«Roba mia, vientene con me!». È la grottesca conclusione della novella “La Roba” di Giovanni Verga,che racconta la storia del contadino Mazzarò, “ricco come un maiale”, ossessionato dall’idea di possedere beni materiali, roba, tanto da ammazzare a bastonate anitre e tacchini in punto di morte piuttosto che cederli in eredità a qualcun altro. Quello di accumulare oggetti e beni, e di eleggerli al rango di status symbol è un vizio molto umano, dal quale di solito consideriamo immuni gli animali. Di solito.
Dalla Sicilia rurale di Verga ci spostiamo nello stretto di Lembeh. La barca diving riparte con una virata brusca che fa cadere in acqua il boccale di vetro, boccale che in Indonesia si compera al supermercato pieno di detersivo e che gli indonesiani di solito, una volta svuotato, utilizzano per berci il caffè (lunghissimo) o il tè. Il pesante bicchiere, lasciato in precario equilibrio sulla murata da un motorista distratto, colpendo il fondo solleva uno sbuffo di polvere vulcanica, che non sfugge al polpo delle noci di cocco che abita lì accanto. Possiede già un nido lui, fatto con due mezzi gusci di noce di cocco accostati, ma questo nuovo e luccicante oggetto piovuto dall’alto al confronto sembra un castello fatato, una fuoriserie cromata… «Me lo invidierebbero tutti. È profondo, liscio, comodo… Sai che ti dico? Al diavolo le noci di cocco!».
Ed è così che comincia la storia del polpo di Lembeh che viveva in un boccale. Beh, a dire il vero non sappiamo se sia iniziata proprio così, ma quello che è sicuro è che un polpo, animale dai sensi finissimi, non può confondersi, vede e percepisce benissimo la differenza tra la noce di cocco e il boccale di vetro. E sceglie il boccale a ragion veduta: massiccio, resistente, fa proprio al caso suo. E non è escluso che il fatto che sia lucido e trasparente possa essere qualcosa che ne motiva la scelta, un di più. Inutile, ma bello.
Purtroppo il mare è il buco nero dove finiscono molti oggetti umani, manufatti che vengono gettati al termine di un utilizzo onorevole e che scompaiono (per la maggior parte degli umani) nel momento in cui bucano la superficie del mare. In realtà, e lo sa benissimo il subacqueo, non scompaiono per niente ma iniziano una lunga vita in mare, come rifiuti. E se durante questa seconda vita qualche animale riesce a riciclarli, a utilizzarli?
Il polpo mediterraneo, Octopus vulgaris, si costruisce di solito una tana dall’imboccatura stretta (un polpo non ha problemi a farsi piccolo per entrarci) e che si allarga all’interno, dove se è femmina deporrà uova che hanno bisogno di spazio. Una tana a forma di bottiglia, potremmo dire. E se trova una bottiglia pronta, voi credete davvero che se la lasci sfuggire? La fa sua, diventa immediatamente la sua tana.
Ci sono metodi tradizionali di pesca al polpo, diffusi nel meridione d’Italia ma anche in Grecia e nel nord Africa, basati sull’uso di anfore legate a una corda e lasciate sul fondo. Quando vengono ritirate le anfore sono state colonizzate dai polpi, che piuttosto che abbandonare il loro tesoro fanno una fine ingloriosa. Parafrasando Verga potremmo dire «roba mia, non te ne andrai senza di me!».
I fondali di Lembeh, accanto all’abitato di Bitung, sono quelli che hanno reso famoso il muck dive, letteralmente immersione sul fango, su fondali spesso cosparsi di spazzatura, nella cacca. Provare per credere, la quantità di strane creature che si possono vedere è strabiliante. E, in un ambiente piatto, sabbioso, dove i rifugi naturali scarseggiano, una bottiglia o una lattina di coca-cola vuota sono un bene prezioso. Bavose, damigelle, pesci che depongono le uova in un nido, li colonizzano avidamente e, fortunati bricoleur, li riciclano in nidi che difendono strenuamente, attaccando l’ipotetico aggressore anche se questo ha mani, braccia, fa rumore, ed è molto più grande.
Un caso clamoroso riguarda un esperimento che feci anni fa a Manado. I pesci pagliaccio fanno un nido, se ne occupa il maschio che pulisce da alghe e incrostazioni un area di roccia vicino al piede dell’anemone e poi invita la femmina ad attaccarci le sue uova. Volevo prelevare le uova deposte in ambiente per trasferirle e farle schiudere in acquario, per iniziare un allevamento in cattività di questi animali. La mortalità delle larve che schiudono in ambiente è altissima, è il caso di dire che 1 su 1000 ce la fa, mentre in condizioni controllate è possibile arrivare a mortalità del 50% o anche minori.
Data questa premessa, come potevo fare per prelevare le uova senza danneggiarle? Certo, se i pesci pagliaccio avessero collaborato, deponendole su tavolette di plastica da me disposte, sarebbe stato facile prelevare la tavoletta con tutte le uova sopra. E fu esattamente quello che successe. Provando con 10 coppie diverse, appartenenti a specie diverse, 9 di queste, trovandosi a disposizione quella distesa bianca, liscia, pulita, pronta all’uso, la elessero immediatamente a nido.
La decima era una coppia di Amphiprion clarckii, che si ribellò alla civiltà dei consumi, arrivando a staccare la tavoletta con la bocca (l’avevo fissata inchiodandola alla roccia) per deporre le uova esattamente sulla roccia sottostante!
Gli animali si adattano ai cambiamenti che noi introduciamo nel loro ambiente, e in molti casi riciclano i nostri oggetti facendone il loro nido. Come possiamo sfruttare questa occasione fotografica? Io prèdico sempre una fotografia che mostri l’animale nel suo ambiente, e quando l’ambiente è artificiale suggerisco di riprenderlo in modo che l’artificialità sia chiara, evidente. Comunque quello è l’ambiente dove l’animale ha scelto di vivere, ed è quello che, in fotografia, ci permette di raccontare come vive. Ogni foto diventa così occasione per un’altra storia: la sapete quella del riccio che si portava dietro una scheda del telefonino?
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Articolo pubblicato su ScubaZone n.21