In un articolo pubblicato sulla rivista Scientific Reports un gruppo di ricercatori giapponesi descrive un nuovo metodo per censire i pesci presenti in un’area basato sulla presenza nell’acqua del DNA secreto dai pesci stessi.
In altre parole, i pesci durante le loro usuali attività fisiologiche rilasciano nell’acqua molecole di DNA, detto eDNA (external DNA). Da un secchio d’acqua, analizzato a dovere, si deduce quali pesci sono presenti nell’area, e con grande precisione anche: in un’area ad alta biodiversità, in una giornata di lavoro sul campo, solo raccogliendo secchi d’acqua e analizzandoli, i ricercatori sono stati capaci di trovare 128 specie diverse, cioè oltre l’80% delle specie censite in 14 anni di ricerca e 140 censimenti visuali (escludendo gli avvistamenti occasionali), e di identificare la presenza di certe larve di pesce, assai difficilmente individuate dal censimento visuale.
La notizia mi lascia un fondo di tristezza, perché è qualcosa che in qualche modo allontana il ricercatore dall’acqua. Perché durante la mia carriera di biologo marino e di subacqueo ho eseguito molti censimenti visuali di pesci (conteggio degli animali visti in immersione), e sono stato un sostenitore di questo metodo. E continuo a pensare che sia un metodo applicabile in molte situazioni, con costi ragionevoli, e che consente al ricercatore di vedere anche il comportamento dei pesci nel loro ambiente, le interazioni tra le diverse specie. Per contro il nuovo metodo, applicabile anche in molti ambienti irraggiungibili dall’uomo come acque profonde, ha sicuramente un grande potenziale. Mi inchino davanti ai bravi ricercatori giapponesi, ma non riesco a essere felice.