Autore: Ivan Lucherini
Spesso nel mondo della ricerca scientifica, discipline diverse hanno faticato a trovare piattaforme di collaborazione comune al fine di una più rapida comprensione dei problemi che la ricerca stessa pone. Anche l’archeologica subacquea non è stata esente da queste logiche. Sono solo pochi anni, per esempio, che chi si occupa di archeologia subacquea, sfrutta sistematicamente le conoscenze dei geologi, al fine di poter leggere le modificazioni dei paesaggi e in particolare l’evoluzione delle linee di costa e consentire così una più corretta e puntuale individuazione degli scenari di ricerca. Purtroppo queste collaborazioni non si sviluppano ancora a vasto raggio sfruttando tutte le sinergie possibili, nell’ottica di migliorare così i sistemi di ricerca. Una di queste lacune, a mio giudizio grave, riguarda le procedure e le tecniche di immersione nei cantieri e nelle prospezioni archeologiche subacquee. Occorre qui fare una premessa. Solo 30 anni fa esistevano di fatto tre mondi diversi e non collegati fra loro. Tre comparti stagni che si occupavano di immersioni subacquee dell’uomo. Quello militare, che in origine fu l’elemento generatore di quella che poi diventò la passione di tutti noi; quello ricreativo che aveva come obiettivo la divulgazione capillare di questa pratica pseudo sportiva, sostenuto in questi progetti dalle industrie produttrici di materiali subacquei e infine quello del mondo dell’off shore e del lavoro subacqueo in genere, sia esso di alto fondale o di basso fondale. Perché ho definito questi ultimi tre, compartimenti stagni? Perché le informazioni sulle procedure di immersione, l’evoluzione della ricerca sull’uso di miscele sintetiche e lo sviluppo di attrezzature diverse dalle consuete non travasavano da un settore all’altro. La recente pubblicazione delle nuove tabelle di immersione della U.S. Navy ci fa facilmente capire come questa pratica sia consueta ancora oggi fra il mondo militare e quello civile. Trent’anni fa però qualche coraggioso “esploratore”; mi viene in mente fra gli altri il nome di Jim Bowden; cominciò a travasare grosse quantità di conoscenze e tecnologia verso il mondo subacqueo ricreativo, attingendo dal bagaglio di esperienze possedute e maturate nel mondo del lavoro. Da allora una evoluzione costante e continua ci permise di sfondare il muro della profondità e del tempo in immersione, evadere dal concetto di immersione in curva di sicurezza e dilettarci con l’uso del nitrox, delle miscele impoverite di azoto, ovvero trimix ed heliar, delle miscele ipossiche, dei rebreathers. L’esperienza, ancora oggi work in progress, di molti di noi, ci permise di affinare tecniche e procedure di immersione e travasare anche nella subacquea, che definiamo ricreativa, molti concetti sulla sicurezza. Oggi è normale vedere ricreativi sfoggiare fruste lunghe 200 cm e indossate alla maniera Hogartiana. Tutta questa evoluzione purtroppo non si è trasferita al mondo della ricerca archeologica subacquea. Sono rari e isolati i casi in cui archeologi subacquei vogliamo sviluppare metodi e cultura subacquea al fine di migliorare le loro prestazioni in acqua, ovvero sul loro campo di lavoro. Spesso vediamo funzionari della Soprintendenza immergersi ancora senza gav, convinti che questa scelta sia comunque la migliore. Formati ad un antica scuola subacquea che aveva nel suo DNA la paura di tutte le novità e di fatto la paura del progresso, con tutto ciò che questo implica.
Ora un altra osservazione: è necessario considerare che la tendenza, a mio modo corretta, dello Stato Italiano e delle Soprintendenze da esso preposte, in materia di archeologia subacquea, non sia più quello di effettuare interventi a pioggia sulle emergenze, e tanto meno di procedere a sistematici scavi e recuperi delle evidenze archeologiche, piuttosto le linee guida esprimono la necessità di procedere su tutte le acque nazionali, ad azioni di individuazione e mappatura dei siti di interesse precipuo, al fine di selezionare quelle evidenze dove sia più logico intervenire, per contribuire così alle finalità della ricerca archeologica: la ricostruzione storica degli avvenimenti che hanno fatto tanto grande il nostro piccolo Mediterraneo. Prova di questo, l’imponente progetto chiamato Archeomar, che ha visto la luce qualche anno fa e che nel corso dei lavori ha dato e probabilmente darà, frutti rigogliosi e lucenti a beneficio delle nostre conoscenze. Può ora l’archeologia subacquea ricevere un sostanzioso contributo in termini di contributi scientifici, metodi e procedure di immersione dal mondo tecnico-ricreativo della subacquea civile? Credo certamente di si.
Nel quadro di un lavoro di sistematica mappatura svolto lungo tutte le coste italiane, risulterebbe necessario procedere alla individuazione e sistemizzazione di tutti quei relitti che giacciono da migliaia di anni oltre le batimetriche in cui i corpi speciali dello Stato, non si possono immergere. Attualmente, non mi risulta in effetti, e mi scuso in anticipo se queste informazioni sono inesatte, non mi risulta dicevo, che nessuno dei corpi subacquei dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco e Forestale siano abilitati o abbiano un reparto addestrato alle immersioni con miscele sintetiche oltre i 50 metri. Sono a conoscenza solo di un reparto della Polizia di Stato che sta sperimentando procedure per immersioni di questo tipo. Oltre 50 metri questi corpi di intervento, che rispondono alle esigenze dello Stato Italiano e dei suoi apparati, fra i quali le Soprintendenze, non sono in grado di operare se non con l’ausilio di campane iperbariche e relativi esorbitanti costi. Ora posso affermare, senza paura di essere smentito, che la tecnica e l’evoluzione delle procedure per immergersi in sicurezza nella fascia di profondità che va dai 50 ai 120 metri, sia alla portata di tutti i buoni subacquei che abbiamo maturato una certa esperienza di immersioni e abbiamo capacità fisiche normali, oltre, ovviamente, ad uno specifico addestramento. Queste conoscenze e capacità potrebbero ben essere impiegate dall’archeologia subacquea per effettuare questo lavoro di mappatura. A noi sensibilizzare l’opinione pubblica di questa importante possibilità. A noi sfondare questi muri di incomunicabilità per contribuire concretamente al lavoro faticoso di quegli operatori, del Ministero dei Beni Culturali che con scarsi mezzi, obsolete conoscenze, poche gratificazioni ma con assoluta abnegazione, tanto coraggio e infinita determinazione svolgono il loro quotidiano lavoro per un bene comune che è anche e soprattutto nostro e delle generazioni a venire.
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