Il mare d’inverno – è un concetto che il pensiero non considera…
Improvvisamente mi vengono in mente le parole di questa vecchia, bellissima, canzone di Ruggeri, che parla di sabbia bagnata e di vento che agita cose ed anime. In realtà siamo ancora in pieno autunno, ma le sensazioni legate al tempo sono molto diverse da quelle che la Berte’ cantava anni fa: ci sono 22 gradi, mare quasi piatto ed un cielo blu intenso. Una vera estate indiana.
È quindi solo con emozioni positive che mi accingo a scendere sul relitto dell’Oued Tiflet, uno dei più conosciuti e belli del Mar Ligure, famoso per la facile accessibilità delle sue stive e la fantastica poppa a coppa di champagne. Sono sul gommone del fido diving di Loano, compagno di tante avventure, insieme ad una guida e tre subacquei tecnici con bibombola e decompressive; io sono dotato di un semplice mono da 18 litri e della mia macchina fotografica, con la quale spero di essere più fortunato della mia ultima immersione su questo relitto.
Il fondale di sabbia fine gioca infatti spesso brutti scherzi alla visibilità, molto variabile e poco prevedibile, anche in assenza di correnti o precedenti mareggiate. È la mia terza volta sul Tiflys e sono stato finora mediamente fortunato: la prima fu spettacolare (ma senza macchina fotografica), la seconda orribile, la terza… sarà una via di mezzo.
Una nota: i vecchi subacquei chiamano la nave Tiflys o Tifflys, ma il vero nome del vapore era Oued Tiflet, derivante da un fiume (uno uadi) che si trova in Marocco, in quello che una volta era territorio francese.
Un po’ di storia del Oued Tiflet
La nave viene varata nel 1914 a Stettino, allora territorio tedesco e sbocco al mare di Berlino, nei cantieri Nuschke & Co. per conto della Compagnia Sprenger W., con il nome SS Kate Martha. Si tratta di un vapore in acciaio di 71,4 metri X 10,8 x4,3 di altezza e di 1194 tonnellate di stazza lorda, mosso da un motore a triplice espansione ed una sola elica che lo può spingere fino a 10 nodi di velocità massima. Viene quindi subito ceduta alla Thode Joh. di Altona, nella zona di Amburgo, ma improvvisamente scoppia la Grande Guerra e la Kate Martha viene catturata dai russi a Riga, che la inseriscono nel loro naviglio con il nome di Gruzovoi. Nel 1918 ritorna ai legittimi proprietari, che la fanno navigare per i mari del mondo fino al 1924, anno in cui viene definitivamente ceduta alla Compagnie de Navigation Paquet che ne cambierà il nome in Oued Tiflet e la destinerà al fiorente commercio con il Marocco. La Paquet, fondata nel 1860, approfitta infatti della nascita del protettorato francese nell’area di Rabat per inserirsi nei prosperi traffici con la madrepatria. Per curiosità, quanto rimane della compagnia di navigazione in tempi più recenti verrà ceduto a Costa Crociere, che ne farà sopravvivere il marchio come agenzia di viaggi.
Alla fine del 1942, la nave, che si trova nella zona della Francia di Vichy, viene ceduta ai tedeschi, che la utilizzano per il trasporto delle merci tra Marsiglia e Genova.
Il 14 gennaio 1943 è una giornata di pioggia forte e scarsa visibilità lungo le coste liguri, ed il vapore sta navigando verso il capoluogo; di fronte a Loano la attende però il suo destino, impersonificato dal sommergibile inglese Sahib, comandato dal ten. John Bromage. Come riporta il diario di bordo della nave inglese, l’Oued Tiflet viene avvistato alle 12.47; giusto il tempo di mettersi in posizione ed attendere l’occasione più propizia ed il Sahib alle 13.05 lancia 3 siluri. Di questi, uno colpisce la nave vicino alla prua. È la fine: in pochi minuti il vapore affonda, lasciando un disperso e 17 sopravvissuti, portati a riva probabilmente dai pescatori della zona.
Vale la pena però parlare di questo U-boat inglese, a causa soprattutto di una brutta storia di cui fu protagonista e sulla quale si sta facendo luce solo negli ultimi anni.
Il sommergibile Sahib (P212) faceva parte della S-class, la più numerosa mai costruita dalla marina britannica (62 navi). Erano piccole, micidiali macchine da guerra concepite per il mare del Nord ed il Mediterraneo; si tratta di imbarcazioni di 66 metri x 7,16 x 3,4 di 814 tons in superficie e 990 sott’acqua, mosse da motori diesel elettrici in grado di dare loro una velocità massima di 15 nodi circa in superficie e 8 in immersione. Erano armati con 6 tubi lanciasiluri da 533mm a prua ed un altro a poppa, oltre ad un cannone da 76mm, un antiaereo da 20mm e 3 mitragliatrici; 49 gli uomini di equipaggio.
Il Sahib viene varato nel maggio 1942 e presto destinato al pattugliamento del Mare Nostrum per la caccia ai mercantili italo tedeschi, in particolar modo nella tratta che porta merci e truppe al fronte africano. Durante la sua carriera affonderà fra velieri e mercantili una dozzina di imbarcazioni, oltre al sommergibile tedesco U-301.
Nel novembre 1942 in Africa Settentrionale è il caos: la seconda battaglia di El Alamein è già stata combattuta e le truppe italo tedesche sono in ripiegamento. Portano con loro i prigionieri fatti durante le ultime fasi delle campagne, che sono normalmente in condizioni fisiche e sanitarie riprovevoli; questi uomini devono essere imbarcati e mandati in Sicilia, mediante le navi che all’andata portano a Rommel rifornimenti e truppe. Gli inglesi lo sanno bene e ordinano pubblicamente ai loro U-boat di attaccare solo le navi in direzione africana, astenendosi dall’affondare quelle di ritorno.
A Tripoli 814 prigionieri inglesi vengono imbarcati su una carretta del mare: il piccolo mercantile Scillin, classe 1903, di 1591 tonnellate, che ne poteva caricare nelle stive al massimo 300. Le condizioni igienico sanitarie sono terribili, soprattutto con uomini che soffrono di ferite e dissenteria; i prigionieri non hanno lo spazio per sdraiarsi e non ci sono neppure i giubbotti di salvataggio. Con loro qualche soldato italiano di guardia (ipotizzati 200 militari, ma più probabilmente non più di 30, oltre all’equipaggio), che si trova sul ponte della nave insieme all’ufficiale medico inglese e poche decine di malati che non sono in condizioni di stare nella stiva.
Il 14 novembre 1942 alle 19.29 il Sahib vede una nave oscurata dirigersi verso Palermo; Bromage si accorge della mancanza di naviglio di scorta o di armamento su di essa e dalla superficie spara 15 colpi di cannone, di cui 10 a segno. La nave lancia un segnale di SOS ed il capitano inglese lancia un siluro, che colpisce la stiva dove si trovano i prigionieri, uccidendone buona parte. La nave affonda immediatamente, portando con sé tutti gli uomini che si trovano sottocoperta. Il Sahib si avvicina per soccorrere eventuali superstiti e dal sommergibile si accorgono con orrore che qualcuno sta parlando inglese. “Ci sono inglesi laggiù?” gridano. Dal buio la risposta: “No, sono Scozzese”.
Sono terrificati. Raccolgono tutti quelli che possono: 27 britannici e 35 italiani, e si quindi si dirigono alla base di Malta. Qui viene nominata una commissione di inchiesta, dove comincia una prima fase di correzione della realtà, ad opera del ten. Bromage. Dichiara infatti di aver sparato 2 colpi di avvertimento, ai quali la nave non ha risposto, né si è fermata (contrariamente a quanto scritto sul diario di bordo). Inoltre che non era sulla rotta per Palermo, ma palesemente diretta verso l’Africa.
Il comandante e l’equipaggio vengono quindi prosciolti da ogni accusa. Al termine del conflitto la vicenda viene invece inserita nella lista dei possibili crimini di guerra da parte italiana, per la mancanza dei giubbotti ed il sovraffollamento della nave; il tutto andrà a finire in niente, per la situazione dell’epoca e la mancanza di prove relative ai maltrattamenti.
Però… la notizia dell’affondamento verrà dai responsabili dell’Ammiragliato inglese insabbiata e messa sotto silenzio; ai parenti delle vittime verrà detto che i loro cari sono deceduti nei campi di concentramento italiani oppure “missing in action”, semplicemente dispersi.
Perché? La vicenda, pur terribile, non ha senso. L’u-boat ha affondato alla fine quella che credeva una nave nemica piena di truppe destinate al fronte africano.
La storia ha cominciato ad venire alla luce solo nel 1996, 54 anni dopo i fatti, in seguito al perdurare della lotta condotta dalle famiglie dei dispersi, che non hanno mai cessato di voler sapere la verità. Fra di essi un deputato britannico di nome Brian Sims, il cui padre era tra i morti dello Scillin, che è riuscito a trovare dei documenti decisamente scottanti, che hanno finalmente chiarito la vicenda.
Gli inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale avevano un’arma segreta: Ultra, la macchina capace di decifrare i messaggi di Enigma e sapere in anticipo le mosse del nemico. La sua esistenza andava tenuta nascosta a qualsiasi costo.
L’Ammiragliato sapeva quindi della rotta dello Scillin, e ne aveva dato le coordinate al comandante Bromage. Questi era stato quindi inviato ad affondare la nave italiana, all’oscuro della presenza dei prigionieri di guerra inglesi, ben nota invece ai suoi Comandi. Da qui l’orrore alla scoperta della verità.
L’Ammiragliato aveva deciso quindi di sacrificare i propri uomini allo scopo di difendere il segreto di Ultra: se gli inglesi affondano le navi cariche di prigionieri, è ovvio che non possono sapere (accadrà 6 volte durante la guerra). Alla fine del conflitto, con il clima politico e morale decisamente cambiato, la vicenda continua ad essere scottante: chi si assume questa responsabilità? Meglio quindi mantenere il segreto. Su tutto. Ultra diverrà nota solo negli anni settanta, la tragedia dello Scillin 20 anni dopo. Gli uomini e l’orrore della guerra.
L’immersione sull’Oued Tiflet
Io invece, come dico sempre, vivo in tempi molto più facili e sereni, e mi sto dirigendo verso il punto d’immersione dell’Oued Tiflet, vicinissimo al porto di Loano. I miei compagni tecnici si preparano faticosamente, e tutti insieme poi ci lanciamo veloci come paracadutisti lungo la sagola che dal relitto porta verso la superficie.
Il relitto poggia su un fondo sabbioso a circa 50 metri di profondità; la poppa, in assetto di navigazione è davvero in ottime condizioni, mentre la prua, divelta dal siluro è staccata e poggia su di un fianco, coperta dalle reti. È magnifica la visione del grosso timone con l’elica, sovrastata dalla famosa poppa a coppa di champagne, caratteristica di molte navi della sua epoca; agevole e sicuro il passaggio nelle due stive di carico, dove risiedono normalmente mostelle e aragoste. Ricordo un grosso grongo che, uscito improvvisamente da un buco, anni fa si diresse veloce verso la mia faccia, facendomi prendere una strizza da paura.
Oggi purtroppo la parte sotto il ponte di coperta e le stive stesse sono in mezzo ad una densa nebbia, impedendomi di scattare foto; il ponte è invece discretamente visibile soprattutto vicino alla poppa. Tentiamo di dirigerci verso lo squarcio, ma non è proprio giornata e quindi ritorniamo presto sui nostri passi. Improvvisamente mi trovo davanti un pesce luna, uno splendido Mola Mola che mi osserva e poi velocemente scompare nel blu; sono però riuscito a fare due scatti e sono felicissimo… e quando mi spiego a gesti con la mia giovane guida, ad essere disperato è invece lui. Ma sono cose che accadono: questa volta la fortuna è stata almeno un po’ dalla mia parte.
L’immersione è purtroppo breve, a causa della profondità che mi costringerà ad una ventina di minuti di decompressione. Chissà, magari la prossima volta riuscirò anche a fare un bello scatto della splendida poppa del Tiflys, come non riesco a smettere di chiamarlo.