Autore testo: Pierpaolo Montali
Autore foto: Mario Spagnoletti
Anni fa avevo il desiderio, quasi una sorta di frenesia potrei dire, di cercare qualunque cosa fosse sott’acqua ed a prescindere da un suo reale interesse storico-testimoniale.
Fu così che in quest’ottica mi gettai alla ricerca di qualcosa di nuovo da fare nel Maggiore, il bacino idrico di acque dolci più grande e più vicino a dove abito.
Un giorno dunque conobbi per caso, sulle sponde lombarde del lago, a Castelveccana nella provincia di Varese, Alex, un subacqueo importato dalla Calabria, ma adattatosi perfettamente alla modalità autenticamente intraprendente ed aperta meneghina; egli era in risalita da un’immersione tecnica appena conclusa con Roberto, suo socio di allora, sul maestoso paretone di roccia bianca calcarea, che ogni subacqueo tecnico di zona ben conosce per essere stata un’ottima palestra d’uso dei primi cimenti di quel genere agli inizi degli anni novanta del secolo andato.
Non appena ci conoscemmo scambiammo le nostre considerazioni superficiali sul luogo e sulle attrezzature, come fa ciascuno quando incontra un altro sub in giro, per poi passare a considerazioni di carattere generale ed alla condivisione del desiderio di fare appunto qualcosa “di nuovo”.
Generosamente così Alex mi parlò dei Barconi di Caldè, svelandomene l’esistenza.
Non li conoscevo. Fui stupito dal fatto che si trovassero a poche centinaia di metri in linea d’aria da dove mi ero immerso decine di volte e che fossero raggiungibili addirittura da riva a nuoto, seppur con un po’ di fatica, carichi della necessaria attrezzatura termico decompressiva da lago, oltre che di quella da foto-video ripresa.
Si trattava, a suo dire, di vecchie barche sfondate che giacevano sul fondale melmoso del porto turistico del paesino rivierasco di Castelveccana, che taluni andavano a fare, ove possibile, come ripiego in certune giornate di bel tempo, quando il piazzale antistante il paretone citato era troppo pieno di auto e non aveva piovuto di recente, dal momento che esse si trovano proprio al termine della corsa del Torrente Froda, che, appunto, durante le precipitazioni, riversa ogni sorta di detrito immaginabile, rendendo l’acqua talmente torbida da non riuscire a leggere nemmeno gli strumenti al polso.
La prima volta quindi ci andai con i miei due nuovi amici e Margie, un’altra amica subacquea tecnica anch’ella, che venne con il suo fidato rebreather apposta dalla Liguria, dove abita, per vedere queste storiche rarità: due relitti in un lago.
Seguirono altre immersioni sul posto ed anche fatte nel giorno sbagliato, cioè dopo un diluvio con acqua a visibilità zero; sino a quando non conobbi Mario, al quale anni dopo proposi l’immersione un po’ particolare.
Nel frattempo ero anche riuscito ad individuare una boa di superficie, di quelle da ormeggio delle barche a vela durante le fredde, interminabili e melanconiche giornate d’inverno sul lago, che ho posizionato tante volte in gioventù e che ora ci avrebbe potuto fare da guida sicura sulla caduta in verticale diretta al primo dei due relitti, per nostra fortuna il più profondo, sito a circa 36 metri. Tale piccolo artifizio faceva sì che ci si potesse trattenere più a lungo sull’imbarcazione affondata, risparmiando evidentemente del prezioso tempo di esposizione agli inerti, oltre che concedere il tempo giusto allo scatto del fotografo ed alla ripresa del video operatore, che giungevano così direttamente sul relitto senza sporcare troppo l’acqua circostante, come invece si sarebbe inevitabilmente fatto invece giungendo dalla riva a nuoto sott’acqua.
L’interesse storico verso questo tipo di imbarcazioni si può dire che sorse in me quasi spontaneo: esse giacevano infatti inermi e spoglie (salvo la seconda con ancora il suo vecchio motore al proprio posto) sul nero e silenzioso fondo del lago, quasi avessero voluto comunicarmi qualcosa ed in un certo senso mi chiedessero di tirar fuori dal buio dei ricordi, oltre che le loro immagini, anche la loro datata e particolare storia. Mi incuriosì moltissimo capire di chi fossero state, perchè se ne fosse voluto, o dovuto, spogliare ed in quali circostanze lo avesse fatto: un’imbarcazione, per umile che essa sia, è pur sempre un mezzo di trasporto insostituibile per chi abita in riva ad un lago e trovarne addirittura due uguali a poche decine di metri una dall’altra mi poneva al centro di una sorta di enigma logico-storico.
Il primo barcone si trova ad una profondità di circa trentasei metri, adagiato sul fondo fangoso in declivio verso il basso, con la prua che dà verso riva, in perfetto assetto di navigazione e spoglio dell’ipotetico motore che doveva avere verso la fine del suo servizio (ipotesi questa non sostenuta da altro se non dal confronto con l’altro presente a poca distanza). Esso mantiene intatta la propria struttura costruttiva, che l’amico e grande conoscitore di imbarcazioni del passato, Cesare Montagnoli, ha riconosciuto, dalle immagini che gli ho trasmesso, come quella inconfondibile del tipico Comballo Lariano, armo in legno scavo e a vela latina che veniva usato in tutta l’area del Lago di Como come mezzo da trasporto generico, oltre che da pesca.
L’immersione sul relitto più profondo è molto rapida, poiché le dimensioni del medesimo permettono di girarlo tutto in pochi attimi. E’ nel momento in cui il subacqueo passa oltre con il pensiero e comincia a porsi delle domande che il tempo non basta più e l’ambiente in cui esso si trova diviene ostile a causa della bassa temperatura dell’acqua, del buio assoluto e della sottilissima polvere che si alza dal fondo anche se si è pinneggiato in modo perfetto.
Il barcone svela allora la sua parte poppiera bassa e verosimilmente adatta alla salita e discesa a bordo di carretti o carriole, così come la sua zona prodiera distintamente ribaltabile.
Nessun nome compare sui suoi fianchi, nessun reperto differente che lo possa collegare ad un proprietario o ad un uso specifico; soltanto il suo lunghissimo remo timone a poca distanza che facilmente si può scambiare per l’albero di mezza via. A quattro metri da esso l’enorme blocco di cemento che ferma la boa di superficie e che (ci si augura) deve esser scivolato sul fondale in pendenza da un precedente e più sicuro suo posizionamento più in alto.
Dal primo barcone, a ritroso e verso la superficie, si può così nuotare, tenendo scrupolosamente la curva batimetrica dei 22 metri, sino al secondo e meno profondo relitto.
Esso è in pessimo stato di conservazione, avendo la struttura prodiera completamente distrutta ed infossata nel limo, pur conservando invece eccezionalmente integro il motore, con i suoi segni distintivi: lo scarico dei gas, la zona di arricchimento della miscela di scoppio con lo stampo ancora leggibile della scritta CARBURATORI MILANO, il meccanismo della trasmissione all’albero, la testata in monoblocco di ghisa.
Quella che dovrebbe essere intuibilmente la poppa dell’imbarcazione, verso i sedici metri, risulta sollevata dal fondo lago per via dell’inserzione di una staffa a “V” al di sotto di essa, quasi si fosse voluto trasformare una chiglia piatta e tipicamente planante in dislocante per volerne velocizzare il movimento in acqua.
Quest’ultima considerazione mentale subacquea mi fece scattare quell’ingranaggio tipico di chi, come me testardo e costante, vuole avviare la rivelazione della verità su di un fatto poco noto.
Cominciai così subito dopo quell’immersione la ricerca delle notizie in loco e dove meglio se non nella medesima zona portuale? Mentre mangiavo un gelato al termine della messa in ordine delle attrezzature subacquee, chiesi alla gentile barista se mi avesse saputo dare informazioni su quei due barconi sommersi che avevo avuto il piacere di vedere sott’acqua poco prima; ella mi disse che certamente il Signor Filippo Carullo, pur di Milano, mi avrebbe saputo raccontare la storia dei due relitti.
Mi diede il suo numero telefonico e mi disse che lo avrei potuto contattare tranquillamente, che egli aveva persino curato l’edizione di un libro storico sul Comune, nato per Regio Decreto del 07/06/1928 dalla fusione dei due precedenti comuni di Castello Valtravaglia e di Veccana.
Così feci ed il Carullo, quando fu da me contattato rispose, con la disponibilità e la predisposizione d’animo che solo una persona dotata di grande intelletto sa dare al prossimo: fu completamente disponibile e mi invitò a casa sua per visionare alcuni documenti, proponendosi poi di reperirmene in seguito degli altri.
Appresi allora dal racconto dei suoi ricordi e dal libro edito dal Comune di Castelveccana nel 2008, in occasione delle celebrazioni relative all’ottantesimo anniversario della nascita del Comune stesso, della significativa presenza in loco della cava e della connessa fornace di Calce Idraulica, di rinomata qualità, che era stata prodotta con il taglio della rocca, ben visibilmente sventrata dalle esplosioni controllate degli ingegneri minerari dell’epoca, sino agli anni ‘cinquanta a seguito dell’esaurimento della vena e dell’economicità della sua produzione.
La sua produzione è provata addirittura già del 1283, allorché, negli Statuti di Travaglia era contemplato l’obbligo, per gli abitanti di Caldè, del pagamento di un tributo di tale calcina per la disinfezione delle cisterne e la manutenzione delle mura del castello che sorgeva sulla Rocca e che fu poi distrutto dagli Svizzeri nel 1513 quando occuparono la costa sino a Luino per rifarsi degli aiuti economici che avevano precedentemente offerto a Ludovico Sforza (detto il Moro) nella guerra perduta contro i Francesi.
La calce era fatta cadere per precipitazione all’interno dei barconi, che all’epoca erano definiti piate o scave ed erano sostanzialmente degli scafi di legno catramato a fondo piatto con un casotto di assi a poppa via dove, nei tempi moderni, s’era alloggiato un motore a scoppio. A prua avevano un albero su cui veniva issata una vela quadra per poter sfruttare il vento quando soffiava in favore per l’inversione termica delle correnti d’aria tipica dei nostri grandi laghi pre-alpini.
Taluni definivano codeste imbarcazioni burchi, o burchielli, tuttavia, al di là del vero nome identificativo, esse costituirono il mezzo di trasporto e di lavoro principale della gente del lago, almeno sino agli inizi del ‘novecento, allorquando venne completata la strada Laveno-Luino che diede allo sponda magra, o “sponda intatta” un suo alternativo collegamento terrestre.
I barconi trasportarono così per secoli , attraverso le acque del Lago, quelle del Ticino e dei navigli, tale prodotto, macinato prima e cotto poi nelle fornaci di Caldè, sino ai grandi cantieri di Milano e di Pavia. I ricordi del passato vanno allora sino al trasporto con questo tipo di imbarcazioni dei famosi marmi di Candoglia, località tra Pallanza e Domodossola, ove era sita la cosiddetta Fabbrica del Duomo di Milano: ancora oggi i restauri del prezioso monumento nazionale non prescindono dall’approvvigionarsi in loco per necessità.
Dopo tanti dati storici restava tuttavia nella mia mente irrisolto il mistero del loro affondamento, volontario od accidentale. Perché i barconi di Caldè stanno là sotto?
Secondo Carullo essi furono affondati volontariamente negli anni ‘cinquanta dai loro proprietari, quando il progresso e l’economia del boom economico cambiò abitudini e metodi di lavorazione degli Italiani.
Nella mia ricerca storico ambientale ho però rintracciato notizia di un loro utilizzo anche durante gli eventi della seconda guerra mondiale e di tale informazione dunque tocca dar riferimento in questo pezzo. In epoca post armistizio tale sponda del lago fu spesso utilizzata da esuli politici, militari alleati sfuggiti ai campi di concentramento ed ebrei in fuga verso la Svizzera poiché fortemente compenetrata dalla presenza di partigiani aderenti al C.L.N., oltre che delle milizie della R.S.I. e dell’esercito tedesco ormai anch’esso in rotta ed in ritirata.
Due episodi sono a mio giudizio significativi e da porre a confronto con la spiegazione offertami da un pescatore locale sulla presenza in fondo al Lago dei Barconi: essi sarebbero stati affondati per aver svolto un lavoro che non avrebbero dovuto svolgere e per non farli cadere nelle mani di Tedeschi e Repubblichini in fuga loro volta verso la Svizzera nei primi mesi del 1945.
Filippo Carullo ricorda il primo dei due, un episodio di cronaca di guerra accaduto agli inizi del 1945 di cui fu involontario ed infantile testimone oculare: aerei anglo-americani mitragliarono un battello passeggeri della Navigazione Lago Maggiore che aveva appena lasciato il porto di Intra. I morto ed i feriti furono circa una trentina, lo scafo, colato a fondo, deve essere stato ripescato negli anni ‘sessanta. Si dice ancora che i piloti alleati avessero scambiato u gruppo di seminaristi n pellegrinaggio per militare della R.S.I. in trasferimento.
Il secondo episodio attiene al mitragliamento nel 1944, ad opera dei Tedeschi, di un barcaiolo sulla propria imbarcazione per il sospetto di aver traghettato degli Ebrei in Svizzera. Questi non si era fermato all’ordine di ALT immediato impostogli dalla riva poiché probabilmente divenuto sordo per l’età avanzata; di fatto fu ritrovato ucciso con una raffica di mitra ed alla deriva sulla sua barca, una scava o piata lacuale, reo di aver fatto parte di quell’aliquota di pescatori che di notte traghettarono personaggi che sarebbero divenuti in seguito anche illustri, come Indro Montanelli, o Mike Bongiorno in fuga da San Vittore a Milano, mentre gettavano le loro reti in Lago.
Qui ci ferma volutamente, poiché la storia si mescola e compenetra fortemente con la tradizione popolare ed i ricordi ancora vivi di fatti dolorosi, che nulla vogliamo abbiano a che fare con il racconto e le immagini di sommozzatori curiosi…
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