Record mondiale di immersione notturna all’Isola d’Elba, la rivincita dei Very Normal Divers Raid.
Da qualche mese mi occupo, insieme ad altri colleghi, dell’area comunicazione della mia didattica, la RAID Italia. È un’agenzia “giovane”, come molti di voi sapranno, ma nel giro di pochi anni è cresciuta parecchio, portando a casa risultati notevoli, come ad esempio due record mondiali.
Il primo, nel settembre 2015, per la catena umana subacquea più lunga al mondo, nelle acque dell’Isola d’Elba. Il secondo, sempre all’Elba, è stato appena chiuso:
sabato 17 settembre 2016 ben 133 “raiders” hanno portato a termine l’immersione notturna con il più alto numero di partecipanti mai realizzata fino ad oggi.
Per dovere professionale, dunque, oggi dovrei stare qui a raccontarvi di quanto bello è stato l’evento “I 300”, quanto impegno ha richiesto da parte degli organizzatori, quanta volontà da parte di chi, sfidando libeccio e risacca, quella notte è stato in acqua ed ha reso reale quello che sembrava – se non impossibile – piuttosto complicato. Dovrei dirvi di quanto sono spettacolari le immagini dall’alto, che riprendono non subacquei ma alieni in emersione dagli abissi, illuminati dalle torce e dalle luci stroboscopiche. Dell’associazione Susan Komen, che da anni si batte per la lotta ai tumori del seno e che RAID ha scelto di supportare versando una parte delle quote di adesione di ogni partecipante: c’erano anche loro all’Elba, sabato 17 settembre, perché è per loro che “I 300” sono sbarcati sull’isola. Dovrei darvi appuntamento all’EUDI, e sperare che veniate in tanti, perché vi mostreremo il video di questa piccola magia e premieremo sul palco tutti i 133: non so se ci sarà la birra gratis anche stavolta, ma di sicuro ci divertiremo come l’anno scorso.
Eppure, questa storia voglio raccontarvela in un altro modo.
Chi è “del giro” ed “in giro” da un po’ di anni, si ricorderà certamente degli slogan che ci siamo sentiti ripetere fino alla nausea; ai più suonavano come sterili parole, o peggio specchietti per le allodole finalizzati alla vendita massiccia di corsi ed eventi di ogni sorta: “la subacquea è aggregazione”. In effetti, qualche agenzia e troppi professionisti hanno stranamente convertito questo messaggio – che aveva invece in sé verità e buon senso – in “numeri” da macinare: quanti club hai sul territorio? Quanti affiliati? Quanti brevetti hai emesso? Quanti istruttori?
Poi, venne il tempo di un nuovo messaggio, quello della tecnica e delle “imprese”. Immersioni profonde, esplorazioni estreme, prestazioni fuori dal comune: chiunque, seguendo certi programmi di addestramento, aveva finalmente la possibilità di vivere avventure… “no limits” (pare addirittura che qualcuno si sia tramutato in una nuova creatura mitologica, metà Cousteau, metà Aquaman). Di nuovo, i “numeri”: a che profondità? Per quanto tempo?
In mezzo a questo bombardamento di corsi eventi e brevetti, c’eravamo – ci siamo – noi, i subacquei-comuni-mortali, ricreativi ma anche un po’ avanzati, con gli strappi alle mute, i calzari consumati e le pinne piegate. A noi very normal divers, spesso non resta che sognare quello che solo poche persone al mondo sono riuscite a vivere: relitti inesplorati, natura esotica, fondali vergini.
Succede, però, che da un po’ di tempo a questa parte soffia un vento nuovo sul mondo delle didattiche, costrette dal mercato in crisi ad inventarsi nuove identità ed adattamenti darwiniani.
Questa volta, per fortuna, è un vento di normalità e – mi tocca dirlo, non per piaggeria – la RAID in questo senso sembra aver intuito prima degli altri in che direzione piegare le vele.
Il modo giusto di raccontare la storia del record all’Elba, secondo me, è parlare quindi di 133 persone normali che si sono immerse in soli 10 metri e sono entrate nel Guinness World Record; di 133 giovani e meno giovani, con gli strappi alla muta, appunto, o l’equipaggiamento nuovo di pacca, certificati non soltanto RAID, ma che insieme a RAID sono riusciti a raggiungere un traguardo importante col sorriso e soprattutto facendo squadra. Dei tanti che, oltre lo staff, in pantaloncini o persino in mutande – ha raccontato Stefano Stolfa, Training manager RAID Italia – stavano a mollo ad aiutare i sub che venivano fuori tra le onde, perché non è mica vergogna farsi aiutare per non affannarsi.
Mi piacerebbe raccontarvi pure di quanto questo abbia a che fare con l’essere parte di un progetto, e non con l’appartenere a qualcosa in funzione dei numeri, che siano anni di esperienza, “gradi” sulla manica o valore dell’attrezzatura che si possiede; di chi lavora instancabilmente per costruire un sistema didattico smart (ma non easy, ché evoluzione non significa semplificazione) ed avventura “per tutti”; dell’addestramento serio ma non serioso. Ma, temo, non mi basterebbe lo spazio.
A me piace pensare finalmente tramontato il tempo dei subacquei di serie A e serie B, ed iniziato quello di uno sport (Passione? Hobby? Mestiere?) che non costruisce miti ma propone obiettivi possibili, da 0 a 100 metri, dentro e fuori dall’acqua. Non chic e nemmeno cheap. Inclusivo (il valore e la portata dei successi degli atleti alla Paraolimpiadi dovrebbero farci molto riflettere sugli standard sinora proposti) e non selettivo. Aggregativo (sì, rieccoci, ma questo è, per davvero), e non competitivo.
ottimo articolo, ho apprezzato molto la parte dei very normal divers, per me che l’ho vissuta è stata proprio così fare immersione con tanti amici, battute, risate ed aiutarsi. AMO QUESTA SUBACQUEA
mi e’piaciuto molto l’articolo,da open volevo diventare un”normal ” sub,se oggi lo sono e’probabilmente anche grazie all’esempio di tanti altri normal ,con cui mi e’capitato di immergermidovremmo ricordare tutti che anche essere normal siu e’bello!!