al bivio. Sobbalza. Mi desto. Abbiamo imboccato la strada dell’inferno: un viottolo sterrato si addentra nella foresta violandone i segreti. La percorriamo a passo d’uomo, nel buio più totale, passando fra, apparentemente improvvisati, villaggi di capanne dalle quali sbucano indistintamente bambini, cani, polli. Sul ciglio a fatica si distinguono gruppetti di uomini che fumano nel silenzio delle notte e qualche cane si azzarda ad attraversare la strada per andare alla ricerca di chissà quale speranza.
Ecco la baia. Con l’aiuto di un’esigua luce che un delicato e ridente spicchio di luna ci concede la si percepisce, distinguendone a stento i contorni. La marea è bassa. Raggiungo il piccolo guscio galleggiante che mi porterà sull’altra sponda immergendo i piedi in un mare dal fondo melmoso, ma dall’acqua tiepida. Sono stanca. Molto stanca. Il corpo risponde a stento ai pochi comandi che ancora riesco a impartirgli. Mi sento paralizzata. È l’una di notte e quello che desidero è un letto.
La sveglia non esiste, ci si alza con il sorgere del sole. Mi trovo in un cortese giardino tropicale dove palme cariche di frutti si protendono verso l’alto come a voler arrivare fin dove volano le sule. Un resort, l’unico nella baia, in miniatura. 3 bungalow per ospiti più pretenziosi e due camere essenziali con doccia in comune e un patio dove godere del fresco della sera. La spiaggia è deserta, proprietà di nessuno. È il punto di partenza e di arrivo dei pescatori che con grandi speranze affrontano il mare per un magro bottino. I bambini curiosi mi accompagnano, discreti, nella raccolta di conchiglie seguiti a loro volta da cani in cerca di carezze. Un piccolo villaggio reclama la sua privacy. Questa è Belongas Bay.
Si racconta che il proprietario del resort sia un australiano che innamoratosi della quiete del posto abbia costruito per se la struttura per poi ampliarla e offrirla a stanchi e curiosi viaggiatori. E si, perché bisogna essere curiosi per arrivare fin qui!
Hanno scoperto il Magnet: un scoglio, in mare aperto, di modeste dimensioni che sprofonda negli abissi che offre riparo a un piccolo faro. Il mare sbatte, e non sempre lo si riesce a raggiungere con le imbarcazioni messe a disposizione dal diving. Ci vuole attenzione prima di tuffarsi, la risacca non perdona e la corrente ti trascina, senza fare sconti, nell’oceano aperto.
Il gruppo è composto da 5 subacquei impazienti di entrare in acqua. L’emozione è tanta. Le aspettative alte. L’adrenalina sale. Una leggera colazione e siamo pronti. Chris, un ragazzo svizzero e Py, una sottile scultura marmorea, tutto nervi, nativo della baia, ci fanno da guida. All’unanimità abbiamo scelto, come battesimo del mare, proprio lui, il Magnet. Un briefing veloce e siamo pronti per i grandi incontri promessi.
Usciamo dalla baia e il mare cambia atteggiamento: è tormentato, non c’è più terra che ci protegga. Abbiamo lasciato il nido per addentraci in un mondo sconosciuto. I motori si abbassano e le onde vengono cavalcate con ossequioso rispetto.
La corrente è forte e difficilmente gestibile. Ora tira a sinistra, ora tira a destra, ora tira su, ora tira giù. Attenzione e esperienza sono fondamentali per gestire l’immersione.
La visibilità è mediocre e la temperatura dell’acqua dopo pochi metri si abbassa. 30 metri, è qui che dovrebbero apparire. Che emozione, scruto il blu. Pinneggiamo a ridosso del reef fino a raggiungere una paretina che ci protegge dalla corrente che incalza. Ci fermiamo. Il blu è silenzioso. Aspettiamo. C’è molta sospensione che blocca la visuale oltre l’infinito. Il tempo scorre e gli strumenti non mentono. Dobbiamo risalire, è impensabile una deco con queste condizioni del mare. Tutto nella più totale sicurezza. I grandi squali martelli non sono venuti all’appuntamento.
1 a 0 per loro: hanno vinto una battaglia, ma non la guerra. Ci prepareremo al contro attacco!
Pollo, riso e verdure: tutto è piccante e speziato. Sarà la nostra dieta per i prossimi giorni inframezzata da pesciolini dal sapore di mare. Un gusto molto lontano dalle nostre abitudini. Il palato ne è infastidito, ma se ne farà una ragione.
Nel pomeriggio una rasserenante passeggiata al Soft Coral Garden dove ci aspetta un pianoro ricoperto di alcionarie multicolori alla ricerca del bizzarro Orango Crab. Rilassante.
Il tramonto arriva presto. Siamo vicini all’equatore il sole lascia educatamente il posto alla sorella luna. Le stelle vengono oscurate da prepotenti nubi che non riescono a ribellarsi al vento che le allontana dolcemente. Una stella cadente: esprimo un desiderio, domani sarà un gran giorno.
Il canto del gallo annuncia il nuovo giorno. Ci riproviamo. Il gruppo è lo stesso e la speranza di incontrare i grossi martello accelera i preparativi. C’è frenesia, impazienza. Massima attenzione alla corrente e con un tuffo sincronizzato siamo tutti in acqua. Come ligi soldatini seguiamo Py che con occhi esperti scruta nel blu. Un branco di barracuda appare e scompare nell’immenso, aiutato dalla scarsa visibilità. Ombre grigie che si muovono in gruppo scandagliano con metodico rigore il territorio alla ricerca di facili prede. Siamo fiduciosi, qualcosa accadrà. Eccolo. Un grosso esemplare appare da dietro un pinnacolo. Rallenta, si lascia guardare, poi con un colpo di coda si allontana dalla nostra vista. Magnifico, imponente, maestoso. Una possente macchina da guerra da un corpo affusolato e dal caratteristico muso schiacciato a “T” alle cui estremità alloggiano due occhi vigili e attenti. Ad oggi nessuno biologo o zoologo ha ancora saputo dare una spiegazione al perché la natura lo abbia dotato di questa bizzarra testa, solo ipotesi non supportate da studi che ne comprovino la validità. Possiamo risalire con ancora l’immagine del grosso Signore del Mare leggero e padrone del suo mondo che ci ha voluto regalare un po’ del suo prezioso tempo. Abbiamo pareggiato i conti.
Paura. Stupore. Meraviglia. Sgomento. Ammirazione. Un turbolento susseguirsi di sensazioni che porterò sempre con me.
Ma il grande libro del destino aveva in serbo per me ben più forti emozioni: tutto sarebbe accaduto il giorno successivo.
Sembrava un’immersione tranquilla, a ridosso di una parete. Ci prepariamo, e un tuffo ridesta i sensi intorpiditi dal caldo sole ormai alto, i cui raggi, come frecce di fuoco, trafiggono l’acqua illuminandone le parti più intime. Ho la torcia con me, c’è una grotta da esplorare. Iniziamo la dolce discesa accolti da una miriade di pesciolini dai nomi scontati. Sento che l’acqua si fa più dura, la pinnata ha bisogno di più energica man mano che procedo. È un attimo, ci troviamo in un vortice a “lavatrice”. Sballottati in tutte le direzioni. Sembriamo fragili bandierine in preda al capriccio dei venti. Difficile mantenere l’assetto. Disorientati. Arranchiamo. Cerchiamo di afferrare un appiglio per riordinare le idee. Preso. Un po’ di affanno per lo sforzo, ma siamo riusciti a uscire dal turbine che ci aveva inghiottito. Un ok collettivo: possiamo continuare l’immersione. Ecco la grotta. Entriamo. La luce naturale si affievolisce e viene rimpiazzata dalle potenti torce che fino a quel momento pendevano inermi dai ganci dei jacket. Rimango indietro, sono l’ultima ad entrare. È abbastanza ampia e poco profonda, ci si muove bene. Lo visto solo all’ultimo momento. Era enorme, almeno così lo ricordo. Vicino. Troppo vicino. Indietreggio. Ho la parete che mi blocca. Più di così non posso. Un grosso pinna bianca oceanico rintanato e assorto nei suoi pensieri, disturbato dall’improvviso fragore cerca una via di fuga. Scatta, è veloce. Non capisco. Mi punta. Vira. Mi sembra nervoso. È indeciso. Torna verso di me. Sono bloccata, non posso arretrare. Ho la luce ben salda puntata sui suoi movimenti. Sono quasi a scatti. Le pinne pettorali si mostrano in tutta la loro ampiezza. Lo sguardo è vitreo. Non traspare nessuna emozione. Non lo perdo di vista. Mi sento in gabbia. Sono paralizzata. Impotente. Sono pronta a colpirlo con la torcia quando fortunatamente imbocca l’uscita della grotta. Certo che l’animo umano è un intreccio di sentimenti contrastanti fra di loro: terrore, curiosità, incoscienza, sbigottimento, paura, una matassa aggrovigliata difficile da dipanare. Un’elettrizzante scarica di adrenalina ha ridato impulsi al cuore che per un attimo aveva cessato di battere. Il respiro è tornato normale e le bolle che fluttuano verso l’alto ne sono la prova.
Risaliamo leccandoci le ferite e contando i lividi che la “centrifuga”, senza farci sconti, ci ha procurato sbatacchiandoci, come bambole di pezza, contro la parete.
La sera ci ridiamo su davanti a una buona birra fresca. Il silenzio è interrotto solo dai gechi che approfittando delle luci accese confidando in una buona caccia. Falene, zanzare, moscerini non tardano ad arrivare, spintonandosi, quasi facendo a gara per arrivare primi alla fonte luminosa inconsapevoli del fatto che probabilmente sarà la loro ultima notte.
E un’altra alba ci sorride: The Cathedral sarà la nostra prossima immersione. Un imponente pinnacolo che sprofonda in verticale quasi a formare un perfetto angolo retto con il fondo sabbioso le cui pareti pullulano di vita: ventagli di gorgonie abitate da gamberetti e granchi in miniatura, coralli a frusta che svogliatamente si proiettano nel blu quasi a volerci catturare, alcionarie che si vestono con i colori dell’arcobaleno, spugne e incrostazioni si alternano seguendo chissà quale schema. Si scende ammaliati dallo spettacolo che si lascia assaporare poco alla volta accompagnati da serpenti bianchi a righe nere indifferenti ai nostri schiamazzi. L’acqua è limpida, cristallina e i raggi del sole ci tengono per mano fino ai piedi della massiccia formazione rocciosa: abbiamo raggiunto i 40 metri dove ci aspetta una piccola grotta che ci invita ad entrare. Solo il tempo di una sbirciatina che dobbiamo risalire. I 40 metri richiedono rispetto.
Risaliamo in barca pronti ad affrontare il rientro. Si balla e lo stomaco reclama. Il capitano cerca di domare la barca, impartendogli sordi e duri comandi, il motore ruggisce ma se lo si ascolta con attenzione pare un gattino indifeso. Una volta entrati nella baia tutto si quieta, i volti si rilassano e lo stomaco torna a sorridere.
Domani sarà l’ultimo giorno. Sarà la volta di Gili Sarang.
La barca è pronta per farci da scorta nell’ultima passeggiata in questo mare straordinario prima del congedo. Ultimo controllo e l’oceano delicatamente ci inghiotte spalancando ancora per una volta le braccia per renderci partecipi dei suoi più profondi segreti.
Ci accoglie una stupefacente e gioiosa formazione di Mobule, sorelle minori delle più maestose Mante. È uno spettacolo mozzafiato. Le seguo. Cerco il loro sguardo. Sono schive, non si lasciano avvicinare troppo. Non mi permettono di entrare a far parte della loro formazione. Ci osserviamo. I loro movimenti sono lenti, leggeri e vellutati come petali di rosa. Sto assistendo ad una danza i cui passi seguono il ritmo di una sinfonia appositamente composta per loro da grandi maestri. Le osservo dall’alto. Sotto di me volano eleganti senza scomporsi. Raggiungo i 25 mt. Ora volteggiano sopra di me. I ventri bianchi che quasi scompaiono, annientati dalla luce del sole, formano un grosso ombrello al cui passaggio i coralli, oscurati dalla grande ombra, si inchinano con fare reverenziale.
Si allontanano. Sono arrivati alla fine del Red Carpet e come grandi star, dopo aver concesso autografi e scatti fotografici ai fan più pazienti, si congedano.
Risaliamo con la gioia nel cuore.
L’aereo rulla sulla pista pronto al decollo. È giunta l’ora di tornare a casa.
Ringrazio il grande Dio Nettuno, Signore di tutti i mari, per avermi svelato parte, anche se piccolissima, dei segreti del suo regno.
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