Autore: Claudio Di Manao
La fine degli anni ‘80 corrisponde all’espansione della subacquea che da sport d’elite si trasforma in sport di massa.
Gran parte della colpa di tutto ciò va attribuita agli istruttori, pagati a percentuale. E’ l’era della subacquea per tutti: le piscine degli alberghi si trasformano in campi d’addestramento e cambiano nome: diventano ‘acque confinate’. I mari non si chiamano più Mar Rosso, Mar dei Carabi, Oceano Indiano: si chiamano tutti ‘acque libere’.
Nasce subito uno scontro tra due generazioni: da una parte quelli che erano stati costretti a mesi e mesi di torture per ottenere un brevetto da principiante, e dall’altra quelli che in mezza giornata, o giù di lì, venivano portati immediatamente a visionare gli squali balena.
Alle incomprensioni iniziali se n’aggiunsero altre: la popolazione subacquea si arricchiva di diverse lingue e culture. Sulla scena apparivano subacquei indiani, cinesi, perfino senegalesi. Il mondo voleva andare sott’acqua: nasceva così l’esigenza di orientarsi in quella babele di lingue, abbigliamenti, didattiche e mentalità che affollarono presto i diving center del mondo. Serviva una guida in grado di aiutare i subacquei a capire meglio le caratteristiche dei loro compagni di immersione, i divemaster, i pesci, i coralli, i pericoli, e ad organizzare un po’ la barca senza perdite di tempo.
Il primo tentativo di classificazione risale al 1988 e si deve ad Helmut Caspar Weissbrau, istruttore di Francoforte che dopo un’attenta osservazione dei comportamenti tenuti a bordo da subacquei di diverse etnie, azzardò un primo criterio di classificazione basata sulla nazionalità.
Purtroppo però, mancavano le nazionalità dei paesi emergenti che, non essendo ancora emersi, tanto meno s’immergevano, e quelli a cui la PADI ancora non aveva detto che sì, che sott’acqua potevano andarci anche loro. Dobbiamo comunque a Helmut la nascita della ‘subacqueologia’.
Poi, nel 1991 lo svizzero Gilbert Poissonfritte, che prima di scappare alle Maldive aveva lavorato come psicoterapeuta a Ginevra, pubblicò un singolare articolo sul DAN Magazine, intitolato: ‘Profili psicologici dei subacquei, guida alla interpretazione di sogni, desideri e deviazioni tipiche di chi va sott’acqua’. Una svolta alla classificazione si deve poi al giovanissimo americano Julian F. Bubbles, istruttore in giro per i Caraibi, che all’impatto scioccante con vecchie attrezzature e metodi di immersione mai viste prima, nel ’95 impostò la sua classificazione secondo ere di appartenenza.
Nacquero così i termini ancora in voga di ‘Giurassic Diver’, ‘ Diver Herectus’ e ‘Diver Sapiens’. Il suo studio si rivelò preziosissimo per tutti, in quanto dalle attrezzature e dalle date dei brevetti si è in grado di capire in anticipo il tipo di infrazioni ed i rischi cui si andava incontro nonché il grado di allarme per pesci e coralli.
Il ’96 fu un anno d’oro per la subacqueologia. In quell’anno apparve anche il lavoro di Franz Von Bakter, grande esploratore, zoologo, nonché istruttore sub. Egli intuì che al fine di classificare i subacquei si dovevano applicare gli stessi criteri che s’erano adottati per i pesci. La sua nuova teoria portò alla compilazione delle prime tavole antropometriche sulla forma dei subacquei e sulla prima ‘Diver’s Identification Slate’, pubblicata nello stesso anno dalla Marine Trust di Vancouver. Ovviamente non mancarono le polemiche. Arrivarono le contestazioni di quelli che invece consideravano la ‘natazione’, vale a dire il modo di nuotare, il criterio fondamentale di raggruppamento.
Pur contestando Von Bakter, i suoi detrattori ne condividevano il principio basilare: i subacquei andavano classificati come i pesci. Nel 1998 Ralph van der Guss, istruttore olandese con un solido background di droghe leggere, lanciò pesanti accuse a tutti i lavori precedenti, ma soprattutto quelli di Von Bakter: paragonare degli esseri umani a dei pesci non era politicaly correct. Tra gli articoli con la sua firma ricordiamo:‘ Divemaster occidentali ed equipaggi nel terzo mondo: focolai di razzismo e di neo-colonialismo’, Diver magazine 1998; seguì:
‘Liberalizzazione dell’azoto e diritto alla narcosi.’ (Taucher, 1998) e più tardi, sempre per la stessa rivista: ‘Profondità ed eutanasia: il diritto inalienabile alla CNS toxicity’. (1999)
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