Autore: Francesco Turano
Una decina d’anni fa avevo già messo in archivio una discreta manciata di foto che ritraevano il comportamento anomalo e sconosciuto di uno dei blennidi più grandi e belli del Mediterraneo, sempre grazie alle innumerevoli opportunità che il mare dello stretto continuava ad offrirmi. Dal profondo sud ero riuscito a partecipare le mie osservazioni alla redazione della rivista Aqva, a Milano, che a stento a pubblicava ancora qualche articolo di biologia marina grazie alla penna di Angelo Mojetta. Ad Aqva ero arrivato tramite Paolo Fossati, già collaboratore della rivista e diventato nel tempo un caro amico per la condivisione di tutta una serie di immersioni prima ai tropici e poi in Mediterraneo (in quel tratto di mare che gli avevo presentato e del quale anche lui si era innamorato e che distava pochi minuti dalla mia abitazione, sulla sponda calabra dello stretto…).
Fatto sta che i miei incontri ripetuti con Blennius ocellaris, la seconda bavosa della famiglia per dimensione dopo il Blennius gattorugine, dovevano necessariamente essere esposti ai subacquei, ai quali la bavosa non solo è poco nota ma, in alcuni casi, addirittura sconosciuta. Gli schemi di una redazione dove, a parte Angelo, erano in pochi a capire qualcosa di mare, mi imposero di dover passare a lui i miei testi, in quanto biologo ufficiale; le mie descrizioni venivano puntualmente filtrate, aggiungendo qualcosa e parlando di esperienze che, in fondo, ero stato io a vivere. Anche per la bavosa occhiuta accadde questa cosa e ne uscì un breve articolo di due pagine, appena sufficiente a illustrare un pizzico di novità su questo pesce la cui biologia è praticamente ignota e del cui comportamento in natura si sa molto poco. Ma più di due pagine non si poterono spedere: il blennide non aveva l’erogatore di marca da mostrare in copertina o la muta ultimo grido da proporre ai lettori…
Ho visto quasi sempre la bavosa occhiuta ben nascosta in rifugi di ogni tipo, a tutte le profondità. Potrei stilare un elenco di tane tutte diverse, soddisfacenti per un pesce stranissimo e dallo sguardo minaccioso, con l’occhio vigile che ti osserva dall’interno della sua abitazione. Barattoli di vetro, lattine di pelati, stracci aggrovigliati, pentole, tubi, bottiglie di vetro o plastica semidistrutte, bicchieri, boccali di birra, conchiglie vuote e altro ancora sono tra gli oggetti che per fattura e dimensione sono adeguati alle esigenze di un pesce introverso e scontroso, regolarmente aggressivo e anche molto coraggioso, territoriale da morire, specie nel periodo della cova delle uova, momento che vede il maschio particolarmente impegnato e sempre presente con o senza la sua compagna. Ho avuto la fortuna di assistere più di una volta alla cova delle uova e alle cure parentali di questa interessantissima specie. La scelta del nido, dalle osservazioni in natura e dai documenti raccolti su pellicola, credo proprio sia ben ponderata: ogni volta ho visto nidi che nascondevano quasi completamente le uova e che nello stesso tempo offrivano una certa protezione fisica alla femmina.
Il maschio, guardiano e protettore della futura prole, rimane accanto alla compagna ed esce dal suo rifugio solo per allontanare gli intrusi o procurare il cibo. Da lui dipende un po’ tutto, sembra anche l’ossigenazione delle uova all’interno del nido. Una volta incontrai due simpatiche bavose dentro un barattolo di vetro: mi accorsi della presenza delle uova dalla trasparenza del contenitore. Ma non feci in tempo a rendermi conto della situazione che vidi il maschio venir fuori rapidamente e aggredire a morsi le fodere di neoprene dei miei lampeggiatori. Il blennide, in un primo momento, uscì dal suo rifugio e nuotando a mezz’acqua fronteggiò l’intruso, osservandone l’aspetto e le intenzioni. Mi sentivo osservato da questo coraggiosissimo pesciolino e quasi lo temevo, pensando contemporaneamente a quanto “fegato” doveva avere lui per porsi al cospetto di un essere gigantesco e sconosciuto quale un subacqueo poteva rappresentare per un piccolo abitante del mondo sommerso. Attacchi a sorpresa, con morsi violenti, arrivavano puntuali e ripetuti. Una cosa analoga mi era capitata con i pesci pagliaccio in Mar Rosso.
Piccoli e sfegatati, questi blennidi, sono territoriali e incoscienti come pochi: tra una picchiata e l’altra il maschio tornava al nido e cingeva la femmina con il corpo e la coda; femmina pigra e sulle sue, che si affacciava appena dal rifugio solo per capirci qualcosa. La bavosa occhiuta è solita piegarsi a “U”, è un suo modo di essere caratteristico. Anche quando nuota, assume spesso un atteggiamento a “S”, ha cioè un nuoto serpentiforme, come se stentasse ad assumere una posizione lineare, che è tipico dei blennidi ma accentuato in Blennius ocellaris. Spettacolare e incantevole al tempo stesso è ammirare le evoluzioni che il grosso maschio compie lontano dal fondo quando osserva il nemico e si prepara a sferrare l’attacco. Lo spettacolo è dato da un lato dal suo atteggiamento e dalle posizioni che assume a pinne “spiegate”, dall’altro dal tipo di pinne, ampie e disegnate da raggi evidenti come bassorilievi, con una dorsale che è unica, alta come una vela e scolpita da un finto occhio nero bordato di bianco (da cui il nome del pesce); una dorsale i cui primi raggi sono lunghi e con le estremità libere, come filamenti fluttuanti, una dorsale grande nata dalla fusione delle due pinne del dorso in una sola, altra caratteristica comune alle bavose.
Per apparire più grande e temibile la bavosa sventola la sua enorme pinna sollevandola, mettendo in evidenza la macchia ocellate e ingannando il nemico o il probabile predatore. Così fa anche col subacqueo curioso e invadente, quale devo essere io quando, nelle vicinanze di un nido, mi soffermo molti minuti e scatto molte fotografie, aspettando i momenti migliori per cogliere la coppia negli atteggiamenti più intimi o il maschio sospeso nel blu durante le sue acrobazie a pinne tese. Ho dedicato intere immersioni all’osservazione di questi blennidi particolarmente intriganti. Lo sguardo cattivo di quegli occhi arancioni, sovrastati da pallide corna ramificate, le tondeggianti guance maculate, con quella grande e muscolosa bocca, sempre pronta a mordere quel che capita a tiro, mi hanno stregato e turbato sin dal primo momento, tanto che ancora oggi, quando incontro la bavosa occhiuta, mi soffermo molto e, quando posso, rompo le scatole al punto da farle aprire la pinna dorsale ed assistere almeno a una sintetica serie di evoluzioni, tanto per gradire…
La cura del nido e delle uova dura all’incirca una o due settimane, al termine delle quali nascono larve di circa 4 millimetri. Lo sviluppo del pesciolino è piuttosto rapido e quando raggiunge i due centimetri si nota già l’inconfondibile pinna del dorso. Mi è capitato di vedere esemplari di ogni dimensione in natura, ma mai abbastanza piccoli per analizzarne i caratteri in quella fase. Ho anche assistito ad azioni di caccia da parte di questa specie, svoltesi soprattutto durante le ore notturne. Vermi, piccoli crostacei e qualche pesciolino sono vittima delle sue passeggiate nel buio; e anche di notte eccomi ad intromettermi nel normale svolgimento dei ritmi della natura e a fendere l’oscurità con un bel fascio di luce accecante, che disturba non poco la bavosa. Irrequieta e nervosa, cerca di scappare per sfuggire alla luce, ma io la inseguo e fotografo, scatto e riscatto, aggiungendo luce su luce, questa volta lampeggiante e più intensa. Mi son sempre chiesto quanto incide l’azione di un fotografo in natura, quando invade un territorio, un angolo di mondo sommerso, dove ogni cosa si svolge in armonia secondo leggi precise, dove di notte tutto è silenzio, è quiete. Almeno in apparenza.
Oramai conosco bene la bavosa occhiuta. Non esiterei a definirla una delle più belle di tutte le bavose del Mediterraneo. Il suo corpo, alto e compresso fortemente ai lati, sfoggia una livrea striata di un colorito bianco-grigiastro o bruno-rosaceo di fondo con fasce più scure verticali. La testa è sempre più scura, specie sulle guance, direi quasi marrone, ed è caratterizzata da una evidente macchiettatura, con sfumature arancioni sotto la bocca e le guance che sfumano nel bianco del ventre. Tutti questi colori sono messi in risalto dalla mucosa che ricopre la pelle priva di squame, che fa apparire il pesce quasi verniciato, lucido e brillante. La peculiarità del capo di questo pesce è la sua struttura tozza e robusta: il profilo quasi verticale e gli occhi, ovali e inclinati, posti in alto, con la bocca carnosa e poco sporgente, sembrano fatti apposta per aumentare l’aspetto burbero di un pesce “forzuto”, reso ancora più minaccioso dagli splendidi tentacoli sfrangiati posti sugli occhi, che ne incattiviscono lo sguardo.
La bocca, notevole arma di difesa per questa specie che ne fa largo e frequente uso, ha una serie di piccoli denti con punte arrotondate, non visibili a occhio nudo. La presa delle mascelle sul nemico e formidabile: ho potuto constatarlo di persona, sulla mia pelle, e vi garantisco è formidabile. Ma gli occhi, quegli occhi arancioni e quella pupilla nera che rotea e che ti guarda e ti studia, sono e dir poco affascinanti; quando mi fermo e la osservo, la bavosa occhiuta mantiene inizialmente la calma e comincia a osservarti per capirti. Allora ecco iniziare un movimento continuo degli occhi: lo sguardo, e l’occhio con esso, si sposta da un lato, poi in alto, poi di nuovo in basso. Tutta una sequenza di rotazioni sul proprio asse, come solo i blennidi sanno fare, che in questa specie di grandi dimensioni (nello stretto la bavosa può superare i venti centimetri di lunghezza), rende questi occhi a dir poco interessanti. Occhi che sanno anche muoversi indipendentemente l’uno dall’altro…
Leggo sui libri che la riproduzione va da febbraio a settembre, ma non saprei confermare dati simili perché l’incontro col nido è sempre stato per me casuale e tutto è accaduto sempre in primavera o inizio estate. Per quanto riguarda l’habitat, si ritiene che questo pesce può trovarsi prevalentemente su fondi sabbiosi e fangosi e in questo caso credo di poter confermare non avendo mai incontrato una bavosa occhiuta in un ambiante di scogliera. I pendii di sabbia, fango e detrito delle due sponde dello stretto rappresentano l’habitat ideale per questa specie che predilige i fondi mobili, dove generalmente trova rifugio sotto un sasso o dentro una conchiglia, ma che apprezza molto i relitti degli oggetti più strani introdotti dall’uomo in ambiente sommerso. La si può trovare da una quindicina di metri di profondità (anche meno ma di rado) fino a 300-400 metri, praticamente in acque abissali.
Avrei molto ancora da raccontare sugli incontri con la bavosa, ma rischierei di svelare i segreti di molte avventure che, tutto sommato, ho vissuto da solo e ho condiviso soltanto col pesce, uno dei tanti amici di cola che hanno deciso di raccontarsi sul fondo del mare.
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